martedì 4 settembre 2012

Un metodo molto pericoloso



Molti di voi hanno probabilmente visto al cinema “A Dangerous method”, l’ultimo capolavoro di David Cronenberg. Forse, però, pochi hanno letto il libro di John Kerr, “Un metodo molto pericoloso”, cui il regista canadese s’è ispirato per la sua sceneggiatura.
La storia si basa su fatti realmente accaduti agli inizi del secolo scorso e ruota attorno a tre personaggi coinvolti in un denso intreccio intellettuale e umano: Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, Carl Gustav Jung, suo intimo collaboratore, e Sabina Spielrein, giovane ebrea russa, paziente di Jung e poi allieva di Freud. Fu lo psicanalista Aldo Carotenuto a rendere pubblico per la prima volta il carteggio privato tra i tre, rinvenuto in uno scantinato ginevrino negli anni Settanta. Il manoscritto fu pubblicato nel 1980 come il “Diario di una segreta simmetria” e, forse, allora nessuno immaginava che quel prezioso documento sarebbe un giorno diventato un film di successo. Anzi, due, perché una prima sceneggiatura fu proposta nel 2002, da Roberto Faenza, con il film Prendimi l’anima, destinato tuttavia a non destare lo stesso clamore di quella di Cronenberg.
La storia, dunque, è nota. Tuttavia, là dove il film spegne i riflettori accendendo il piacere delle emozioni, il libro prosegue alimentando la voglia di sapere di più.

Il film.
La grida di rabbia di Sabina Spielrein (interpretata da Keira Knightley) irrompono nella sala buia alla prima inquadratura. La giovane donna, vestita di verginale bianco, viene strascinata a forza fuori dalla carrozza fin dentro l’ospedale Burghölzli di Zurigo, per essere curata dalla sua grave forma di isteria psicotica. E’ il 17 agosto 1904 e la ragazza è affidata al dottor Jung (Michael Fassbender), appena trentenne, da poco sposato con la ricca ma insipida Emma Rauschenbach, in attesa della loro prima figlia. Jung appare verosimilmente intelligente e ambizioso, tuttavia ancora acerbo e impreparato ad affrontare sia una malattia psichica di cui ancora poco si sa, sia una paziente così coinvolgente. L’analisi comincia nel rigore del setting: Jung siede su una sedia alle spalle della ragazza, accompagnando la fuga associativa dei suoi pensieri. Affiorano ricordi di un padre-padrone e di un’infanzia disturbata da una sessualità confusa, ricordi tanto torbidi e sporchi da stravolgere la gentile bellezza della donna in grottesche smorfie di dolore. Tuttavia, presto i confini del setting si sgretolano sotto la pressione di una partecipation mistyque che attiverà in entrambe nuclei affettivi pericolosi e inesplorati. E’ l’inizio del delirio. Quei due intensi mesi d’analisi avviano da un lato la donna verso una lunga e sofferta abreazione che, nonostante tutto, la condurrà alla guarigione e al riscatto di sé; dall’altro precipitano Jung in una tormentata malattia interiore, agitata dal crescente coinvolgimento analitico-amoroso con questa paziente dall’irresistibile carica psichica. Jung si sentirà talmente disarmato da chiedere aiuto a Freud (Viggo Mortensen), più anziano ed esperto: è questo il primo caso noto di supervisione in analisi. Acuto e impeccabile, Freud contribuirà a districare la matassa relazionale non senza traumi, avviando la storia di tutti e tre verso un epilogo conflittuale ma inevitabile e, al contempo, indirizzando la storia della Psicoanalisi verso l’evoluzione storicamente nota.
A spingere verso il baratro il giovane Jung contribuisce Otto Gross (interpretato da un intrigante Vincent Cassel), eccentrico medico e figlio di un noto criminologo. In quei mesi Otto viene affidato a Jung perché argini i suoi comportamenti trasgressivi in un’epoca impregnata di perbenismo e moralismo: è un altro caso di lotta contro il padre, come la Spielrein, in più è un erotomane, cocainomane, assertore del diritto alla poligamia e del suicidio. Quanto basta perché Otto e Jung vadano subito d’accordo. Sono due gemelli psichici, risucchiati nel vortice di una reciproca analisi, da cui Otto uscirà sconfitto, bruciando precocemente la sua romanzesca vita al fuoco dei suoi stessi archetipi, mentre Jung, corrotto dai suoi mefistofelici consigli, si fermerà a quell’oasi sospirata. Busserà, cioè, all’ipnotica porta di Sabina, cedendo definitivamente al suo abbraccio, tanto casto quanto mortifero. A volte devi fare qualcosa d’imperdonabile per continuare a vivere ed è ciò che sta per fare Jung.
Il film non è, dunque, solo la storia di tre personaggi. E non è nemmeno la storia d’amore tra Jung e Sabina, perché un’altra relazione profonda si pone in primo piano: quella tra Jung e Freud. L’anima di tutta vicenda trascende i singoli attori, perché, la vera protagonista è la Psicoanalisi: è la storia del pensiero di Jung, di quello di Freud e delle patologie con cui essi vengono giornalmente in contatto attraverso i loro pazienti. Perché è indubbio che il pensiero di ognuno è sempre debitore di coloro con cui si entra in risonanza. Il film lo racconta bene, in maniera molto suggestiva e coinvolgente, focalizzando la psicoanalisi non solo attraverso le sue teorie ma soprattutto puntando sul suo metodo, centrato sulla parola e sull’ascolto. Tutto ruota, dunque, attorno a quell’alchemica coinfettazione tra terapeuta e paziente da cui entrambe escono inevitabilmente modificati.
Il film riesce a dialogare a più livelli, catturando anche lo spettatore a digiuno di psicoanalisi e non a conoscenza della storia, come ho potuto constatare poi. Il susseguirsi delle scene è cadenzato con un ritmo perfetto, soppesato come il respiro di un atleta, preciso come il ticchettio di un orologio, grazie alla raffinatezza dei dettagli, alle ambientazioni realistiche e alla fedeltà dei dialoghi. Si assapora l’aroma di sigari e pipe, sfoggiati da mani inguantate e allusivi d’altre viziose dipendenze; si respira la brezza marina durante il viaggio di Freud e Jung verso l’America mentre i due duellano con pungenti battute; e si palpa il misterioso cigolio della libreria di Freud, anticipato da quel significativo calore nel diaframma di Jung durante uno dei loro colloqui. Che sia un puro caso o sincronicità non vien detto ma è deliziosamente lasciato alla sensibilità di ogni spettatore. Mai una sbavatura, dunque, mai una forzatura. Nemmeno durante le scene d’intimità tra una Sabina masochisticamente profferta alle sculacciate di Jung, che è sì amorevole complice ma solo parzialmente partecipe. La narrazione è così velata da convincere che il taciuto sia monumentale rispetto all’esplicito, come nell’attimo in cui s’allude alla perduta verginità di lei tra le braccia di lui, dettaglio clamorosamente sfuggito all’attenzione di un fanciullesco Jung.
Le allusioni erotiche e i sottintesi concettuali riempiono lo schermo fino all’ultimo e la partecipazione è tale che si approda con rammarico alla fine. Si arriva insieme a Jung – più malato dell’anziano Freud – con lo sguardo rovesciato su un lago apparentemente calmo. Un lago che diventa specchio della sua anima, su cui incombe l’angoscia di un sogno premonitore di sangue e sciagure. Il suo delirio è forse il prezzo necessario alla rinascita, perché solo il medico ferito può guarire. Accanto a Jung, la vita sboccia in grembo a una Sabina forte della sua conquistata femminilità, a sua volta rinata e sposata con un medico che presto la lascerà per sempre, a conferma che la crescita è un susseguirsi di vita e morte, di fusione e separazione. L’immagine del figlio che porta con sé dona un brivido d’illusorio sollievo del tutto fugace, perché il destino di Sabina, pur premiato dal successo come psichiatra, sarà troncato dalla falce nazista cui lei stessa si consegnerà ingenuamente insieme alle figlie.
All’orizzonte, poco prima che sullo schermo scorrano i titoli di coda, compare lo spettro della prima guerra mondiale e l’imminente separazione delle strade dei due grandi psicoanalisti.
Il resto è silenzio.


