martedì 11 settembre 2012

Re di Cuori



Un Cuore grande può accogliere un solo Re alla volta.
Un Cuore piccolo, molti.

Mentre il primo si sentirà a sua volta re,
il secondo sarà sempre suddito.

La mistica del sushi



La prima volta che mi sono trovata davanti a un piatto di sushi è stato undici anni fa.
Era la primavera del 2001 e stavo a New York, in una ridente Manhattan che ancora faceva parlare di sé solo per la sua vertiginosa bellezza e la sua vita frenetica. Dovendo concentrare in pochi giorni una miriade di angoli imperdibili da esplorare, il momento del ristoro non era fondamentale ma comunque necessario per recuperare l’energia spesa su e giù per avenues e grattacieli. Fatto sta che mi son resa conto allora di quanto non fosse facile la vita per una vegetariana in una città in cui regna Burger King e dove la maggior parte dei ristoranti etnici offre principalmente piatti di carne d’ogni tipo, drogati da un’incredibile varietà di spezie. Esclusi, quindi, hamburger e kebab e preferendo eventualmente pinne di pescecane e alghe al vapore alla pizza di Little Italy, mi son trovata una sera nel Theater District, sulla quarantacinquesima strada, davanti a Kodama, un rinomato ristorante giapponese. Ammetto d’essere una vegetariana anomala – o “in evoluzione”, come qualcuno ama dire - poiché di fronte a pesce e crostacei mi arrendo più che volentieri, perciò mi sono infilata nel locale, sperando in un tavolo libero e curiosa di provare quel tipo di cucina.
Contrariamente alle nostre città, New York pullula di ristoranti giapponesi mediamente a buon mercato, che niente hanno a che vedere con gli eccessi di Nobu a Milano o dello Zen Sushi a Roma.  La qualità è normalmente più che buona e l’atmosfera fa quasi dimenticare d’essere in America, se non fosse per il menu stampato anche in caratteri occidentali. La preparazione dei piatti avviene al momento, sopra un banco a vista, dove uno chef, con abile maestria e matematica precisione, affetta, arrotola, infilza e impiatta il sashimi o il sushi scelto.
Nell’attesa leggo il retro della lunga lista, fitta di nomi improponibili e imparo che non si sa esattamente quando questi piatti siano stati inventati. Pare siano stati i monaci buddisti provenienti dalla Cina ad averli introdotti in Giappone nel VII secolo. Ma si sono diffusi solo nei primi dell’800, ad Edo, l’odierna Tokyo, dove un certo Hanaia Yonei sembra abbia inventato il primo Nighirizushi, che veniva venduto su bancarelle di legno lungo le strade. Fatto sta che questa tradizione ha resistito fino a oggi, conquistando il gusto occidentale e diventando, addirittura, una moda e un modo per differenziarsi anche a tavola.
Ma di cosa si tratta effettivamente? Ebbene, il sashimi altro non è che pesce crudo tagliato molto sottilmente, accompagnato da molluschi affettati, da intingere in salsa di soia,  serviti con  wasabi, ovvero il nostro rafano, gari, cioè zenzero, e ponzu. La salsa ponzu, a base di limone, è gentile e piuttosto innocua al palato rispetto al wasabi, che al contrario è un intingolo verde molto aggressivo, non per niente chiamato anche namida, ossia lacrime, tanto per mettere in guardia sul suo potenziale effetto. Il gari ha un sapore dolciastro e acre insieme, che a me ricorda il profumo di sapone e viene alternato alle portate come sorbetto. Il sushi è invece una preparazione a base di riso cotto con aceto, zucchero e sale e guarnito con pesce crudo, alghe, verdure, uova e talvolta anche carne. Esistono molte versioni di sushi, a seconda della combinazione dei ripieni e dei condimenti ma anche della maniera in cui vengono presentati in tavola.
Il Makizushi è forse il più diffuso da noi e consiste in deliziose polpettine cilindriche avvolte in un foglio di alga essiccata, l’alga nori, che a guardarle sembrano gioielli in miniatura. Così come il Nigiri è piuttosto conosciuto e si presenta come petali di pesce crudo, tonno, salmone o gamberi principalmente, distesi su un letto di riso, che è quasi un delitto disfare.
Ma le versioni sono moltissime, dal Futomaki al Uramaki, dall’Oshizushi al Nigirizushi, con una fantasia non solo di nomi ma soprattutto di forme e colori da farne pregustare il sapore solo alla vista. Niente è casuale nella combinazione degli ingredienti, persino le dimensioni di ogni pezzo devono attenersi a regole precise, per far sì che ogni piatto sia una piccola opera d’arte.  L’Hosomaki, per esempio, è una polpettina di due centimetri, molto più abbordabile per chi non è avvezzo agli hashi, le bacchette, rispetto ad un Temaki, polpetta a forma di cono lunga dieci centimetri, decisamente poco pratica da afferrare, per cui è concesso l’uso delle mani. Varianti del pesce crudo sono i Tempura, gamberi fritti in pastella, e i Noodles, lunghi spaghetti molli, davvero non facili da raccogliere. Infine, il tofu, formaggio di soia, e il sakè, il tradizionale vino giapponese, completano la tavola. 
