sabato 22 settembre 2012

Pane, amore e filosofia



Mangiare è un atto di barbarie o di civiltà? E’ un fatto legato alla semplice sopravvivenza o allo sviluppo della cultura? L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, nel suo libro “Il crudo e il cotto”, sosteneva che il nostro grado di civilizzazione riguardo al nutrimento non dipendesse dall’atto di mangiare in sé, bensì dall’atto di cucinare.
Il cibo crudo veniva associato alla barbarie e al primitivismo; quello cotto, alla civiltà e alla raffinatezza delle relazioni sociali. La concezione strutturalista dell’antropologo era molto articolata ma, in sintesi, lo portava a classificare le società in termini di strutture binarie opposte, cioè di dare-avere, amico-nemico, sacro-profano, e così via. Quindi, anche la coppia crudo-cotto si prestava bene per distinguere le culture meno sviluppate da quelle più avanzate.
E’ vero che l’unico animale capace di cucinare è l’uomo ma, con il passar del tempo e la contaminazione culturale, le interpretazioni filosofiche attorno all’atto del mangiare-cucinare si sono moltiplicate, completate e, a volte, complicate. Oggi, la letteratura in materia è tanto vasta da perderci la testa e, naturalmente, segue le trasformazioni delle abitudini sociali e l’avvicendarsi delle mode che si rincorrono alla ricerca di un’originalità sempre nuova anche a tavola, capace di conciliare estetica e gusto.
Crudo e cotto, in realtà, non sono opposti puri e, in ogni caso, in molte culture è proprio la crudità a rendere eccelso un alimento, che sia vegetale o animale. Ostriche, caviale, sashimi, tartare di pesce o carne, ma anche fave, carote e peperoni colti nell’orto e consumati in purezza, sono prelibatezze apprezzate in tutto il mondo, anche se non da tutti i palati.
Allora cosa distingue barbarie e civiltà, se non la differenza tra crudo e cotto? Forse, la capacità di cucinare non nel senso di cuocere ma nel senso di arte di trattare i cibi con consapevolezza e amore, valorizzandone le qualità senza mortificarne la natura. In questo senso, cucinare può diventare una filosofia, perché mentre si affetta un succoso cucurbitaceo, si sfiletta un argenteo sgombro, si disossa un povero pollo, si sbuccia un profumato ananas, o si affetta una fragrante baguette non si lavora solo con le mani eseguendo chirurgici rituali. Anche la testa è in fermento creativo e ha tutto il tempo per riflettere non solo sui gesti che compiamo ma anche sull’anatomia e l’essenza dei cibi che maneggiamo. Ogni alimento, crudo o cotto che sia, racchiude la sua storia e la sprigiona attraverso i sapori, gli aromi, i colori, la consistenza, i pregi e i difetti. Una storia che, attraverso le nostre mani, riacquista valore trovando il suo epilogo nei nostri piatti e, infine, nelle nostre bocche. In altre parole, i cibi non esistono solo per essere mangiati e cucinati ma anche per essere pensati.
E’ una concezione che prende corpo agli inizi dell’Ottocento, questa, ben interpretata da Brillat-Savarin il quale sapeva calarsi nell’universo dei cibi come avrebbe fatto un poeta nell’universo dell’amore. Ne la sua “Fisiologia del gusto”, a un certo punto ha dedicato una riflessione al pesce davvero deliziosa:
“Il pesce, considerato in tutte le sue specie, è per il filosofo un argomento di meditazione e meraviglia. Le varie forme di questi animali, i sensi che loro mancano, la povertà di quelli che sono stati loro concessi, le loro maniere di vita, l’influsso che su tutto ciò ha avuto certamente la differenza di ambiente in cui sono destinati a vivere, respirare e muoversi, estendono l’orizzonte delle nostre idee e delle modificazioni infinite che possono risultare dalla materia, dal movimento e dalla vita. Ho per essi un sentimento che somiglia al rispetto e che nasce dalla mia persuasione che siamo esseri antidiluviani, perché il gran cataclisma che annegò i nostri prozii verso il secolo decimottavo dalla creazione, per i pesci fu semplicemente un periodo di gioia, di conquista e di festa.”
Leggendo questa poetica argomentazione, si capisce che anche un cibo semplice e umile come il pane può diventare una festa e tradursi in argomento di meditazione e meraviglia. Così, affettare una croccante pagnotta, abbrustolirla gentilmente al fuoco e condirla con un filo di profumato olio, può rappresentare un vero e proprio atto filosofico da compiere con amore e gustare con passione.
Possibilmente in compagnia di un buon filosofo.