Il Libro.
John Kerr, l’autore di questo bel libro edito in Italia da Frassinelli, si è formato come psicologo clinico alla New York University. Con quest’ultimo saggio, ha voluto ripercorrere la nascita della psicoanalisi, interpretandola come la profonda interazione tra le idee del suo padre simbolico e quelle dell’allievo dissidente. In questa lettura storica, Sabina Splielrein diventa il ‘giro di vite’ nel percorso evolutivo di Jung, in parte responsabile del suo distacco da Freud. La separazione tra i due uomini rappresenta per entrambi la fine di un’avventura umana e intellettuale che nessuno dei due riuscirà mai a colmare. Insieme, Freud e Jung, hanno aperto un immenso orizzonte su un nuovo modo di affrontare il paziente: attraverso l’ascolto, la parola, dove persino il silenzio diventa una modalità di dialogo e di reciproca comprensione. La vera tragedia è, invece, quella di non essere riusciti a fare del metodo psicoanalitico uno strumento scientifico. Questo dramma è ben riassunto nel libro di Kerr che comincia molto prima della trama del film e, dove questo finisce, apre una seconda sceneggiatura, centrata sul delirio e sui sogni di Jung, ferito ma fermo nella volontà di ritrovare se stesso.
L’epilogo del rapporto tra i due psicoanalisti è simbolicamente segnato da una data precisa: il 7 settembre 1913, quando si apre il IV Congresso Psicoanalitico Internazionale. All’Hotel Beyerischer Hof di Monaco si riuniscono ottantasette illustri medici, tra cui naturalmente Freud e Jung, quale Presidente del convegno. Lo scisma tra i due geni è aspro e ormai insanabile. Sabina Spielrein non è presente. La sua gravidanza, del resto, non avrebbe giovato ai due uomini, poiché avrebbe evocato dolorosamente le origini del loro divorzio. Una notte, per autodifesa psichica, Sabina sogna persino di uccidere Jung, nell’inconscio tentativo di liberarsi dal bambino spirituale ancora conflittualmente vivo in lei: Sigfrido, l’eroe martire, il bambino senza padre, ovvero l’amato Jung. Poche settimane dopo, Sabina partorirà Renate, una femmina, una bambina forte e sana, battezzata simbolicamente con il nome della rinascita, ad allontanare definitivamente lo spettro della morte.
Tutto ciò è devastante per Jung: la rottura con Freud, la vendetta di Sabina, l’incerto futuro della psicoanalisi. Tuttavia, la cruda realtà sembra impallidire di fronte alle turbe interiori che lo devastano. Jung è alle prese, da tempo ormai, con i suoi crescenti deliri. Non ha scampo, sente di dover affrontare le sue fantasie e risolverle, per poter rinascere. E’ nell’ottobre dello stesso anno, durante un viaggio in treno, che ha per la prima volta una terrificante allucinazione. Jung vede chiaramente l’intera Europa sommersa dalle acque. Un’alluvione catastrofica sommerge ogni nazione, ogni città, solo la Svizzera resta salva: “ … vedo i flutti giallastri, le fluttuanti macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli morti, e infine il mare divenuto sangue ...”. Qualche settimana dopo, l’allucinazione si ripresenta ancor più lacerante. E al drammatico scenario di sangue s’aggiunge una voce mortifera che sprofonda Jung in un più grave tormento: “Guarda bene, è tutto vero, sarà proprio così, non c’è motivo di dubitarne.”
Stravolto dalla crescente inquietudine, il 27 ottobre del 1913, Jung scrive a Freud una lettera di dimissioni, rinunciando categoricamente all’incarico di curatore del Jahrbuch, la rivista psicoanalitica che, da quel momento in poi, si sarebbe ribattezzata Jahrbuch der Psychoanalyse. Jung si ritira da tutto, definitivamente, per dedicarsi a se stesso, alle sue paure e ai suoi fantasmi, confinandosi nella solitudine più completa. Non è mai stato nella sua indole chiedere aiuto e probabilmente non ci sarebbe stato nemmeno qualcuno in grado di aiutarlo in questa sua eroica impresa.
Per un lungo periodo, Jung s’abbandona in preda alle allucinazioni, sfruttando la sua solitudine per fare esperimenti con sogni e fantasie e smantellare con coraggio le incalzanti accuse della sua coscienza. Jung sprofonda talmente negli abissi di sé, da ritrovarsi spesso come atterrato sulla luna, o su una terra di morti, in cui immagini simboliche sembrano risucchiarlo in una dimensione mistico-religiosa molto più vicina alla morte che alla rinascita.
Una mattina, si sveglia nel suo letto a Küsnacht in preda al panico. Nel cassetto del comodino giace il revolver di servizio, carico e pronto. Jung sente che se non fosse riuscito a decifrare le sue visioni, si sarebbe certamente sparato. Paradossalmente, abbandonarsi senza difese alle proprie allucinazioni diventa la sua arma vincente. Jung conia in questo travagliato periodo l‘espressione ‘immaginazione attiva’, riferendosi proprio a quest’arrendevole darsi alle fantasie: solo così facendo lo psicoanalista sembra poter conquistare il pieno controllo su di esse e uscirne vittorioso. Affrontandole, infatti, riesce a separarsi dai suoi fantasmi, ridotti a ‘personaggi’ confinati in una dimensione propria, temibili certo, ma sempre preferibili rispetto all’immedesimarsi in loro.
Il 20 aprile 1914, Jung si dimette anche dalla presidenza dell’Associazione Internazionale Psicoanalitica. Invierà una lettera a Freud informandolo della decisione, siglando la fine del foglio con il contrassegno + + +, il simbolo con cui per tradizione si allontanava simbolicamente il diavolo. Poche settimane dopo, sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale … i flutti giallastri, le fluttuanti macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli morti e il mare di sangue sarebbero divenuti realtà. Freud e Jung, i due geni sofferenti, esploratori di demoni e sogni, si separeranno per sempre, dunque, dopo il primo incontro avvenuto il 3 marzo 1907 che li serrò in un colloquio durato tredici ore. Si divideranno in un amaro silenzio, dopo aver condiviso un intenso cammino: Freud, con la sua razionalità e il suo pansessualismo, e Jung, con la sua esigenza mistica di esplorare l’invisibile, resteranno tuttavia i protagonisti di uno dei più affascinanti e fecondi movimenti culturali di tutti i tempi.
Una delle ultime immagini contenute nel libro è quella di un dottor Jung sempre più solitario, ritiratosi nella sua casa rurale di Bollingen, alla fine della sanguinosa guerra. Nella casa che ha costruito da sé, Jung passerà il tempo strappato al lavoro di analista dedicandosi al suo hobby preferito: l’intaglio della pietra. E, paradossalmente, resta proprio scolpita nella pietra la testimonianza di una delle ossessioni che lo accompagnerà fino alla vecchiaia. Tra i suoi ultimi lavori, infatti, vi è un trittico in sasso il cui soggetto è l’Anima. La prima tavola del trittico, mostra un orso curvo che spinge con il naso una pallina. Sotto, reca la scritta “E’ la Russia che manda avanti le cose.” Quest’immagine sembra voler evocare l’amara, eppur preziosa, eredità lasciatagli dalla giovane Sabina, scolpita per sempre nella tormentata coscienza di Jung.
Qui finisce anche il libro, purtroppo. Ma non la Psicoanalisi che tuttora vive e che, senza il rigore di Sigmund Freud, le intuizioni di Carl Gustav Jung e la sensibilità di Sabina Spielrein, non sarebbe certamente diventata ciò che oggi è.

Io.
Il film mi è piaciuto moltissimo. Visto senza aver letto prima la storia, può essere vissuto come un appassionante sogno, sganciato dalla realtà e dall’identità dei personaggi. Mentre vedere il film dopo avere letto il libro, consente di mescolare quel sogno alla realtà, arricchendola di dettagli inespressi e retroscena taciuti. Proprio quello che è successo a me. E se ciò che separa la realtà dalla fantasia è la ragione, mentre ciò che le unisce è il sogno, io quella sera al cinema, ho sognato una storia vera! 