Da quella prima volta mi sono innamorata della cucina giapponese e dell’atmosfera che l’accompagna, anche se onestamente non è stato immediatamente naturale per me gestire tanto piacere con gli hashi. Eppure, con un po’ di pazienza e tanta curiosità, ho capito come anch’essi contribuiscano al rito: maneggiarli con sapienza è un’arte che suggerisce lentezza e aiuta ad apprezzare il momento del pasto come puro godimento. Ma occorre imparare alcune regole di bon ton nipponico: innanzitutto gli hashi, quando non utilizzati, vanno appoggiati su un apposito sostegno, l’hashioki, non devono mai essere infilati nel riso, poiché questo è un gesto ammesso solo durante i funerali, non devono essere utilizzati per indicare qualcuno o qualcosa e non devono mai essere incrociati, perché porta sfortuna. Infine, per servirsi da un piatto di portata, occorre usare la parte estrema che non si è avvicinata alla bocca.  Portare la ciotola del riso all’altezza del mento non è affatto disdicevole, così come sottolineare il gusto con apprezzamenti sonori, risucchi e gorgoglii, cosa poco fine per noi occidentali ma esplicito segno di gradimento per i Giapponesi.
Mangiare giapponese non è semplicemente accontentare il palato. E’ un mondo si sensazioni, una vera e propria esperienza mistica che coinvolge più livelli sensoriali. Innanzitutto è un piacere da guardare. Il piatto deve essere innanzitutto bello, preludio di un’armonia perfetta che comincia dall’arte della sua preparazione. Non per niente per diventare cuoco di sushi occorre dimostrare forte volontà e disciplina. Tradizionalmente, l’apprendista si doveva limitare ad osservare il suo maestro fintanto che non avesse imparato alla perfezione la tecnica di cottura del riso e più avanti l’arte del taglio del pesce. Addirittura, un tempo, questa era una professione esclusivamente maschile, poiché si pensava che le mani femminili, possedendo una temperatura mediamente più alta, alterassero la freschezza degli ingredienti. 
L’unico senso non fortemente coinvolto è, forse, l’olfatto, non essendo previste spezie e trattandosi principalmente di cibi crudi e freschi. Ma con un po’ di fantasia, da un bocconcino intinto in soia e rafano, si riesce ad immaginare il profumo salmastro di conchiglie e di mare. Al piacere estatico segue quello del gusto. Ogni boccone invita ad una masticazione lenta e flessuosa, che mescola la fluidità della materia con la scioglievolezza della lingua. E’ estasi allo stato puro, quasi da gustare ad occhi chiusi per assorbire meglio ogni sfumatura di sapore e di colore. E’ un po’ come se la piacevolezza al palato diventasse bella e la bellezza diventasse buona, in una contaminazione dei sensi davvero stimolante.
Quando mi trovo alle prese con un piatto di sushi, è impossibile per me trattenere mugolii di apprezzamento vagamente equivoci, che di solito solleticano o imbarazzano chi mi accompagna, a seconda della sensibilità, ma che sicuramente non lasciano indifferente. In situazioni simili somiglio un po’ a Mag Ryan nel film “Harry ti presento Sally”, tanto per intenderci, quando, seduta al ristorante, di fronte al suo compagno, simula il piacere orgasmico che il cibo le dà, contagiando tutti i presenti con esagerati gemiti. Se poi il piatto in questione avesse anche un aspetto allusivo e particolarmente invitante, beh, ancora meglio …
Forse in Giappone non scandalizzerebbe quest’esternazione di godimento, dato che alla fine di ogni pasto è usanza tirare un lungo sospiro di sollievo, per sottolineare la propria soddisfazione. Sospiro che fa capire come un cibo possa diventare alimento non solo del corpo ma anche dell’anima.
Da quella prima volta a Kodama sono diventata una frequentatrice affezionata di sushi-bar. Ho anche imparato a preparare da me alcune ricette con meticolosa precisione e libertà di fantasia. E devo dire che è un vero piacere anche lo stesso manipolare riso, alghe e pesci. Arrotolarli con cura nel bambù, aggiustarne la rotondità nell’incavo della mano, dare la giusta lunghezza con le dita, ponderare con delicatezza lo spessore, infilare ogni ingrediente al suo posto rifinendo per bene il contorno e sistemare infine il tutto in modo che il piatto trabocchi di desiderio. Insomma, è un’esperienza che mette davvero l’acquolina in bocca.
A questo punto, se siete stati contagiati anche voi dall’irresistibile voglia di sushi, non mi resta che dirvi “itadakimasu” e “kanpai”, ovvero buon appetito e cin cin a tutti.
Il piacere è servito!

