martedì 24 marzo 2015

QUEL TOCCO UN PO' BRITISH CHE NON GUASTA


LONDRA, UNO SGUARDO OLTRE GLI STEREOTIPI


“Home is where you are” intona una bella canzone.
In effetti, chi ama viaggiare cerca anche questo: il piacere di sentirsi a casa lontano da casa. Il modo migliore per riuscirci è affrontare un viaggio in solitudine oppure in compagnia di chi condivide questo inspiegabile richiamo verso l’ignoto, il nuovo, il diverso, facendolo proprio e diventando, cammin facendo, un camaleonte umano. E’ un’attrazione questa che guida alla scoperta di nuovi scenari, non solo esteriori ma anche interiori, perché i viaggi sono le levatrici delle emozioni e dei pensieri.
Anche quando la meta è una grande città, facile dunque da affrontare perché già nuda, spogliata dalle mani del grande turismo e non più custode di verginali segreti, è possibile intraprendere il viaggio con uno sguardo trasversale frugando dietro le maschere dei banali stereotipi per andare alla ricerca del volto autentico della città.
Così, anche una metropoli come Londra, raccontata in un’infinità di versioni che alla fine trasformano in una cartolina senza vita anche la città più dinamica, può essere colta da punti di vista alternativi. Probabilmente, la prospettiva perfetta da cui partire per affrontare Londra è quella più nascosta eppure essenziale alla sua stessa vita: la metropolitana.


Utilizzare la Tube non è solo il modo più utile per ottimizzare i tempi di visita della città. E’ anche il modo migliore per mescolarsi alla gente che ogni giorno, moltiplicata in migliaia di individui, si riversa nelle viscere della città, come un fiume di formiche ligio al proprio destino. E’ sorprendente la massa imponente di gente che si muove lì sotto, di tutte le razze, di tutte le età, di tutti gli idiomi: un ordine sovrumano sembra dirigere il brulicare umano concertandolo attraverso i labirinti sotterranei che, puntualmente, consegnano ognuno alla propria meta. Lo stesso ordine regna dentro i treni, anche quando traboccano di gente da non poter quasi respirare, anche quando si è costretti in piedi incollati l’uno all’altro, in una paradossale forzata intimità per dei perfetti sconosciuti che condividono solo un tratto di scomoda urbanità. 
Dietro le tante sfumature di pelle, di capelli, di occhi…dietro ogni singolo individuo con la sua patria linguistica e la sua grammatica di sentimenti, vince lo stesso composto silenzio incoraggiato da cuffie e auricolari che incapsulano ognuno dentro un mondo paradossalmente ovattato. Ad osservare questo scenario umano, tanto variegato quanto uniforme, viene naturale parlare sottovoce anche nel trambusto del trasporto. Trasporto che ha origini lontane. Infatti, l’idea di bucare il suolo per far scorrere dei treni sottoterra è nata proprio qui, a Londra, quando nel 1854 il Parlamento autorizzò la Metropolitan Railway Company a progettare un primo collegamento sotterraneo tra Paddington e Farringdon Street, passando per King’s Cross, per ovviare al già imbarazzante traffico della città in superficie. Da allora la rete dell’Underground londinese si è ramificata vertiginosamente e immaginare oggi Londra senza metropolitana equivarrebbe a pensare a un mondo virtuale senza “link”. Tant’è vero che il simbolo stesso della Tube ( Bar&Circle, ovvero il cerchio rosso attraversato da una barra blu con la scritta bianca) è diventato una delle icone dell’identità britannica. Una strategia di marketing ideata dal grafico Frank Pick nel 1908 e tuttora bandiera dell’identity londinese, insieme ai taxi, alle cabine telefoniche e ai bus.
Vista l’importanza della Tube anche per il turista di passaggio, ecco un consiglio pratico: prima di avventurarsi nei meandri sotterranei, o di accedere a qualsiasi altro mezzo pubblico della città (battelli inclusi), è bene procurarsi la Oyster Card: una tessera magnetica ricaricabile con cui pagare ogni accesso ai mezzi.