Il Discorso del Re



La sala della libreria era quasi colma quando sono arrivata. Sul palco c’erano già gli ospiti e la mia emozione era più viva che mai, come sempre in queste occasioni.
Peter Conradi, giornalista del Sunday Times, e Mark Logue, nipote di Lionel Logue - i due autori del libro “Il discorso del Re” - erano a Milano, per raccontare con la loro voce una storia che sta riscuotendo molto successo ma, soprattutto, per testimoniare la vicenda di un uomo che la storia l’ha fatta: Re Giorgio VI d’Inghilterra.
Accanto ai due autori sedevano il Dottor Caruso, psicoterapeuta e logopedista, un giovane traduttore e il direttore di Tecniche Nuove, la casa editrice che con grande intuito ha scommesso su questa pubblicazione, traducendola e diffondendola anche in Italia.
L’atmosfera s’è rivelata immediatamente sciolta e amichevole e si è protratta per quasi due ore in un clima piacevole e salottiero. Alla domanda a bruciapelo di Peter Conradi – espressa in un perfetto e vivace italiano - su chi del pubblico avesse già visto il film, s’è levato un coro praticamente unanime di mani alzate. Ben superiore rispetto a chi ha poi ammesso d’aver già letto il libro. Nessuna sorpresa, né da parte degli autori, né da parte mia. Spesso, infatti, è il cinema a trascinare sull’onda del successo un libro, anche se, in realtà, la storia stampata risulta ben più ricca e coinvolgente di quella messa in scena.

E’ proprio questo il caso. Il libro, infatti, non è solo un bel romanzo ma è innanzitutto un documento storico: è la trascrizione fedele degli appunti e delle riflessioni di Lionel Logue, il logopedista (diremmo oggi) del Principe Albert, Duca di York, in seguito Re Giorgio VI d’Inghilterra.
La trama è nota ma per chi fosse a digiuno di Storia, o non avesse visto il film né letto il libro, la riassumo brevemente. L’Inghilterra degli anni Trenta deve affrontare contemporaneamente due monumentali eventi, uno sul fronte internazionale, l’altro tra le mura di Corte. Innanzitutto, una guerra sofferta e impegnativa che s’affaccia sull’Europa e che coinvolgerà tristemente il mondo intero; poi, la morte di Re Giorgio V, avvenuta nel 1936, morte che pone urgente il problema di successione al trono in un momento storico particolarmente caldo. L’abdicazione del primogenito Edoardo VIII, dovuta a ragioni sentimentali incompatibili con il ruolo di futuro re, crea infatti un imbarazzante vuoto a Corte. Destinato al trono risulta, per discendenza, il secondogenito Albert, Principe e Duca di York, votato non solo a personificare l’impegnativo simbolo di una Nazione ma anche, e soprattutto, ad affrontare difficoltà psicologiche, trascinate sin dall’infanzia, apparentemente insormontabili. La prima vera grande battaglia che il giovane Principe dovrà vincere, quindi, è quella contro i suoi stessi limiti.
Albert, infatti, confidenzialmente chiamato Bertie, soffre sin da piccolo di balbuzie e, dopo aver inutilmente sperimentato terapie e consultato specialisti, sembra arrendersi all’idea di non poter affrontare il pubblico parlando con disinvolta scioltezza. L’amore e l’intuito della moglie Elizabeth, lo portano, però, ad accettare le cure di Lionel Logue, una sorta di guaritore d’origini australiane, esperto in terapie del linguaggio - come diplomaticamente si fa chiamare - il quale accoglie Albert come qualsiasi altro paziente, conquistando la sua riluttanza con una semplice prova. Gli chiede di leggere a voce alta un passo dell’Amleto mentre ascolta musica attraverso una cuffia e quando successivamente il Principe sentirà la registrazione della propria voce, scoprirà d’essere riuscito nella lettura in maniera sorprendentemente fluida. Lionel, con i suoi metodi poco ortodossi e la sua straordinaria empatia, intreccia così con Bertie un rapporto umano intenso e costruttivo, che va ben oltre l’asettica relazione tra dottore e paziente, e saprà anche farsi perdonare d’aver taciuto il fatto di non essere un vero medico. Con la sua sensibilità, dimostra al futuro Re - e non solo - che la terapia non ha etichette: sono il rapporto umano, la collaborazione e la forza di volontà congiunte di paziente e dottore, che determinano il successo di ogni cura.
“Io posso guarirVi – dice Lionel al Principe dopo il primo incontro – ma senza il Vostro impegno non otterremo nulla.” Lionel, da quel giorno, accoglie nel suo studio semplicemente un uomo, svestendo il futuro Re d’ogni corona e scettro, per relazionarsi direttamente con il piccolo Bertie, ovvero con le radici stesse delle sue sofferenze.
 