Piccolo, grande amore



Come ogni mattina, anche oggi non vorrei svegliarmi. 
Mi piace crogiolarmi nel tepore del letto e gustare le ultime briciole di sogni, prima che la realtà prenda il sopravvento. Sono impetuosa, è vero, ma ho imparato a gustare anche il piacere dell’attesa. Così, indugio ancora un po’ ad occhi chiusi, aspettando che lui torni da me dopo essersi preparato il suo solito caffè. Sì, perché come ogni mattina, anche oggi verrà a darmi il buongiorno, con le sue carezze, così care, così calde che vorrei non smettesse mai. E’ così che, anche dopo il risveglio, la realtà resta un bellissimo sogno!
Ci dev’essere il sole oggi. Lo intuisco dal canto degli uccelli, che cinguettano in maniera più animata quando è sereno. Lo percepisco dall’aria che penetra attraverso la finestra schiusa e già assaporo la gioia di una passeggiata insieme, tra i profumi di primavera, l’odore d’erba tagliata e di terra ancora umida di notte. Ma non voglio fargli fretta, aspetterò che sia lui a decidere, come sempre. La nostra è una relazione speciale, unica, esclusiva. Un rapporto fatto di vibrazioni, tacite intese e sguardi eloquenti. Quando due anime comunicano così intensamente, le parole sono superflue.
Eccolo, finalmente! Sento che apre la porta, entra nella stanza e in silenzio avanza. Non mi volto. Mi piace farmi guardare mentre mi crede ancora addormentata. Ascolto il suo passo, indossa già le scarpe, probabilmente anche la giacca, forse è già pronto per uscire. Si avvicina e siede sul bordo del letto accanto a me … sento il suo respiro caldo, che sa ancora di caffè. Mi tocca. Le sue mani sono grandi e scorrono lente sul mio profilo … scivolando sulla nuca, dietro le orecchie … oddio, quanto amo le carezze dietro le orecchie! E poi … poi scendono morbide lungo il collo, a stento soffoco il piacere che divampa e con un sospiro mi avvicino al suo corpo, per gustare meglio il caldo contatto.
Lui sa che mi piace e continua a stuzzicarmi. Le sue mani vanno sempre più giù, lungo la schiena, verso l’addome e non riesco a nascondere un brivido di piacere. Sento il mio cuore battere forte, sempre più forte … lui se ne accorge, poggia una mano sopra il mio petto e resta in ascolto.
“Buongiorno piccola!”
Oh, la sua voce è musica, la più dolce delle carezze e mi scuote tutta. Mi giro piano, aderendo al suo fianco … apro gli occhi e finalmente lo vedo, che mi osserva con un sorriso complice e invitante. Com’è bello! Che buon odore ha la sua pelle! Avvicina una mano alla mia bocca, mentre con l’altra continua a carezzarmi la pancia, in un crescendo di piacere. Sono sua, mi sento perdutamente sua! D’istinto la mia lingua scivola tra le sue dita che non si sottraggono a quel primitivo gesto d’affetto e lui ride. Lo so … gli piace farsi leccare … e io comincio piano, delicatamente, come lui vuole! Adoro sentire il suo sapore di maschio, è così eccitante! Ecco, adesso lui affretta le carezze, che si fanno più impetuose. Sta per dirmi qualcosa e io resto così, trattenendo in bocca il suo sapore, ferma, immobile, in attesa delle sue parole, quelle che più desidero. Improvvisamente s’alza e dall’alto mi incita:
