venerdì 14 novembre 2014

QUEL RICCIOLO CAPRICCIOSO TANTO BBONO!




“Più erba se magna, più bestie se diventa”.
Così mi dicono i miei amici romani quando a tavola, mentre loro si godono un’amatriciana ben condita o una truculenta pajata, mi struggo davanti a un piatto di tenere, gioviali puntarelle.
In effetti, vista la proverbiale passione dei romani doc per la carne e in generale per le pietanze robuste e sostanziose, parrebbe un paradosso che possano nutrire lo stesso amore per erbe, verdure e ortaggi. Invece, andando a frugare tra antichi ricettari e colorite testimonianze storiche, scopro che anche i vegetali hanno sempre avuto un posto d’onore sulle tavole romane, forse proprio per bilanciare una dieta altrimenti eccessivamente proteica. O forse, solo per temperare le papille gustative con sfumature più delicate ma altrettanto sfiziose, rispetto ai toni più aggressivi di certi intingoli carnivori normalmente consumati.
Aldo Fabrizi, per esempio, paladino della cucina romana, amava le erbe, al punto da esprimere un bizzarro desiderio: che ai suoi funerali, oltre ai soliti fiori, venissero profusi anche tanti fiori di zucca…allegri, solari, gioiosi! Se ciò sia poi accaduto non si sa, ma si sa che l’attore si dilettava con guizzo estroso in cucina e non mancava mai di aggiungere erbe aromatiche e verdure a ogni suo piatto.
Non credo, tuttavia, che i romani, amici miei, impieghino le erbe in cucina in virtù dei loro effetti medicamentosi, sò troppo golosi loro! Quindi dev’esserci del buono riconosciuto anche in tutte quelle verdure che, dall’Ottocento a oggi, arricchiscono i primi piatti e i secondi di carne della cucina romanesca. Gli antichi orti romani sono leggendari tanto quanto certe ricette: cicoria, spinaci, fave, fagiolini, zucchini, broccoletti, carciofi, cavolfiore, melanzane, peperoni, invidia, asparagi, la lattuga romana crescevano tutt’attorno la città con un’abbondanza divina e, insieme a erbe e fiori, ammantavano di colore tutta l’area del Foro romano, accanto al convento di S. Adriano. Pare che il primo forte stimolo a impiegare ortaggi in cucina derivi dall’antica Roma: nel I sec. d.C. un certo Antonio Musa, medico, divenne famoso per aver restituito la salute all’imperatore Ottaviano Augusto semplicemente prescrivendogli dosi massicce di lattuga da consumare ogni sera. La portentosa cura valse al medico uno stipendio invidiabile e all’imperatore la guarigione. Ovviamente, con ogni probabilità la lattuga non ebbe alcun merito nella cura, tuttavia da allora l’insalata diventò di moda e i Romani ne cominciarono a consumare un po’ ogni giorno convinti, foglia dopo foglia, di conquistare la longevità.
Le qualità più pregiate erano la cipria, così detta perché tenerissima, e la cecilia, dalla nobildonna Cecilia Metella che notoriamente la prediligeva.
Una specie di verdura che ancora oggi rallegra le tavole romane, soprattutto nei mesi a cavallo tra l’autunno e l’inverno, è rappresentata dalle puntarelle, appunto, quelle che io tanto amo. Sono i germogli, piccoli teneri turgidi e carnosi, di una particolare cicoria coltivata negli orti romani. Una cicoria più lunga, affusolata e meno amara di quella selvatica: è la cicoria dolce della catalogna. Coltivata già duemila anni fa, si distingue dalle altre per quegli steli floreali, le puntarelle appunto, che sporgendo dal cespo conferiscono al mazzo la classica forma allungata. Molti conosceranno la piacevole croccantezza sotto i denti, la freschezza al palato e quel sapore intrigante dato dal condimento delle puntarelle; ma non tutti, forse, sanno quanta paziente manualità occorre per estirpare le puntarelle dal ceppo di catalogna e per renderle così sottili e ricciolute. Esistono attrezzi ad hoc ovviamente, eppure andare al mercato coperto di Via Cola di Rienzo o a quelli rionali dei dintorni e osservare le mani nude delle donne e degli uomini danzare sui ceppi di verdura, beh è un’esperienza affascinante e rende davvero l’idea della sapienza tramandata negli anni per preparare questi germogli al meglio.
Germogli che, anche una volta estorti al ceppo, non si concedono così ben sottili e arricciati come li si vede nel piatto ma abbisognano ulteriori trattamenti: importante è avere un tagliapuntarelle (arnese brevettato da un artigiano romano!) e poi gettare i germogli per almeno mezz’ora in acqua fredda, altrimenti non s’arricciano (per la cronaca, a me non s’arricciano neanche in acqua ghiacciata, non so perché!). E senza quel ricciolo capriccioso, le puntarelle perderebbero parte del loro giocoso impatto, piacevole allo sguardo e irresistibile al palato.
I Romani veraci, come gli amici miei, le amano così:

Puntarelle in salsa d’alici
Lavare bene le puntarelle scartando con un coltellino le foglie verdi e parti più coriacee. Tuffare i germogli in acqua gelata, magari con qualche goccia di limone, e lasciarli immersi per una buona mezz’ora. Dopo di che, scolarli, asciugarli e metterli in un’insalatiera in cui s’è preparata una salsina ottenuta pestando acciughe, spicchi d’aglio, poco d’aceto, olio extravergine d’oliva, sale e pepe.  Mescolare le puntarelle ben vestite di questa salsina, lasciarle riposare per qualche minuto e, finalmente, buon appetito!
Le varianti a questa ricetta classica sono diverse … con capperi, limone, aceto di mele, pomodorini, peperoncino, uova sode …  ognuno può giocare con fantasia condendo le puntarelle a piacere. Ma l’anima di questo vegetale dal ricciolo sfizioso resterà sempre un’esclusiva tutta romana!
Amici miei: “Più erbe se magna, più bboni se diventa!”