E’ a questo punto che s’accende l’anima del libro, laddove invece il film – a detta dei due autori - sembra spegnersi. Come in un gioco di specchi, le prospettive nel romanzo si ribaltano, pur restando armoniosamente intrecciate. Mentre il panorama storico e culturale, fatto di maschere, intrighi e guerre, sfuma impercettibilmente dai riflettori verso un affascinante controluce, in primo piano si dipana una vicenda umana delicata, conflittuale e pressoché sconosciuta, fatta di amicizia, rispetto e gratitudine.
“Balbuzie, pensateci un attimo …” ci hanno, a un certo punto, invitato a riflettere i due autori sul palco, uscendo così dalla trama del libro per dialogare con la sensibilità di tutti noi. Sembra un difetto apparentemente sciocco, quasi buffo. In realtà, quest’involontario inciampare nelle parole è invalidante per qualsiasi persona, nel momento in cui deve confrontarsi con il mondo e con la disinvoltura altrui. Un fardello ingombrante, a maggior ragione, per un bambino, un qualsiasi bambino, mira di facili derisioni spesso crudeli che possono innescare insicurezze e sofferenze emotive profonde e durature. Una malattia – perché la balbuzie è una malattia - ancora più gravosa per un giovane destinato a diventare quello che un’intera Nazione si aspetta d’avere: un Re. Un Re dev’essere forte, autorevole, sicuro di sé, dimostrare al mondo intero di poter guidare con fierezza il popolo alla vittoria, alla sicurezza e al benessere, perché Lui rappresenta le fondamenta e le aspirazioni di quella Nazione. Un Re deve saper comunicare tutto questo, attraverso i fatti ma anche attraverso la sua stessa presenza e i suoi discorsi e non può certo permettersi di tentennare ogni qualvolta apre bocca davanti ai sudditi riverenti e ai cinici nemici.
“La balbuzie, negli anni Trenta – ha spiegato il Dottor Caruso – è un difetto tanto eclatante quanto sfuggente, dalle cause ancora ignote e la logopedia non è riconosciuta come disciplina medica”. Tanto che il piccolo Bertie cresce avvolto da un pesante guscio di apparente riservatezza, o meglio di vergogna, da parte della famiglia e, soprattutto, di un padre severo, autoritario e inflessibile di fronte alle manifeste ‘deficienze’ di un figlio che non si sa come trattare. Bertie non è amato, né capito. “Allevato ed educato – ha continuato a raccontare il simpaticissimo Peter Conradi - in assenza d’affetto e d’incoraggiamento paterno, si convince presto che la sua esasperata timidezza sia dovuta a vere e proprie insufficienze intellettive, sprofondando ancor di più nell’insicurezza.” Così, mentre nel suo animo si affastellano ansie, dubbi e frustrazioni, fuori Bertie deve continuamente affrontare le pressioni sociali che gli vengono imposte. E’ costretto sin da piccolo a imparare tre idiomi contemporaneamente – il francese e il tedesco, oltre la madrelingua – impegno che certamente contribuisce non poco alla confusione interiore del Principe. Viene, inoltre, forzato a correggere il naturale approccio alla scrittura, essendo mancino, istinto evidentemente non gradito alla famiglia. Infine, deve sopportare il senso d’inferiorità rispetto al fratello di poco più grande, molto più agile e intraprendente rispetto a lui. Tutto questo scolpisce nell’animo sensibile del Principe profonde ferite, accentuando il suo difetto di pronuncia.
Oggi si sa che la balbuzie è dovuta a fattori genetici e che il tessuto familiare e il clima psicologico possono essere scintille scatenanti ma non determinanti della malattia. Oggi si sa anche come intervenire e, nonostante i molti ciarlatani, affabulatori di magiche ricette, esistono associazioni mediche serie che offrono cure certe e professionali. Il Principe Albert, invece, ha potuto contare esclusivamente sull’amore della moglie, la propria forza di volontà e la straordinaria guida di Lionel Logue. L’unico che ha saputo trattare la malattia come un problema fisico e non mentale, curabile quindi attraverso complesse tecniche di rilassamento muscolare, controllo del respiro ed esercizi di pronuncia, insieme a un intenso affiatamento emotivo e affettivo con il suo paziente.
A proposito di Lionel, quando Mark Logue, suo nipote, ha ripreso la parola, ci ha spiegato di non aver mai conosciuto il nonno, se non attraverso le lettere rinvenute, utilizzate poi per la stesura del libro e la messa in scena del film. “E’ stato emozionante, una vera avventura – ha raccontato – assistere alla ‘rinascita’ del nonno dopo tanti anni, oltretutto con una risonanza mediatica così straordinaria e inattesa. Le lettere sono tutte scritte a matita e ben tenute ...” Da esse trapela tutta l’intensità del profondo legame tra Lionel e il futuro Re, legame che li ha uniti oltre la terapia, fino alla morte stessa di Re Giorgio VI, avvenuta nel ’52. L’amicizia e il rispetto reciproco tra i due uomini ha creato anche un collante affettivo a Corte, tanto che la Regina Madre, dopo la scomparsa prematura del figlio, scriverà una lettera a Lionel per ringraziarlo personalmente per l’aiuto prezioso offerto al Re, uomo giusto e generoso. Del resto, durante il cammino terapeutico, Lionel è entrato a far parte della vita quotidiana della famiglia reale, trascorrendo le feste di Natale a Corte e affiancando Bertie in ogni occasione pubblica, prima come Duca di York, poi come Re Giorgio VI. Lionel è diventato un padre per lui e l’ha accompagnato nel suo cammino esistenziale, consapevole del fatto che, prima o poi, questo ‘figlio’ avrebbe imparato a camminare da solo.
E così è stato: il bambino insicuro è diventato, piano piano, uomo. E di quel ragazzo paralizzato davanti alle persone, ammutolito di fronte alla radio e fagocitato da qualsiasi platea, incapace di pronunciare quella parola così difficile “King” … quella “K” insormontabile come un macigno impossibile per lui da dire … ecco, di quel ragazzo non è rimasto che un pallido ricordo.
Re Giorgio VI è ricordato oggi per le sue riforme e la sua politica ed è ammirato per aver saputo condurre e rappresentare con orgoglio la sua Nazione. Il suo successo è coronato da un memorabile discorso rivolto ai suoi sudditi, pronunciato con dignità in piedi, dall’alto del suo potere, sostenuto dall’affetto sincero della moglie, delle figlie e, naturalmente, di Lionel Logue. E ora, grazie al libro “Il discorso del Re”, anche il piccolo Bertie è entrato a far parte della Storia, esempio di forza di volontà, di tenacia e di onestà d’animo, virtù senza le quali anche l’abile Lionel, forse, non avrebbe potuto essere d’alcun aiuto, né lasciare nel tempo un segno di sé.
“Mio nonno Lionel è sempre stato molto riservato nel suo lavoro e non ha mai confidato segreti professionali ad alcuno … - ha concluso Mark Logue, custode tra l’altro dell’Archivio dedicato al nonno - Non ha mai cercato di vendere la sua storia e quando già negli anni ’80 si parlava di mettere in scena un pezzo teatrale sulla vita di Lionel Logue, la Regina Madre s’oppose. Finché lei sarebbe stata in vita – questa è stata la volontà della Regina – nessuna messa in scena sarebbe stata concessa.” Infatti, sono trascorsi trent’anni prima di poter rendere pubblica la storia e farne un film. Film che è stato fortemente voluto dai registi, convinti, leggendo le carte di Logue, del fascino storico e scientifico di questa vicenda, tanto che molti diritti di esclusiva alla proiezione sostengono alcune comunità mediche inglesi e americane che si occupano di balbuzie. Ora, sull’onda di questo successo (il film è tradotto in 25 lingue) si stanno moltiplicando altri racconti più o meno romanzati attorno alla vita di Lionel Logue che, da pseudo medico, si sta trasformando in vero e proprio mito storico e mediatico.
Quella narrata ne “Il discorso del re” è, tuttavia, l’unica storia autentica. Ha sorriso, infine, quasi imbarazzato Mark Logue, raccontando tutto questo, incredulo forse di fronte a tanto clamore ma certamente fiero di un nonno che ha contribuito a far conoscere un inedito Re Giorgio VI al mondo.
La serata, animata da molte domande e simpatiche battute - nonostante la serietà dell’argomento – s’è conclusa con un’ultima provocazione da parte degli autori, curiosi di sapere se tra il pubblico ci fosse qualche logopedista desideroso di esprimere una sua testimonianza. Con mia sorpresa, un omone alto dai capelli folti e bianchi, s’è alzato proprio davanti a me e ha preso la parola, ringraziando profusamente gli ospiti e protraendosi in complimenti sinceri. Dopo di che si è presentato: “Non sono un logopedista – ha detto - bensì un balbuziente o, meglio, un ex balbuziente”. Mi ha colpito la disinvoltura delle sue parole, testimonianza viva della sua personale vittoria sulla malattia. Ascoltare il breve intervento di quest’uomo è stata l’ulteriore conferma di quanto questo libro racchiuda in sé molto più di una vicenda storica e di come gli autori siano riusciti a dare respiro a una dimensione psicologica sommersa, con una sensibilità e un rispetto rari, intrecciandola magistralmente al denso contesto storico.
“Mi raccomando – hanno concluso gli ospiti prima di salutare e lasciare il palco tra gli applausi – leggete il libro, perché se il film è bello, il libro lo è molto di più!”

Uscendo dalla sala con il libro sottobraccio, rimescolavo mentalmente pensieri e sensazioni e tra tutte vinceva la parlata spigliata di Peter Conradi che aveva fatto quasi da contraltare alla presenza più discreta e riservata di Mark Logue. Non so perché ma Conradi mi aveva trasmesso una spontanea simpatia con quel suo humor vagamente mediterraneo e mi son domandata, sorridendo, se sapesse dell’esistenza di un vecchio giornalino, famoso in Italia negli anni Quaranta. S’intitolava “Il Balilla” – qualche lettore non più giovanissimo lo ricorderà - e propagandava un’ostentata antipatia verso gli Inglesi in favore  della stima per i Tedeschi. Ebbene, una vignetta per niente ossequiosa nei confronti di Re Giorgio VI, che appariva tutte le settimane in prima pagina, esordiva così: “Re Giorgetto d’Inghilterra, per paura della Guerra, chiede aiuto e protezione al Ministro Churchillone …” Poi, seguiva, di volta in volta, un episodio di fantasia, in cui gli Inglesi risultavano immancabilmente degli sfigati, mentre gli Italiani erano sempre gli strafottenti vincitori, grazie naturalmente all’aiuto dei camerati tedeschi.
Ora, preferisco pensare che né Peter Conradi, né Mark Logue conoscano quello strambo giornaletto dei tempi che furono. Ciò che conta è che il loro bel libro ha dato nuova vita a un coraggioso sovrano, riscattandolo definitivamente da pittoresche leggende e irriverenti fumetti, restituendo così la sua regale dignità umana e il suo reale valore simbolico alla Storia.

Yoku mireba




E' probabile che Matsuo Bashō, poeta giapponese del Seicento, stesse vagando per una delle sue usuali passeggiate nella Natura senza una meta precisa, quando, d’improvviso, notò qualcosa che se ne stava trascurato dietro una siepe. Si fece lentamente più vicino, guardò meglio e scoprì che si trattava semplicemente di una piantina selvatica, insignificante, a dire il vero poco attraente, che di certo sarebbe passata inosservata a qualsiasi altro viandante. A Bashō, tuttavia, quella misera piantina arruffata suscitò un improvviso sentimento di ammirazione e di profonda commozione, tanto che le dedicò d’istinto una poesia, uno dei suoi tanti, bellissimi haiku, dal titolo “Yoku mireba” ovvero “Quando guardo attentamente”:

Yoku mireba
Nazuna hana saku
Kakine kana.

Che in italiano si traduce così:

Quando io guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe.