“Su piccola, vieni!”
E’ questo l’invito che aspettavo! Il mio corpo scatta eccitato come una saetta e in un guizzo son già pronta! Oplà! Balzo in piedi obbediente, scrollo di dosso con vigore i sogni, trattenendo solo le cose vere, le coccole affettuose, le parole dolci e il buon sapore di lui.
Cosa c’è di più bello al mondo per una cagnolina dell’essere amati dal proprio padrone? Così fremente, salto giù dal letto e, scodinzolando di felicità, corro verso di lui che mi invita, con un biscotto in mano e il guinzaglio nell’altra, ad accompagnarlo nella consueta passeggiata mattutina! Abbaio di gioia, guaisco di piacere e saltello su due zampe per far festa, scivolando goffamente sul pavimento troppo liscio per i miei gommosi polpastrelli. La coda impazzita sbatte vigorosamente contro tutto, contro i mobili, il letto, contro le sue gambe ma non sento male, non sento più niente, solo un’incontenibile esplosione di pazza gioia!
 grazie, grazie …sono così felice … gli comunico con uno sguardo riconoscente divorando il delizioso biscotto, mentre lui, il mio padrone, apre la porta sulla campagna frizzante di primavera, per cominciare un’altra bella giornata insieme!
A proposito, sono una cucciola di Cane Corso e discendo dai fieri molossi dell’antica Roma. Sono intelligente, coraggiosa, leale, protettiva, fedele e, naturalmente, molto modesta! Il mio padrone mi chiama affettuosamente Messalina, chissà perché … Questo strano nome è simpatico e non mi dispiace, anche se, com’è noto, ogni cane ha un suo nome segreto, dal significato misterioso, che solo noi conosciamo e che possiamo rivelare solo a quegli umani particolarmente sensibili a noi quattrozampe.
Chi, invece, non ha un cane, non potrà mai capire. Perché, come ha detto tanti anni fa un tipo importante che faceva il filosofo e che mi sarebbe stato certamente simpatico:
“Chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato.”  

Una sfida vertiginosa



La curiosità per tutto ciò che è nuovo e sconosciuto mi ha portato spesso a sfidare i miei limiti, viaggiando a metà tra il coraggio e l’incoscienza.
Ripenso ancora con viva emozione a una delle mie più straordinarie avventure, una vera e propria partita contro me stessa, e raccontarla ora è un po’ come riviverla. 


E’ estate e mi trovo a Roatan, al largo delle coste dell’Honduras. Affascinata dallo spirito d’avventura di un gruppo di Americani, mi lascio convincere a partecipare al Seeshore Canopy Tour, senza sapere nemmeno esattamente di cosa si tratti. Con una pacca sulla spalla e un fragoroso “don’t worry, let’s go baby!”, mi trascinano con loro, assicurandomi che in America il canopy è uno sport ormai diffusissimo, divertentissimo e nient’affatto pericoloso. In pratica, ci si lancia da un albero all’altro appesi a delle funi come scimmie. Ma sarà, proprio, solo così?


