giovedì 13 novembre 2014

CIBI DI STRADA


C’ERA UNA VOLTA …
Storia e tradizioni dei cibi di strada


C’erano una volta i libri viventi, quelli per bambini. Erano quei libri di fiabe, di racconti, di leggende, in cui da ogni pagina aperta fuoriusciva una scena narrata, ritagliata e colorata di personaggi e situazioni che rendevano il libro parlante, animato, “vivo”, appunto.
E sfogliare il libro scritto da Carlo Giuseppe Valli, titolato guarda caso “C’erano una volta i Cibi di Strada”, trasmette quella stessa emozione fanciullesca ormai perduta: quella di veder comparire davanti agli occhi i personaggi di cui si sta leggendo, di sentire gli odori delle scene ritratte e di toccare, anzi meglio, assaporare le fragranze, gli effluvi e gli aromi sapientemente evocati dalle righe stampate.
Valli, ancora una volta, ha saputo mettere in scena la cultura del mangiare popolare di un tempo, un tempo non troppo lontano perché molti dei nostri nonni ancora l’hanno a cuore, scolpita nelle rughe della fronte e nelle pieghe dell’anima. Certo è che rivivendo le storie di cibi e di ambulanti, di voci e di parole, di strade e di piazze, anche il tempo della cultura della fame diventa nostalgico, fatato, e l’amaro sapore della povertà acquista un piacevole retrogusto d’orgoglio. Da queste pagine emerge, infatti, un popolo incredibilmente abile a inventare cibi stuzzicanti ed energetici a partire da una manciata di ingredienti messi insieme, cotti e venduti per le strade e nelle piazze. Cibi che obbedivano rigorosamente alle leggi delle stagioni e all’impronta della territorialità, con assoluto rispetto per l’appartenenza regionale.
Il trippaio, il porchettaio, il poliparo, la mistucchinaia, la zucca barucca, la polenta o cara, il mellonaro,il brustolinaio, il venditore di castagnaccio, l’ambulante della sete … erano tutte figure popolari sgorgate dagli strati più umili della società che animavano la vita quotidiana delle nostre città, con qualche colorita variante d’appellativi da regione a regione. Questi girovaghi del cibo, questi cuochi improvvisati, collocavano ogni giorno negli angoli delle piazze, dei carrobbi o nelle viuzze dei rioni più frequentati, i propri trabiccoli di cuocitura coi modesti attrezzi di lavoro. Era una vetrina itinerante fatta di una caldaia annerita, una fornacetta, un banchetto, pentolame vario, vasi, catini, cesti e poi le vivande da preparare. “Mestiere individuale, ramingo, solitario, precario, in qualche modo specializzato poiché ciascuno si basava su un unico prodotto, singolo e diversificato o al più su una categoria, su una gamma ristretta, ed aveva il suo andito, la sua demarcazione senza invasioni, sconfinamenti ed eccessive concorrenze. Tutto al contrario dell’universalismo odierno, come nei supermercati, dove si tende a vendere di tutto a tutti.”
In verità, i venditori di cibo per strada ci sono sempre stati, sin dall’antica Roma, e sempre ci saranno, tanto che oggi lo street food è diventato trendy. Ma quelli là, quegli inconsapevoli attori di un’epoca che pare uscita da un affresco, erano ignari artefici e artisti di una piccola, geniale commedia culinaria, svolgendo un ruolo tanto necessario quanto marginale, umile, faticoso. In quel caleidoscopico universo sociale che era la cultura della fame, gli ambulanti del cibo rappresentavano una presenza rassicurante e consolante e le recite alimentari quotidiane non erano solo un’occasione per un assaggio veloce o per svagare la gola, come oggi a passeggio. Quegli appuntamenti con lo stesso buon odore che anticipava l’atteso sapore, con lo stesso volto grato proteso dal banchetto, rappresentavano “una parvenza d’abbondanza, da paese di Bengodi … un baleno di sogno, un momento di delizia senza attese e senza pretese”. Persino le autorità cittadine ben sopportavano questi cuochi ambulanti, da Milano a Venezia, da Roma a Napoli, riconoscendoli come veri e propri “portatori di sollievo”.
Ecco cos’era in verità questo leggendario “cibo da strada” raccontato da Valli attraverso i suoi pittoreschi teatranti di vita vissuta: sentimento, emozione, gusto di mangiare con gusto, piacere della scoperta, della conquista, del soddisfacimento d’aver potuto fare la spesa, gioia d’esser vivi e in compagnia d’altri vivi, gratificazione per quell’aria di festa che, alla faccia della povertà, aleggiava tutt’intorno e nell’intimo dell’animo.
C’era una volta, oggi forse non c’è più.

I CANTI DEL VINO



Lode ai piaceri bacchici

“Nella speranza di non sentire più dire: ‘mi dia un’ombra di vino’ ma sperando che la gente si possa fare una discreta cultura enologica e di poter finalmente sentir chiedere sì, un’ombra, ma di QUEL Vino, di QUELLA zona e di QUELLA annata!”
Così esordisce un elegante libretto, invitante al primo sguardo, scritto da Gianni Zardo, veneziano di lungo corso e - come ogni buon veneziano equipaggiato di cultura, sensibilità e passione - fedele amante dell’universo enologico. Una passione tramandata dal padre e racchiusa con lirica saggezza in queste pagine a lui dedicate, titolate I Canti del Vino: un omaggio alla famiglia, alla tradizione ma anche un dono a chiunque volesse abbeverarsi di gocce di cultura assai rare in circolazione e spesso dimenticate dentro bottiglie dalle etichette patinate.
Un libretto istruttivo ma anche evocativo di emozioni e di amorosi sensi. Per Zardo, infatti, il vino non è un oggetto ma una persona e come tale ne parla. E’ una creatura viva, necessita cure, affetto e attenzioni, è amico con gli amici e nemico coi nemici. Insomma, il vino è come l’essere umano: nasce, vagisce, vive, cresce, freme, matura, canta, patisce il caldo e soffre il freddo, può ammalarsi e morire. Proprio come noi.
Allo stesso modo, anche la bottiglia, ogni singola bottiglia di vino, rappresenta un universo a sé, una creatura con una propria storia, nascita, maturità e morte. Una bottiglia di vino chiusa, a temperatura di cantina o di frigorifero, che pazientemente attende d’essere violata dall’impudenza del cavatappi e in seguito lentamente scoperta dall’olfatto, prima, e dal palato, poi, di chi la farà per sempre sua … scoperta dai sensi eccitati di quel primo amante che la possiederà … non è forse come un verginale frutto che offre intatte le proprie virtù a chi ancora non ne conosce il bello? Quale bouquet, quali sentori, quali sfumature e quali emozioni si celeranno dentro quel corpo di vetro affusolato ancora imbavagliato? 
Io sposo il pensiero di Zardo, amabile cantore del Vino, autore di una ‘mattata’, come la chiama lui. Degustatori, assaggiatori e critici dell’enogastronomia a parte, il rapporto tra un sorso di vino e se stessi è innanzitutto una questione di assoluta intimità, un fatto personale non comunicabile, come il corteggiamento tra due amanti guidati dagli istinti: è un primo bacio che può finire con un improvviso mal di testa e un addio per sempre, oppure con una sospirata promessa di matrimonio, tacitamente scambiata tra la tovaglia e il lenzuolo.
Cin cin!