Non è per tutti facile cogliere il sentimento che queste diciassette sillabe trasmettono, soprattutto se non si è particolarmente sensibili alla Natura e alle cose semplici, nude, pure. Immagino che per riuscire a vibrare e ad animarsi di tanta commozione di fronte a una pianticella nascosta, quasi disprezzabile, occorra tanta genuinità e altrettanta umiltà.
Non somiglia forse a un bambino, in questo, il poeta che coglie con occhi stupiti la bellezza della semplicità?
La routine e le abitudini finiscono per spegnere lo slancio delle emozioni e dei sentimenti buoni, inaridendo così anche il piacere della condivisione e della comunicazione empatica con gli altri. Se ci pensiamo bene, infatti, le emozioni non solo ci fanno sprofondare dentro noi stessi, implodendo ed esplodendo al tempo stesso, ma ci permettono anche di uscire dai confini del nostro ‘io’, mettendoci in contatto, in risonanza con gli altri e con tutta la Natura. Qualunque sia lo stato d’animo in cui si naviga, il sentimento in cui si nuota, è sempre lo stupore quella preziosa fiammella che accende la creatività, lo spirito poetico e, dunque, il trasferimento delle vibrazioni intime a chi ci legge, ci guarda o ci ascolta.
La catena dell'Himalaya può suscitare in noi un senso di sublime, le onde del Pacifico possono evocarci l'infinità. Ma quando la mente si schiude alla poesia, al misticismo o alla religione, riusciamo a sentire - forse quasi come Bashō - che persino dentro ogni filo d'erba incolta si nasconde qualcosa d’immenso che trascende ogni abbietta, venale, superficiale passione umana. Qualcosa di divino, che ci eleva verso una dimensione il cui splendore somiglia a quello del Paradiso Terrestre.
Non abbiamo bisogno di ali artificiali per raggiungere certe vette emotive. Non è questione di grandezza, di statura, d’imponenza, anzi, è nell’immensamente piccolo che si celano spesso le vibrazioni più potenti. E’ dentro il nostro cuore che guardiamo attentamente, in verità, quando ci emozioniamo ... dentro la nostra Anima che, come una piantina arruffata, dev’essere coltivata con amore per poter sbocciare e fiorire di colori così stupefacenti da incantare persino i poeti.

Una passeggiata geniale



Le pareti del suo studio, in origine bianche, tradivano il vizio di fumare parecchio. Unico ornamento a quel candore annerito, un ritratto di Jean-Jacques Rousseau che pareva scrutare dalla grande finestra affacciata sulla chiesa di fronte. Soffriva di stitichezza; si rifiutava di pranzare se alla tavola non fossero presenti tre o nove commensali; la sua grafia era orribile; non aveva amici e tanto meno amanti; annotava tutto minuziosamente, comprese le medicine che gli venivano prescritte e che prendeva in dosi doppie o dimezzate a seconda dei propri capricci. Nietzsche lo disprezzava, Goethe non lo capiva. Insomma, come spesso accade, un genio resta un incompreso, lui compreso: Immanuel Kant. 
Il più profondo e rivoluzionario pensatore dell’Illuminismo non sembrava, infatti, un granché. Gracile, di bassa statura, dal carattere spigoloso, rigido, eccessivamente prudente e meticoloso fino al maniacale, era regolare come il più regolare dei verbi regolari. Nella sua consuetudinaria tetraggine, Kant aveva tuttavia coltivato un’abitudine particolarmente piacevole, quella di passeggiare. Quando i suoi vicini lo vedevano spuntare sulla soglia di casa, con indosso il soprabito grigio e il bastone in mano, sapevano con certezza che erano le tre e mezza in punto. Infatti, tutti i giorni, immancabilmente in ogni stagione dell’anno e in qualsiasi condizione meteorologica, Kant si avviava a passo lento verso il viale di tigli, spesso seguito dal fedele servitore Lampe con un provvidenziale ombrello sottobraccio. Pare che il filosofo amasse passeggiare lentamente e in assoluto silenzio, respirando scrupolosamente solo dalle narici. Meglio il silenzio, infatti, del raffreddore!
Evidentemente, quel gran genio di Kant aveva inconsapevolmente scoperto i segreti benefici di una camminata all’aria aperta e molte delle sue idee le ha sicuramente concepite lì, sotto le fronde dei tigli carezzate dall’aria frizzante. Una bella passeggiata è, infatti, salutare non solo per il corpo ma anche per la mente e la meditazione è di gran lunga più creativa mentre si cammina, piuttosto che durante il relax. Oggi lo si sa anche grazie alle tecniche di brain imaging che esplorano il cervello durante ogni tipo di attività, rivelando informazioni affidabili e un tempo solo intuibili. Cosa succedesse esattamente nel cervello di Kant mentre passeggiava non lo sapremo mai, mentre possiamo spiegare il funzionamento cerebrale di noi comuni mortali che, pur non essendo equipaggiati di idee altrettanto geniali, abbiamo a disposizione tecnologie straordinarie per scrutare i meccanismi del pensiero.
Tra mente e corpo c’è un dialogo costante e tutti i nostri pensieri si materializzano nel cervello scatenando reazioni biochimiche che producono effetti certi e dimostrati. Quando si cammina, dunque, l’emisfero destro del cervello – quello normalmente più silenzioso - è particolarmente attivo, mentre il sinistro – il più chiacchierone - viene praticamente messo a tacere. La conseguente sensazione di benessere e di leggerezza che proviamo passeggiando dipende proprio da questo e, in particolare, dalla produzione di onde alfa presenti nell’emisfero destro che, a loro volta, stimolano la secrezione dei cosiddetti ormoni della felicità, ovvero le endorfine. A dire il vero, il rapporto tra onde alfa e endorfine somiglia un po’ a quello tra l’uovo e la gallina: indipendentemente da quale dei due nasca prima, è certo che sono intimamente connessi. Lo stadio alfa sta a metà tra lo stato di veglia (beta) e quello di sonno profondo (teta e delta) e la sua naturale induzione al rilassamento consente un abbassamento della soglia di coscienza tale da aprire la porta al subconscio senza tuttavia sprofondare nel sonno. Durante questa fase, incoraggiata dall’attività del camminare lento e prolungato, viene rilasciata la beta-endorfina che, oltre a suscitare una sensazione di diffuso benessere, stimola anche quei piccoli talenti creativi sopiti nel cervello di ognuno di noi. A tutti sarà capitato di dannarsi invano al computer in cerca di un’idea, per poi uscire a far due passi dalla disperazione ed essere improvvisamente illuminati dal lampo di genio. E’ una dimostrazione di come l’attività intellettuale d’alto livello abbia bisogno della parte più emozionale e immaginativa del cervello, anziché di quella logica e razionale. Si potrebbe persino dedurre, così, che in ogni cervello si nasconda qualche prodigioso talento e che chiunque riesca a risvegliare certe attitudini sopite, possa trasformarsi in un potenziale Kant, magari più socievole e meno maniacale.
A proposito, l’illuminato genio visse fino a ottant’anni, nonostante i fastidiosi acciacchi e le snervanti fisime, e per quell’epoca era già un bel traguardo. In base alla sua esperienza, e con il senno di poi, ai suoi tre imperativi categorici avrebbe potuto aggiungerne un quarto: “Passeggia tutti i giorni almeno per un’ora, in modo da trasformare ogni tuo pensiero in un lampo di genio di valore universale”. Magari ci aveva pensato, rendendosi conto però che uno stolto non sarebbe diventato un genio nemmeno correndo per tre ore consecutive al giorno.
Così, deve aver rinunciato, con buona pace del prossimo e delle beta-endorfine!