Scopro, in realtà, che il canopy nasce diversi anni fa, in Costa Rica, dal progetto di Darren Hreniuk, un canadese innamorato della natura, che ha voluto inventare un modo tutto nuovo per far conoscere la foresta ai turisti, partendo da una diversa prospettiva, ovvero dall’alto! Da allora, il canopy si è diffuso un po’ ovunque, dall’Alaska alla foresta amazzonica, fino ad approdare anche in Europa e sta riscuotendo un crescente successo come sport estremo, con diversi livelli di difficoltà, abbordabile anche dai meno esperti e dai più giovani. Come avrei potuto rinunciare, quindi, a quest’esperienza da brivido a me sconosciuta? Ok, let’s go! 
Unici italiani, tra una decina di vivaci Americani, siamo io e mio figlio di dieci anni, che si è sempre dimostrato molto più coraggioso di me. Al parcheggio del resort ci aspetta un vecchio camioncino un po’ ammaccato, senza finestrini e tutto colorato, che ci dovrebbe portare - almeno si spera - fino al punto più alto dell’isola. Già questa pare essere un’impresa: la foresta è raggiungibile attraverso salite tortuose e sterrati a strapiombo, che ci tocca affrontare a bordo di questo trabiccolo tutt’altro che rassicurante. 
Per fortuna, ce la fa! Arriviamo in cima alla montagna, alla base di partenza del Seeshore Canopy Tour, dove tre simpatici ragazzi hondureni ci accolgono con un gran sorriso, pronti a fornirci l’attrezzatura necessaria e le istruzioni utili prima di intraprendere l’avventura. Già alla vista dell’equipaggiamento capisco che non deve essere affatto uno scherzo: elmetto di protezione per la testa, imbragatura con doppio moschettone (capirò dopo perché ne occorrono due) e guanti enormi e spessi per proteggere le mani. Ognuno di noi comincia a infilarsi l’attrezzatura e, alla fine della vestizione, vedendo mio figlio mascherato in quel modo, mi pento immediatamente d’averlo coinvolto in quest’impresa, anche se lui, al contrario, pare molto divertito e nient’affatto preoccupato. Nemmeno quando gli traduco tutte le istruzioni da seguire durante il percorso, per evitare di farsi male, sembra esitare, mentre io, per un attimo, vorrei davvero poter tornare indietro e non aver mai dato ascolto agli Americani e al mio maledetto spirito avventuriero. 

Ma siamo qui, ormai, e siamo tutti pronti. Tra poco si vola! 


Il tour consiste in un percorso di un’ora circa. Partendo da una piccola piattaforma di legno, costruita sui rami di un albero, ci si lancia agganciati ad un cavo d’acciaio - zip line – collegato ad un altro albero, fino a raggiungere la successiva piattaforma, ad un’altezza variabile dai 50 ai 100 metri. I cavi sono lunghi da 50 a 135 metri e sono due, tesi parallelamente, ecco perché due moschettoni: uno è di sicurezza, così, nel caso il primo dovesse malauguratamente sganciarsi, ci sarebbe sempre il secondo (e se si sganciasse anche il secondo …?). La postura durante il volo è fondamentale per evitare incidenti: una mano, quella davanti, afferra il moschettone, mentre quella dietro sta sul cavo, per frenare all’arrivo. Ma attenzione, perché se per caso un dito scappa oltre il moschettone addio mano! Non solo: la testa dev’essere sempre leggermente scostata di lato, perché l’urto contro il cavo d’acciaio non sarebbe piacevole, nonostante la protezione del casco; tuttavia non deve essere troppo esposta all’esterno, per evitare di colpire rami e foglie. Infine, le gambe vanno spinte in avanti rispetto al resto del corpo e tenute sempre incrociate, come essere seduti, per evitare di roteare su se stessi e perdere l’equilibrio durante il volo. 