Dopo aver espugnato le viscere della metropoli ed essersi impadroniti delle sue mappe sotterranee, si è pronti per affrontarla in superficie, dove la gente riaffiora come un dirompente fiume carsico alla ricerca di luce e di aria. Aria tutto sommato pulita e gradevole, nonostante il traffico del centro, alleggerita dai vasti polmoni verdi che generosamente restituiscono ossigeno al cemento. Lo smog soccombe sotto le improvvise zaffate odorose di spezie e di fritto, veicolate qua e là per la città, un invito a fermarsi in uno dei tanti ristorantini asiatici e nordafricani dai seducenti effluvi esotici, o a portarsi con sé una porzione di croccante Fish&Chips da gustare camminando.
Anche in superficie l’impressione è che regni un caos ordinato, come se l’imperativo “to queue” (fare la coda) sia intrinseco nel dna dei londinesi, sia a piedi sia in auto, ma anche dei visitatori che quasi inconsapevolmente vengono contagiati dalla necessità di rispetto e di educazione.


Da Buckingham Palace a Westminster Abbey, dal Big Ben al Tower Bridge il traffico fluisce frenetico e prevedibile allo stesso tempo, colorato dai bus rossi e dai cab neri, dando il tempo agli incerti pedoni stranieri di capir bene da che lato guardare prima di attraversare la strada per non rischiare d’essere investiti. Uno sguardo alla cartina in mano e uno davanti a sé per avvistare la prossima meta da raggiungere: Carnaby Street, Covent Garden, Soho, Chelsea, oppure Hampstead, East End, Brixton,  ….? Pub o ristorante, mostra o musical, tradizione o trasgressione …? Ogni quartiere, ogni locale e persino ogni ora del giorno, a Londra, hanno una propria personalità dove ognuno può trovare corrispondenza con il proprio stato d’animo.
Una volta che ci si è impadroniti dei mezzi pubblici è un gioco espugnare la città in poco tempo, vantando il privilegio di non sentirsi più turisti di passaggio ma gente del posto, camaleonti umani, appunto. Così, si può gustare Londra seguendo il proprio mood: dai solenni musei ai quartieri più trendy, dai palazzi reali ai grattacieli spaziali, dai teatri storici alle gallerie d’arte moderna. 


Ogni angolo, accanto alla storia, vede fiorire un futuro in constante divenire, e lo si nota dalle decine di gru al lavoro un po’ ovunque: l’architettura di questi ultimi anni ha conferito alla città un profilo inatteso, in progressiva evoluzione, soprattutto con il controverso The Shard – il grattacielo partorito dal genio creativo di Renzo Piano - che, come una vertiginosa scheggia di cristallo di 310 metri, fende il cielo quasi a voler graffiare le nuvole alla ricerca di un raggio di sole. Questa monumentale proiezione dell’ambizione umana che sfida le vette della natura conferisce alle notti londinesi uno sfavillante fascino ma anche un nuovo ordine logico allo skyline. 


Così, nel buio, la città assume una nuova veste, instancabile nel suo disinvolto sfilare per il piacere di un pubblico mai stanco di guardare. E dall’altro lato, il London Eye affacciato sul Tamigi fa da contraltare al palazzo di cristallo, ricordando, con il suo pigro roteare, che dopo tutto nell’inesorabile ripetitività quotidiana e nell’apparente ordine domestico c’è sempre qualche cosa di nuovo e inatteso per cui vale la pena vivere.
La stessa sensazione di ritrovata novità la si prova passeggiando per uno degli immensi parchi che inebriano l’aria di Londra – possibilmente la mattina, quando la città appena si risveglia –lontano dalla giostra frenetica della civiltà: Hyde Park, St. James Park, Kensignton Garden offrono un’immersione nel verde che riconcilia il corpo con lo spirito. 


Uno dei parchi più invitante è quello che ospita il Royal Observatory, il Greenwich Park. E’ qui che ha sede il Meridiano Zero: non semplicemente una linea immaginaria convenzionalmente usata per suddividere la Terra in meridiani e paralleli. Ma un concetto partorito dalla mente umana per dare un ordine artificiale all’incommensurabilità della logica naturale, ottenendo un miracolo terreno: misurare il tempo e attribuire ad ogni fetta del pianeta un fuso orario preciso.  


Vale la pena fare una sosta in questo luogo sacro alla scienza, non solo per la bellezza architettonica dell’Old Royal Observatory, che dal 600 è uno dei monumenti più attraenti del mondo, e non solo per visitare il National Maritime Museum appollaiato più sotto nel magnifico verde. Vale la pena venire qui anche per visitare Greenwich Village con la Cutty Sark, imponente nave dell’800 testimone di audaci imprese rimaste scolpite nella storia dei commerci marittimi britannici. Di fronte al piazzale che la ospita, il Canary Warf al di là del Tamigi riassume passato e presente in un affastellarsi di giochi architettonici che custodiscono il mondo finanziario della moderna Londra. Da qui, prima di sfociare di nuovo nella City – con uno dei battelli o con il treno da Cutty Sark Station – si può prolungare il piacere della visita con una sosta in uno dei ristorantini più seducenti della zona. Si trova a Blackheath, poco lontano da Greenwich Village, e si chiama The Suffron Club: un angolo di Asia, dove il meglio della cucina nepalese s’intreccia al meglio di quella indiana, ricreando un’atmosfera di sapori e profumi indimenticabili. Un motivo in più per tornare da queste parti, con la comodità di alloggiare in un Hotel a pochi passi da Greenwich Park: The Clarendon Hotel, affacciato su un morbido prato che riassume tutte le sfumature della tipica campagna inglese, con tanto di scoiattoli e volpi in libertà.