Il gene agile



Immaginate un salotto di un’elegante dimora agli inizi del secolo scorso.
Vi sono riuniti, per l’occasione, alcuni uomini illustri, vissuti a cavallo tra il 1800 e il 1900. Per la precisione, i signori sono stati invitati a discettare su un concetto molto importante e alquanto controverso, destinato ad agitare anime e menti fino ai giorni nostri. E certamente oltre.
Il tema della discussione è il seguente: nature versus nurture, ovvero la contrapposizione tra natura (intesa come eredità individuale e patrimonio genetico) e ambiente (inteso come cultura ed esperienza).
Gli invitati sono dodici uomini, esattamente. Tutti di mezza età o anziani, per la maggior parte benestanti e tutti curiosamente barbuti o baffuti. Ma, soprattutto, tutti ferventi intellettuali che hanno dominato il sapere scientifico circa la natura umana durante tutto il ventesimo secolo, ognuno di essi in un particolare campo del sapere, contagiandosi reciprocamente e influenzando definitivamente la mentalità e la ricerca scientifica futura.
Accomodati sui divani, fumando profumati sigari e consumando copiosamente whiskey, immaginate dunque due americani, due austriaci, due britannici, due tedeschi, un olandese, un francese, un russo e uno svizzero. Probabilmente, molti di loro non si sono mai incontrati in realtà e, forse, non si sarebbero nemmeno troppo piaciuti e sopportati a vicenda ma in quest’appuntamento ideale tutto diventa possibile.
Questi eruditi signori sono: Charles Darwin, il britannico che sfoggia la barba più lunga, destinato a cambiare per sempre il modo in cui gli esseri umani considerano la propria natura, grazie alla sua teoria dell’evoluzione; Francis Galton, suo cugino, appassionato difensore dell’ereditarietà e maniaco misuratore di ogni cosa misurabile, comprese le natiche delle donne di alcune etnie; William James, lo psicologo americano sostenitore dell’assoluta importanza dell’istinto nei comportamenti sia animali che umani; Hugo de Vries, un botanico olandese dall’aria mesta e accigliata che scoprì le leggi dell’ereditarietà solo per constatare d’essere stato battuto sul tempo da Gregor Mendel, trent’anni prima; Ivan Pavlov, fisiologo russo, incorniciato da una barba prepotentemente folta e grigia, campione dell’empirismo con i suoi famosi esperimenti sui cani salivanti; John Watson, lo psicologo statunitense che tradurrà poi le teorie di Pavlov nel suo altrettanto noto behaviorismo; Emil Kraeplin, un tipo apparentemente buffo, piuttosto in carne, con baffi e occhiali, nonché psichiatra tedesco convinto ci fosse un evidente legame tra criminalità e disordine mentale; Sigmund Freud, viennese, con una bella barba particolarmente curata, leggermente più giovane degli altri ospiti, padre della psicanalisi e dell’eterno dibattito sull’esistenza dell’inconscio, sul suo ruolo e su moltissimo altro ancora; Emil Durkheim, il sociologo francese convinto che la realtà dei fatti sociali sia molto più della somma delle singole parti, divenuto noto per i suoi studi sul suicidio; Franz Boas, l’antropologo tedesco-americano, l’unico con i baffi all’ingiù e una cicatrice riportata in duello, fermamente convinto che sia la cultura a plasmare la natura umana, e mai viceversa; Jean Piaget, il più giovane e sbarbato di tutti, psicologo e pedagogista svizzero le cui teorie su imitazione e apprendimento matureranno imberbi a metà secolo; e, infine, Konrad Lorenz, lo zoologo ed etologo austriaco impegnato a dimostrare come l’imprinting possa portare delle ochette a scambiare un uomo col pizzetto per la propria mamma.
La scelta di questi personaggi e l’esclusione invece di altri che, altrettanto meritevolmente, hanno contribuito allo studio della natura umana, dipende dal fatto che questo salotto immaginario, in realtà è un libro! Un libro pubblicato da Adelphi nel 2005 e straordinariamente attuale, dal titolo “Il gene agile”, scritto da Matt Ridley, studioso e scrittore di diversi saggi sulla natura dei geni. ‘Geni’, intesi non quali personaggi dall’intelletto particolarmente fervido come quelli appena citati, bensì come l’insieme di quello straordinario marchingegno invisibile che rende l’essere umano ciò che è, tramandandolo nel tempo attraverso il susseguirsi delle generazioni.
Matt Ridley chiama all’appello proprio questi studiosi perché, a suo vedere, tutti e dodici hanno in comune qualcosa di molto più importante che non l’aspetto serioso e irsuto. Ognuno di essi, infatti, ha donato al mondo un’idea originale contenente un germe di verità per spiegare la natura umana, fomentando l’intricato dibattito tra ereditarietà e ambiente e stimolando indirettamente, chi più chi meno, la nascita della moderna genetica. Ognuno di essi, pur avendo clamorosamente toppato su alcune questioni - innanzitutto per la mancanza di strumenti e di nozioni - ha contribuito, con il suo prezioso mattoncino ricco di sapere e d’intuizioni, alla costruzione di un imponente edificio culturale, scientifico e umano. Senza uno di questi mattoncini, senza le geniali intuizioni di questi signori, l’attuale genetica sarebbe forse stata una scienza più lenta, più povera e imperfetta e l’intera storia della ricerca scientifica avrebbe avuto, molto probabilmente, tutto un altro corso.
La natura umana è in effetti una meravigliosa combinazione di molti elementi: gli universali di Darwin, l’eredità di Galton, i geni di de Vries, i riflessi di Pavlov, le associazioni di Watson, il vissuto personale di Kraeplin, l’esperienza formativa di Freud, la divisione del lavoro di Durkheim, lo sviluppo di Piaget e l’imprinting di Lorenz.
Tuttavia - ed è questo il punto più originale del libro – sarebbe sbagliato collocare tutti questi preziosi semi di verità lungo un continuum che ponga separatamente da un lato la Natura e dall’altro la Cultura, da un lato l’innatismo e dall’altro l’empirismo. Non si può contrapporre ereditarietà e ambiente: non più dunque nature versus nurture bensì nature via nurture, perché la natura si esprime attraverso l’ambiente, così come l’ambiente agisce sulla natura. E questo risulta evidente, a sua volta, attraverso lo studio dei geni che non sono né capricciosi burattinai né progetti preconfezionati, ma sono, al tempo stesso, causa e conseguenza delle nostre azioni.
Sono i geni, infatti, che permettono alla mente umana di apprendere, ricordare, imitare, imprintarsi, assorbire cultura, comunicare pensieri e manifestare istinti. Quando furono scoperti, alla fine del secondo millennio dell’era cristiana, vennero accolti come le personificazioni del Fato nella mitologia antica, viscere interpretate dagli oracoli, misteriose coincidenze astrologiche. I geni erano veri e propri dèi. Oggi, grazie anche ai signori riuniti fantasiosamente nel libro-salotto di Ridley, si sa che i geni non sono dèi ma meccanismi, veicoli d’informazione ereditaria che restano attivi e vivaci durante tutto l’arco della vita, a partire dall’utero, e che interagiscono con l’ambiente, modificandolo costantemente in un viavai continuo e fertile di stupefacenti input e output.
“Il gene agile” è un libro immenso per ricchezza di cultura, informazioni e provocazioni che cercano di dimostrare come il razzismo, la violenza, la fedeltà, l’omosessualità, la schizofrenia, l’autismo, il desiderio sessuale, l’empatia, persino il gossip e molto altro, siano tutti fenomeni umani frutto del costante dialogo a doppio senso tra natura umana e ambiente, ascrivibile ai geni. Oltretutto, questo libro, nonostante la mole consistente, ha il pregio d’essere scritto con un’effervescente levità, che trasmette di volta in volta l’ironia di Watson, il dogmatismo di Freud, l’indecisione di James, la pedanteria di Pavlov, la spocchia di Galton, l’esuberanza di Boas … insomma, le personalità, i capricci, le virtù e le debolezze di caratteri talmente forti e differenti che se si fossero davvero incontrati si sarebbero certamente accapigliati, ritrovandosi con barba e baffi furiosamente aggrovigliati insieme. 
Di certo, oltre al piacere straordinario di una lettura stuzzicante, questo libro lascia anche la pungente consapevolezza che più s’impara, meno si sa, perché dietro ogni velo sollevato sul mondo della conoscenza umana, sempre un altro si presenterà all’orizzonte, con nuovi interrogativi, nuove provocazioni e nuove speranze. Sarebbe comunque impensabile, e scioccamente presuntuoso, immaginare di poter completare la costruzione dell’edificio del sapere eliminando o ignorando qualcuno dei mattoncini che la storia della scienza e della ricerca ci ha finora generosamente fornito, grazie anche a dodici incredibili geni barbuti. 