Mi spiegano che appena ci si lancia, si ha la tentazione di stringere forte il cavo con la mano dietro per frenare, dato che la velocità mette i brividi e a tratti spaventa. In realtà, questo è un errore da non fare, perché così facendo si rischierebbe di fermare la corsa, restando sospesi a metà line, per dover essere poi recuperati da uno dei ragazzi, con enorme fatica per lui e perdita di tempo per tutti. 

Ok, capito tutto! Siamo pronti per la prima zip line! Io e il mio ragazzo siamo gli ultimi. Guardando gli Americani volare uno alla volta, come uccelli un po’ goffi nell’aria, sono presa da un duplice pensiero. Uno mi conforta e l’altro un po’ mi angoscia: tutti prima di noi sono arrivati sani e salvi alla seconda piattaforma, bene! … ma una volta fatto il primo lancio non esiste possibilità di tornare indietro, è un percorso a senso unico, fatto di una sequenza di lines a lunghezza e velocità crescente. Quindi, una volta partiti è inutile ogni ripensamento. Così come è inutile questa mia sciocca riflessione, perché adesso tocca a me e dopo di me … al mio ragazzo! 

Mi lancio, socchiudo gli occhi come a voler dimezzare la paura e spontaneo mi scappa un grido liberatorio. La sensazione è un miscuglio di paura di cadere, voglia di arrivare ma anche di fermare quei secondi in volo che mi separano dalla piattaforma che mi aspetta. L’adrenalina mi percorre in una scossa: energia, illusione di libertà, di assenza di limiti … tutto concentrato in pochi secondi che sembrano durare un’eternità. Sento solo il vento che mi sostiene, mi spinge e mi frena. Spariscono cavi, moschettoni e imbragatura, mi sembra davvero di volare calamitata da una forza atavica che annulla ogni umana debolezza. Quasi non mi rendo conto di averlo fatto davvero e approdo sulla piattaforma successiva col cuore a mille e il vento ancora tra i capelli.

Una volta atterrati occorre essere svelti e ripartire subito, non c’è tempo per pensare né per voltarsi indietro. I ragazzi mi aiutano a sganciare i moschettoni e a riagganciarmi alla successiva line, in fretta, perché le piattaforme sono strette e non ospitano più di tre o quattro persone contemporaneamente. Tutto sommato, mi sento molto più sicura appesa al cavo che non in piedi su quel fazzoletto di legno senza riparo alcuno, vista anche la mole di alcuni miei compagni d’avventura. Nel trambusto, faccio a malapena in tempo a lanciare uno sguardo indietro e vedere il mio ragazzo sospeso nel vuoto: sta volando anche lui, viene verso di me mentre io sto per ripartire. Niente grido liberatorio, gli occhi bene aperti sul vuoto, nessuna traccia di paura sul suo viso … sembra un piccolo Tarzan, penso, che coraggio! Mi commuove e mi rende ancora più orgogliosa di lui. Adesso posso affrontare la prossima corsa con più gusto e con maggior tranquillità.

Cinque, dieci, quindici lines, perdo quasi il conto dei voli a strapiombo nel vuoto! E’ vero che ogni lancio è sempre più lungo e la velocità aumenta ma, paradossalmente, il timore scivola via e l’insicurezza lascia pieno spazio ad una piacevole ebbrezza. E’ una sensazione orgasmica, corpo e mente si fondono in un rimescolarsi dei sensi. La foresta tutt’attorno e l’oceano in lontananza non sono semplicemente un panorama, non stanno fuori di me: mi sento appartenere a questa natura. Potrei essere un falco o una scimmia, un qualsiasi animale in perfetta armonia con questo teatro selvaggio. L’oceano sembra vicino da quassù, si vede persino la barriera corallina dove il blu si stempera d’azzurro. Mi vien voglia di volare su una line così lunga da poter arrivare a tuffarmi nel mare. Peccato invece, l’ultima piattaforma è alle mie spalle ormai e l’avventura è quasi finita.
Una volta atterrata definitivamente al capolinea, sento le gambe tremare per la tensione; le mani e i muscoli delle braccia fanno un po’ male per aver stretto troppo il cavo e il moschettone; la testa gira ancora piena di vento, vagamente ubriaca. Lentamente, ci liberiamo tutti dell’imbragatura. Gli Americani si complimentano col mio giovanotto con uno spontaneo applauso corale e sembrano dei giganti buoni attorno a un cucciolo. E lui si sente fiero per essere il più giovane intrepido del gruppo, forse non del tutto consapevole delle sue prodezze ma certamente felice per avere qualcosa di speciale da raccontare agli amici, al suo ritorno a casa. 