La quiete di questo luogo fa dimenticare in fretta le vette di cristallo della City, con i suoi rivoli di gente che scorrono sottoterra. Tutto sembra immobile, scolpito in un passato laborioso e fiero. Qui le case e persino le persone che le abitano sembrano avere un altro aspetto rispetto all’umana fauna della City. Gli edifici ricordano i quartieri allineati in cui era cresciuto Oliver Twist, intrisi di una malinconica ripetitività, tipica dei romanzi di Charles Dickens. Edifici rivestiti di mattoncini marroni e grigi consumati, con porticine di legno lillipuziane, una fetta di giardino un po’ arruffato e i tetti sbuffanti da cui spuntano tozzi comignoli simili alle mammelle di una mucca capovolte all’insù. Quest’uniformità delle abitazioni sembra ricalcare l’aspetto delle persone, soprattutto dei bambini e dei giovani studenti, educatamente infilati in eleganti divise scolastiche che li trasformano in un piccolo esercito ordinato, unito dalla stessa nobile missione: la conquista della cultura.


Anche questo dignitoso anonimato, dopo tutto, fa parte di Londra: un gigantesco cuore pulsante aperto al mondo e fiero del proprio mondo, inafferrabile nel suo eterno divenire, eppure tentacolare nel suo aggrapparsi a radici storiche profonde e inespugnabili. 
E in questa geografia umana dalle mille sfumature in cammino verso il futuro, in quest’accavallarsi architettonico di tradizioni e di evoluzioni, è facile trovare dietro un’apparente alienazione quell’ordine naturale che ci fa sentire a casa anche lontano da casa. 
Home is where you are. Così, forse, una volta tornati alla  consuetudine domestica – quella della nostra vera casa - ci verrà spontaneo ripensare con piacere a quei luoghi comuni che etichettano gli inglesi in facili stereotipi, dietro cui tutto sommato albergano alcune profonde verità. Sarà naturale, allora anche per noi, prestare attenzione al “gap” scendendo dal treno in metropolitana, guardare prima a destra quando si attraversa la strada e obbedire pazientemente alla coda davanti a una biglietteria senza sgusciare in meschine scorrettezze, arricchiti di quel tocco un po’ british che non guasta. 
Anche a casa nostra! 

domenica 15 marzo 2015

SEI GIORNI IN UNO ZAINO



Straniera nella mia città, sono pronta a ripartire.
Questa volta volo in Inghilterra, direzione Londra e dintorni. Ma questa volta parto nella maniera più libera possibile. Niente valigia e inutili fardelli, solo uno zaino in spalla con dentro il minimo necessario per sentirmi a casa lontano da casa. In fondo, per chi ama viaggiare cosa c'è di indispensabile se non tanta curiosità e voglia di imparare?
Così, come una tartaruga forte del suo bel carapace, me ne andrò leggera per sei giorni alla scoperta delle atmosfere altere e solenni di Londra e Cambridge, per approdare alle spiagge ventose e multicolori di Brighton. Mescolerò al sapore british di un fumante fish and chips consumato su un prato di Hide Park, le fragranze speziate dei ristorantini indiani e nepalesi che animano la città, in un piccante sposalizio esotico che sollecita i sensi. Perché anche il cibo è linguaggio e racconta la storia di un Paese.
Sei giorni in uno zaino, dunque. Uno zaino mezzo vuoto alla partenza ma che, strada facendo, si riempirà di profumi, immagini ed emozioni impazienti di essere vissute e raccontate da una vagabonda, straniera nella sua città! 

domenica 8 marzo 2015

Un cielo fitto di stelle



“Ricordo che passato lo tsunami, quando ho aperto gli occhi, ho visto un vuoto desolante intorno a me, ma anche un cielo immensamente fitto di stelle sopra di me. Erano tantissime e bellissime. Allora ho pensato che tutte quelle stelle dovevano essere le vite umane cadute sotto lo tsunami e andate a brillare lassù. Per loro, noi sopravvissuti avevamo il dovere di ricominciare e di ricostruire insieme il nostro paese, il nostro futuro… ”
Questa è una frase toccante che ho ascoltato in uno dei  documentari trasmessi in questi giorni da un’emittente giapponese, NHK World, durante un’intervista a un sopravvissuto alla catastrofe dell’11 marzo 2011 in Giappone. Con voce ferma e sguardo limpido, l’uomo intervistato è riuscito a comunicare con dignitosa commozione l’essenza del modo di sentire e di pensare orientale, così lontano dal nostro.
L’inevitabile dolore che ogni essere mortale capace di soffrire vive di fronte a una devastazione di tale portata suscita reazioni così diverse a seconda della cultura e della religione in cui si è imbevuti. Noi occidentali, e soprattutto noi italiani, di fronte alla perturbante ribellione della Natura che ci ricorda quanto siamo minuscoli rispetto ad Essa, abbiamo bisogno di trovare subito un colpevole. Qualcuno contro cui scaricare tutta la rabbia che la nostra impotenza alimenta, perché giustizia sia fatta in un processo terreno dove ognuno s’improvvisa giudice divino, con tutte le infami speculazioni che ne conseguono.
Gli orientali invece, e soprattutto loro, i giapponesi, non hanno bisogno di trovare un colpevole ma una soluzione, perché si sentono parte della Natura anche quando si scatena contro ogni previsione. L’obiettivo si profila nitido, schietto, mentre ancora la catastrofe fa sanguinare le ferite aperte: bisogna rialzarsi tutti insieme per trovare il modo migliore di rimettere assieme i brandelli e trasformarli di nuovo in case, scuole, ponti, strade. “Insieme” è la parola magica che fa la differenza: uniti nello stesso dolore, noi ci azzanniamo per scagionare le nostre colpe e puntare il dito sulle responsabilità altrui. Loro si prendono per mano per ricominciare daccapo, subito, riuscendo a trasformare il dolore in volontà e la tragedia in coraggio.
Da ogni catastrofe può nascere un insegnamento. E ripensando alla frase di quell’uomo dalla voce ferma e lo sguardo limpido, penso che dovremmo tutti imparare a guardare con occhi nuovi un cielo fitto di stelle in una notte buia. Forse quel cielo ci aprirebbe gli occhi e ci aiuterebbe a vedere ‘oltre’ i nostri stessi limiti.

domenica 1 marzo 2015

Le stagioni dell'Anima



Passeggiavo lungo il fiume oggi.
Una timida mattina di marzo appena nato, dipinta lievemente di un rosazzurro velato. Passeggiavo senza una meta e guardando la natura tutt’attorno, ancora acerba e sonnolenta, pensavo che dopo tutto le persone somigliano alle piante nel loro cammino lungo i sentieri della vita. Anche l’essere umano, infatti, obbedisce a una specie di ciclicità terrena, seguendo le stagioni dell’Anima: percorre tratti d’esistenza più o meno lunghi, più o meno ramificati, più o meno intensi, e poi a un certo punto, si accorge che per poter andare avanti, deve necessariamente abbandonarli e lasciarsi indietro parti di sé. Deve morire per poter rinascere. Deve potare arbusti secchi e foglie avvizzite, fardelli e orpelli che conserveranno tracce nei ricordi ma che lasceranno spazio a nuove fioriture, a nuove crescite. A nuovi incontri.
Pensavo, insomma, che puntualmente sul sentiero della vita sopraggiungono stagioni in cui occorre liberarsi del passato per raggiungere il futuro, senza rinnegarlo o dimenticarlo – guai, perché senza memoria saremmo nessuno - ma accettandolo consapevolmente come qualcosa che è stato e che ora non è più. Dentro quel passato di cui ci amputiamo ci sono anche compagni di viaggio che hanno condiviso parte della nostra esistenza ma che tuttavia non ci corrispondono più, perché troppo lontani da ciò che diventiamo. Dentro quel passato di cui ci amputiamo c’è una parte di noi che rivendica nuova linfa vitale e che ha bisogno di terra fragrante, di aria pulita e di acqua fresca per rinascere tenace e vigorosa. Proprio come le piante!
Ripensandoci, forse la passeggiata lungo il fiume in questa timida mattina di marzo appena nato, immersa in una natura ancora acerba e sonnolenta, non era affatto casuale. 
Una meta l’aveva…