La dolce Melba



La popolarità della “dolce Melba” ha da poco compiuto novant’anni. Esattamente nel giugno del 1920, infatti, la cantante lirica australiana, Nellie Melba, fu ascoltata alla radio per la prima volta, battezzando così la nascita delle trasmissioni radiofoniche. Dalla fabbrica di Marconi, a Chelmsford in Inghilterra, la voce della cantante venne diffusa on air in tutto il Regno Unito riscuotendo un enorme successo e nei mesi successivi le trasmissioni furono perfezionate a tal punto da poter raggiungere altri Paesi europei, tra cui certamente la grande Francia. Questa pionieristica avventura si rivelò presto rivoluzionaria e contagiosa sotto molti punti di vista, alcuni forse meno noti ma piuttosto curiosi.
Non tutti sanno, per esempio, che uno tra i grandi personaggi ad essere stato contagiato dalla voce della bella Melba fu Auguste Escoffier. Cuoco dei re, re dei cuochi, capriccioso e audace in cucina come nella vita, Escoffier resta tuttora famoso per aver rivoluzionato le abitudini di cucinare e presentare i cibi a tavola, celebrando e diffondendo, già alla fine dell’8oo, l’haute cuisine francese in tutto il mondo. E pare che fu proprio la voce vellutata di Nellie Melba ad avere inconsapevolmente ispirato al grande cuoco una delle sue più famose ricette, battezzata poi con il suo nome: la pesca melba, appunto.
Un’opera d’arte fatta di frutta, panna, vaniglia e tanta passione. Un piccolo capolavoro da guardare, annusare, toccare e gustare. Come sia andata a finire tra i due non si sa ma mi piace immaginare che il baldanzoso Escoffier, dopo aver ascoltato l’irresistibile canto della dama alla radio, l’abbia raggiunta e conquistata, corteggiandola con la sua straordinaria sinfonia per la gola, le cui note saporite le avrebbero procurato indimenticabili piaceri.
Questo fiero e meticoloso cuoco, che nutriva un amore lezioso per il cibo, e non solo, è stato l’anticipatore di alcune importanti scoperte in campi apparentemente estranei alla gastronomia. In quell’epoca, la scienza e il positivismo contagiavano anche la cucina, che veniva considerata un’alchimia piuttosto che un’arte. In Francia, i cuochi rincorrevano l’idea di una haute cuisine basata sulla tecnica e sulla conoscenza di ciò che era salutare e ciò che invece non lo era. La convinzione che il sangue del maiale e la trippa facessero bene, per esempio, mentre i broccoli e la pesca fossero indigesti, indirizzava gli chef verso preparazioni pesanti e monotone. Ma Escoffier, che di tecnica e di scienza gastronomica non ne voleva sapere, affidava il suo talento alla sensibilità, alla creatività e all’esperienza. Era convinto che la maggior minaccia alla salute pubblica del suo tempo venisse dalla diffusa convinzione che “la necessità di nutrirsi appare il più delle volte non già come un piacere ma come un ingrato dovere”. Così, guidato esclusivamente dalla piacevolezza e dai capricci dei sensi, Escoffier ha fatto dello chef un artista e della cucina un’arte.
La sua grande passione era il brodo di vitello! Amava il suono dello sfrigolio della cipolla nel tegame, il profumo della carne deglassata a fuoco lento, l’aroma sprigionato da prezzemolo, timo e alloro mescolati con aglio e carote. Dedicava ore ed ore per preparare il brodo, lasciandolo sobbollire fino alla sublimità, dopo di che si sentiva pronto per cominciare a cucinare. Quel fondo di cottura – l’estouffade, l’umile fondamento di tutto ciò che segue – era per lui il principio del piacere e il segreto delle sue ricette. E ancora oggi, la sua tecnica resta intatta ed è utilizzata dai più grandi chef di tutto il mondo.
Ma, concretamente, qual era il merito della sua arte? Che cosa rendeva il sapore dei suoi piatti tanto allettante e inconfondibile? E cosa continua a rendere tanto felice una parte così primitiva di noi quando assaporiamo un certo cibo?
Ebbene, dietro all’appassionata dedizione di Escoffier per la cucina – e in particolare per l’estouffade - si nasconde, in realtà, una molecola, dal nome nemmeno troppo simpatico. Si tratta di un aminoacido chiamato L-glutammato, che si è scoperto essere presente in grandi quantità nelle proteine. L’inconsapevole genialità di Escoffier consiste nell’aver condito i suoi piatti di più L-glutammato possibile, il cui potere “saporifero” aumenta con la cottura e la stagionatura degli alimenti. Non ci sarà molta poesia in questa verità ma si tratta, comunque, di un’intuizione culinaria che ha avuto grande rilevanza anche in campo scientifico, biologico e neurologico.
Oggi si sa, infatti, che la nostra lingua possiede un recettore di glutammato specifico, che risponde al gusto delle proteine e che ci permette di distinguerle dagli altri sapori, facendocele apprezzare in maniera amplificata. Questo perché il nostro stesso organismo è fatto in gran parte di proteine, oltre che di acqua, e ha quindi bisogno di una costante ricarica di aminoacidi che al palato sprigionano un inspiegabile piacere. Probabilmente i vegetariani, come me, alterano questo meccanismo chimico adattandolo alle proprie abitudini alimentari. Immagino che la mia lingua possieda dei guizzanti recettori pronti a catturare tutta la bontà racchiusa in un pomodoro o in una fragola, piuttosto che un filet mignon au foie gras. Comunque, l’essere umano è nato e si è sviluppato carnivoro, si sa, e la lingua ama ciò di cui il corpo ha bisogno. Questo è il motivo per cui quando spolveriamo una pasta al pomodoro con del parmigiano grattugiato la pasta acquista maggior bontà: il parmigiano, infatti, trabocca di quella misteriosa molecola ed esalta il sapore della salsa di pomodoro rendendolo assolutamente unico, squisito.
Ma Escoffier, concentrato com’era nella sublimazione dei sapori al palato, ha paradossalmente scoperto anche un’altra verità. Vale a dire che il gusto, in realtà, è prevalentemente odore! I suoi piatti, infatti, venivano immancabilmente serviti caldi e fumanti, in modo che le molecole volatili dei cibi giungessero prepotentemente al naso e il piacere dell’olfatto anticipasse quello del gusto. Il profumo del boeuf bourguignon, in pratica, predisponeva positivamente l’avventore al pasto, stuzzicando le ghiandole salivari e mettendo in moto un desiderio molto più complesso del semplice appetito.
La lingua non è una brava solista nel concerto del piacere. Non potrebbe cogliere da sola tutte le sfumature aromatiche di un pizzico di dragoncello in una vellutata d’aragosta, l’accenno di vaniglia in una crema inglese, la fogliolina di cerfoglio immersa nel potage di carote. Ha bisogno della collaborazione del naso. Oggi questo non ci pare tanto assurdo, perché sappiamo che i recettori olfattivi occupano una grande parte del nostro DNA, oltretutto i neuroni nasali hanno un’ottima memoria e si rigenerano continuamente, rispondendo a migliaia di stimoli differenti. Tuttavia, l’olfatto non pare essere un senso molto “intelligente”, perché si lascia facilmente ingannare dal contesto. Moltissimi e divertenti esperimenti dimostrano che se ci viene fatta annusare dell’aria inodore ad occhi chiusi, informandoci che davanti al nostro naso ci attende un boccone di gorgonzola, ecco che si scatena immediatamente dentro di noi un famelico desiderio. Secondo questo stesso principio, la famosa aranciata è stata colorata di arancione perché era stato dimostrato che, con quest’aspetto, piaceva di più dello stesso liquido incolore, seppure con lo stesso identico sapore.
Senza volerlo, la mente inganna le nostre percezioni. L’innovativo Escoffier, inconsapevolmente, ha saputo sfruttare la fallibilità dei sensi e la conseguente confusione sinestetica con geniale professionalità. Intuendo, infatti, che quello che gustiamo non è solo un boccone ma anche un’idea, faceva sfilare i suoi camerieri in smoking, e i cibi venivano serviti in piatti d’argento e fini porcellane. Un piatto diventava perfetto se creava una disposizione d’animo perfetta.
Escoffier esigeva, pertanto, che i suoi piatti fossero sempre onorati ed era convinto che le persone potessero persino imparare a mangiare, addomesticando i propri gusti. Così, dopo aver lavorato al Savoy di Londra, sfidò se stesso scommettendo di riuscire ad educare persino le pessime abitudini gastronomiche degli anglosassoni. Inventò per questo il menu di degustazione, proprio come strumento educativo all’alimentazione, con la speranza che prima o poi gli inglesi sarebbero diventati un po’ francesi, almeno a tavola. E siccome il senso del gusto, così come quello dell’olfatto, è estremamente duttile, Escoffier con la sua scuola e i suoi seguaci è senz’altro riuscito nei secoli a convertire ed educare un’infinità di gusti, plasmando altrettanti palati, nasi e cortecce cerebrali.
Ecco, dunque, l’orgoglioso Escoffier, l’inventore di menu raffinati, l’educatore di gusti, il rivoluzionario dell’arte culinaria, catturato da improvviso incanto dalla voce di Nellie Melba. Lui, amante del lusso e delle donne, non resiste al desiderio di sedurla e comincia il corteggiamento creando un dolce con il suo nome. C’è però proprio da chiedersi con quale altra delle sue virtù possa essere riuscito a conquistare quelle della bella Melba, essendo la pesca a lei dedicata un dolce freddo, privo quindi di un profumo particolarmente intenso e coinvolgente. … Non so perché, ma mi piace pensare che Escoffier abbia acceso gli appetiti della gentile dama ricorrendo ad un aperitivo eccitante e antico come il mondo: la dolcezza di un bacio!

Elisir d'amore



Preparare una salsa è un po’ come fare l’amore.
Occorrono passione, fantasia, gentilezza e quel pizzico d’esperienza necessario a guidare l’istinto nella scelta degli ingredienti, delle dosi e dei tempi. In cucina, certamente, la materia prima ha un ruolo protagonista – come l’amante a letto, appunto - ma non esclusivo, perché ciò che crea l’alchemica magia sono anche le quantità, le proporzioni, i tempi e le pause, il cui equilibrio si tradurrà poi nel piacere all’assaggio. Sapori e aromi devono incedere, dunque, in maniera armonica fin dalla preparazione, assecondando ritmi cadenzati quale oculato preludio d’altri più accesi movimenti. La complicità che si stabilisce tra le mani e gli ingredienti è il segreto di un buon risultato, poiché ogni piccolo tocco, intimo o ardito ma mai arrogante, rivela la sensibilità di un bravo partner, così come quella di un bravo chef.
Questa stuzzicante metafora vale per tutti i tipi di preparazioni culinarie, s’intende. Tuttavia, penso che salse, confetture e marmellate si prestino particolarmente a una stuzzicante traslazione in chiave erotica, sia per quanto riguarda la messa in opera, sia la degustazione, possibilmente condivisa in giusta compagnia.
Non so se il signor Angiolino Berti – che già tempo fa avevo coinvolto in un mio articolo – s’ispiri a un sentimento amoroso durante la confezione delle sue famose salse. So, però, che il risultato è certamente una sintesi esemplare di come si possa trasformare in sensuale bontà alcuni dei prodotti più semplici e naturali della Terra.
Anche l’amore è, infatti, cosa semplice e naturale. Caso mai sono gli innamorati che, spesso, lo rendono complicato, proprio come certi gourmet eccessivamente sofisticati esasperano un buon piatto.
Tra le tante preparazioni del signor Angiolino, ce n’è una che mi ha fatto particolarmente innamorare. E’ una confettura a base di fichi e mela verde che già per la semplice scelta degli ingredienti evoca l’amore e l’erotismo. Innanzitutto è una confettura, non una marmellata, cioè ha una percentuale di polpa di frutta tale da risultare particolarmente densa,  rotonda e vellutata al palato. Il sottofondo è morbido e pacatamente dolce, come il fico, ma qua e là nella polpa contrastano spicchi croccanti di mela che, con la sua sfumatura d’aspro, completa il composto d’impreviste note saporite. Tutti i sensi conosciuti entrano in gioco: la confettura è bella d’aspetto, saporita come un bacio, morbida come una carezza, profumata come la pelle e quel musicale ‘clic’ all’apertura del barattolo solletica persino l’udito, anticipando così il piacere del gusto. Lo sposalizio tra fico e mela è assolutamente originale, vi assicuro. Oltretutto, mescolare con tale maestria due frutti così significativi nella storia non solo alimentare ma anche simbolica dell’umanità, sembra rendere questa confettura ancor più seducente.
Pensiamo al fico. Forse non tutti sanno che questo meraviglioso frutto dalla straordinaria carica energetica, stringe un’alleanza molto intima con l’ambiente in cui l’albero cresce. E’ un’esemplare testimonianza di quanto possono essere complici i rapporti tra il mondo vivente macroscopico e quello microscopico. I fichi, infatti, maturano due volte l’anno, quando si miete e quando si vendemmia, direbbero i contadini di una volta. Oggi anche l’agricoltura ha i suoi trucchi ma tradizionalmente, per portare a maturazione questi gioiosi frutti occorreva assecondare la Natura, anziché raggirarla. Bisognava, innanzitutto, appendere sull’albero del fico domestico i frutti non commestibili del caprifico, cioè la pianta di fico selvatico. Tramite quest’imbastardimento, i minuscoli e prolifici moscerini presenti nei frutti del caprifico cominciavano a migrare verso i frutti del fico, quelli buoni, socchiudendone il cuore, assorbendone l’eccesso di umidità e soffiandoci dentro l’aria esterna. Si verifica un passaggio di principi generatori … entra il sole e i soffi fecondatori, grazie ai moscerini che schiudono gli orifizi, come ebbe modo di dire Plinio il Vecchio in qualche suo scritto. Pur non avendo strumenti d’osservazione e conoscenze scientifiche, Plinio non era lontano dal vero. Funziona proprio così: un imenottero appena visibile trasporta il polline dal caprifico al fico, che non possiede fiori maschili. Uscendo dall’ostiolo, il forellino alla base del siconio, l’infiorescenza che contiene i piccoli fiori femminili s’imbratta di polline proveniente dai fiori maschili. Il moscerino, volando all’interno dei siconi del fico domestico, è dunque il responsabile della fecondazione dei fiori, che daranno poi vita ai carnosi e dolci frutti.  La simbiosi tra fico e insetto è uno straordinario esempio della variegata sessualità della Natura, che attraverso invisibili e meticolosi gesti partorisce ‘creature’ di straordinaria bellezza e bontà. Tuttavia, non è solo l’atto fecondativo del fico a evocare un’analogia con la sessualità. E’ anche l’aspetto, sia delle foglie, sia dei frutti. Il contorno delle foglie, infatti, ricalca la virilità maschile e forse per questo si vuole che Adamo ed Eva se ne servissero per coprire le proprie nudità. Inoltre, il fico è un frutto succulento dalla foggia sfacciatamente evocativa, tanto che in virtù del suo simbolismo, era il goloso protagonista nelle feste dionisiache, in cui si portavano in processione una brocca di vino, una vite, un capro, un paniere di fichi e un fallo scolpito nel tronco del fico stesso. Nel tempo, la domesticazione della pianta ha semplificato la vita riproduttiva del fico e ha migliorato i caratteri del frutto, mantenendo però le sue connotazioni sessualmente simboliche.
E che dire della mela? La mela fa parte della storia umana molto prima che Newton ne traesse ispirazione. Le sue origini sono alquanto incerte ma la leggenda vuole che essa sia il frutto proibito dell’Eden. La fiabesca immagine deriva da un vago accenno che si fa nelle Scritture ad un generico frutto tondeggiante, in realtà non specificato, tradotto dall’ebraico tappuah e poi dal greco melon. In verità, l’affermazione della mela nella coltura e nella cultura universale è frutto di un lungo e profondo rapporto di conoscenza tra le potenzialità della Natura e le opportunità dell’Uomo. La domesticazione del melo si completa, infatti, solo con la diffusione della tecnica dell’innesto, in epoca greca e poi romana, tecnica che consente anche la moltiplicazione di differenti specie di frutti, ognuno con sue specifiche caratteristiche. Tuttavia, il mito resiste oltre la realtà e alcuni maligni sostengono che furono certi Padri della Chiesa, ovviamente celibi e misogini, a scegliere la mela come frutto del peccato, perché tagliandola a metà videro comparire i semi disposti a foggia di vulva, proprio quella parte di Eva responsabile della corruzione di Adamo. Leggende a parte, il simbolismo di questo fascinoso frutto sembra derivi proprio dagli alveoli racchiusi nel suo cuore, a forma di stella a cinque punte. Robert Ambelain, nell’”Ombres des cathédrales”, ha scritto infatti che il pomo è il simbolo della conoscenza perché, dividendolo perpendicolarmente, vi si trova un pentagramma, tradizionale simbolo del sapere. Fatto sta, che la mela resta il frutto della tentazione, persino nella fiaba di Biancaneve. E in particolare, l’allusione alla complicità sessuale ha ispirato filosofi, poeti e artisti d’ogni tempo. Il giardino di Afrodite della poetessa greca Saffo è, guarda caso, un boschetto di giovani meli, dove sopra gli altari fumano incensi. E più recentemente, Pablo Neruda ha decantato una Donna completa, mela carnale, luna calda, bacio a bacio percorro il tuo piccolo infinito.
Insomma, fico e mela continuano a nutrire le nostre assetate fantasie, oltre ai nostri famelici corpi. Ed ecco che mescolati insieme e deliziosamente racchiusi in un barattolo di vetro, non possono che esser nati dall’amore e amore suggerire. Anche una confettura è un piccolo infinito da percorrere … pura poesia per il palato. E, forse, se Adamo ed Eva avessero conosciuto quest’elisir d’amore, l’avrebbero preferito al tanto tribolato pomo, evitando così d’inguaiare se stessi e l’intera Umanità!
Ringrazio il signor Angiolino Berti, dunque, per aver deliziato i miei sensi con tanta dolcezza e ispirato queste mie giocose righe, scritte tra un cucchiaino di frutta, un segreto desiderio e un sospirato piacere.