Il tour è durato un po’ più di un’ora eppure i minuti sono volati, come noi sulle lines. Sarei pronta a ripartire per una nuova serie ma non sarebbe la stessa emozione, forse. Mancherebbe l’incoscienza, l’incognita della reazione fisica e soprattutto emotiva, l’aspettativa adesso sminuirebbe la sorpresa, chissà ... Così salutiamo e ringraziamo i ragazzi che ci hanno accompagnato e assistito durante il viaggio e risaliamo a bordo del nostro scassatissimo camioncino colorato, che non fa più alcuna paura ormai. 

Il caldo e l’umidità aumentano la percezione della stanchezza fisica che all’improvviso mi assale ma la soddisfazione è indescrivibile. Guardo le espressioni degli Americani che, lungimiranti, si erano premurati di portar con sé birra e rhum per ricaricarsi, e resto in ascolto dei loro commenti, curiosa di conoscere le loro sensazioni. Da tutti i loro sospirati “Oh my God!”, scopro con una certa soddisfazione che anche i più spavaldi e temerari hanno provato un brivido di paura. Qualcuno, addirittura, si ripromette di non ripetere mai più una simile pazzia, nonostante l’entusiasmo. 

Così, sprofondo nel sedile, accarezzo la mano di mio figlio e silenziosamente mi consolo, pensando a come sono fatta! Intrepida e curiosa sì ma … le vertigini sono un mio limite fisico da sempre, che non ho mai potuto superare! Mi bastano pochi metri da terra per soffrire e mai e poi mai avrei immaginato di riuscire a vincere quella ridicola sensazione di angoscia e d’impotenza di fronte all’altitudine. 

Accetto, quindi, un rhum, come meritato premio al mio riscatto, e brindo con gli amici Americani mentre la radio trasmette un’allegra canzone country. George Strait canta “There’s a road a winding road that never ends, full of curves lessons learned at every bend, going’s rough unlike the straight and narrow … It’s for those who go against the grain, have no fear dare to dream of a change…”. 


Mai aver paura di osare e di sognare di cambiare, è vero … Faccio mie queste parole e, durante il lento viaggio di ritorno, guardo con occhi nuovi la foresta che si tuffa nell’oceano, quella foresta che mi ha accolto nel suo cuore e che mi ha restituito al mondo più ricca e più forte. 
Intanto penso già a quale sarà la prossima sfida con me stessa!

Sensualità a ritmo di clave



“Vengo de Nigeria, Yoruba y Carabalì
Nigeria y Congo son mi tierra
Mozambique y Angola soy de allì
Esa musica que heredamos
Hijos y nietos de los africanos …”

“Vengo dalla Nigeria, Yoruba e Carabalì, Nigeria e Congo sono la mia terra, Mozambico e Angola, io sono di là, questa è la musica che abbiamo ereditato, figli e nipoti degli africani …”
Era il 1997 quando Los Van Van, storica band cubana, incendiava le piste da ballo con “Esto te pone la cabeza mala”. A quell’epoca conoscevo ancora poco delle tradizioni musicali di Cuba ma ballare per me era una droga. Non perdevo occasione per abbandonarmi alla danza e inseguire i concerti dei gruppi che concedevano la loro esplosiva energia al timido pubblico milanese.
Ballare a ritmo di salsa significa abbandonarsi al flusso prorompente delle percussioni. Bongos e tambores diventano un tutt’uno col battito del cuore. E’ un po’ come entrare in trance, posseduti dentro un vortice sempre più concitato di giravolte e ondeggiamenti. Ho sempre pensato che questo tipo di danza rappresentasse un modo socialmente accettabile per comunicare la propria carica erotica, possibilmente con un partner complice. I due corpi si intrecciano, uniti da un linguaggio fatto di movimenti allusivi e sguardi esclusivi, incomprensibili agli altri. Perché una coppia quando balla diventa un corpo unico. E’ un’ espressione della sensualità che a Cuba, in special modo, viene esaltata e accettata come qualcosa di naturale e fisiologico. Un’ eredità fondamentale della cultura africana, che tanto ha determinato l’identità nazionale del popolo cubano.
Laggiù è facile lasciarsi andare. Non per niente si parla di Isla caliente. La musica è nell’aria, la si respira, scorre nelle vene, la gente non cammina ma balla, di giorno e di notte, nelle case, per le strade, sulle guaguas, gli scalcinati autobus locali. Dappertutto traspira la sensualità che musica e danza, insieme, diffondono.
Pare che lo stesso Cristoforo Colombo, giunto a Cuba nell’ottobre del 1492, restò colpito dall’esuberanza degli indigeni, con quella loro naturale propensione per i balli, i cosiddetti areitos. Era sorprendente come, sotto gli effetti dell’alcool e del tabacco, riuscissero a ballare per ore ed ore a suon di guiros, maracas e mayahoacàn.
Anche se la musica degli areitos si è persa col tempo, insieme ai suoi interpreti, decimati dalle epidemie e dalla schiavitù, gli strumenti musicali, la chiave ritmica, i canti, i passi di danza si sono tramandati fino ad oggi, mescolandosi via via con influenze americane ed  europee, fino ad arrivare alla salsa di oggi. Musica e ballo sono la migliore accoppiata della storia culturale cubana. E’ impossibile scinderli. Ed è impossibile godere appieno del piacevole stordimento che una rumba, un bolero e un mambo trasmettono se non si scava dentro al significato di questi ritmi. Perché questi balli non sono solo semplici esibizioni da palcoscenico ma linguaggi, storia e cultura da conoscere e capire.
L’origine di queste danze va cercata lontano, al tempo delle colonizzazioni, quando migliaia di schiavi africani venivano portati a Cuba, costretti a lavorare nelle piantagioni di tabacco e canna da zucchero. Insieme agli schiavi approdarono sull’isola le loro tradizioni e le loro credenze religiose che si esprimevano in canti e rituali frenetici. Accompagnato dal suono incalzante dei tamburi, il crescendo ritmico portava ad uno stato di trance. L’incrocio dei riti africani con la religione spagnola ha dato vita a una serie di culti sincretici che ancora oggi vengono praticati sull’isola. La Santeria è la più diffusa e la più complessa e si manifesta, oggi come allora, in rituali fatti di  danze in cui si rappresentavano la vita e le gesta degli Orishas, dèi tutelari delle tribù. E la musica, sempre presente nei deliri delle preghiere dei neri yoruba, era composta da basi ritmiche e melodie vocali scandite da tamburi e percussioni, detti Batà, che venivano custoditi nelle case-tempio Ilè Ochà dei Santeros e dei Babalawos, i capi spirituali.
Cuba è oggi uno dei pochi paesi al mondo in cui la religione si vive quotidianamente con allegria e le cerimonie sono vere e proprie feste, in cui abbondano cibo, rum, tabacco e musica appunto, in un’esaltazione del corpo e delle gioie terrene.
Ma è l’incontro con la cultura ispanica, prima, e francese e nordamericana, più tardi, ad aver fornito alla musica cubana quell’identità propria, inconfondibile e contagiosa che ha dato vita ai ritmi, generi, figure e balli che oggi vanno tanto di moda. Due sono le influenze artistiche che hanno portato all’evoluzione dell’attuale salsa. Innanzitutto il danzòn, ballo da sala frutto della contraddanza francese nato nel 1871, quando un musicista di Matanzas, