lunedì 31 agosto 2015

Il candore del pudore perduto



Ebbene sì, ci son cascata anch’io.
Ultimamente mi son sentita risucchiata in quell’inspiegabile mania di fotografarsi con la smania di condividere lo scatto del momento con l’anonimo pubblico di un social network.
E allora mi son chiesta perché.
Cos’è che ci fa salire tutti, senza distinzione di sesso né di età, su questa grottesca giostra dell’esibizionismo e del voyeurismo a metà tra il frivolo e il patetico. Ma soprattutto, cos’è che urge dentro di noi e ci spinge all’impellenza della condivisione, calpestando il candore del pudore?
Narcisismo, forse. O piuttosto insicurezza?
Senz’altro la vanità di immortalarsi in situazioni particolarmente significative, sia esteticamente sia emotivamente, vince un po’ per tutti. Così come la sensazione di precarietà che muove il desiderio di fermare quel preciso istante scolpendolo dentro un’immagine scattata con l’apparente spontaneità di un selfie (che in realtà di spontaneo poco ha).
Eppure, inseguendo meglio questo ragionamento nato un po’ alla rinfusa, mi chiedo se non esista una spiegazione più profonda a questa forma di dilagante “vanità virtuale”.  Una spiegazione scientifica, psicologica o magari etologica.
Sì, perché questo voler esserci a tutti i costi nello spazio mediatico con la propria faccia, il proprio contorno, le proprie emozioni mi fa pensare all’istinto comune di certi animali tradotto in versione umana. L’istinto che cani e gatti maschi, in particolare ma non solo, hanno di marcare il territorio con la propria urina emanando messaggi olfattivi inequivocabili circa il loro passaggio. E’ come se anche l’animale uomo sentisse la necessità vitale di garantirsi in qualche modo un pezzetto di web, condividendo sì ma anche rubando agli altri una fettina di mondo virtuale. E non potendo ovviamente esercitare questo bisogno attraverso l’odore corporale, lo fa attraverso l’espressione dell'immagine.
“Guardate, qui sono passato io, proprio in questo istante!” pare voler comunicare l’ennesima foto scattata e postata con la velocità di un click. Le parole sarebbero più impegnative, si correrebbe il rischio che nessuno o pochi vi prestino attenzione. Ma le immagini, quelle sì che comunicano senza impegno. E immediatamente dopo la “pisciatina di sé sul web” scattano i conseguenti meccanismi emotivi, più superficiali ma estremamente devastanti e contagiosi: quelli nati dai compiacimenti pubblici, che gonfiano l’umano narcisismo, o quelli nati dall’assenza di apprezzamenti che, al contrario, alimentano l’umana frustrazione.
Di certo, forse, resta solo l’umana illusione di poter conquistare un frammento di spazio fermando il flusso del tempo, partecipando a quest’orgia collettiva di selfie. Con il rischio di dimenticare del tutto il candore del pudore.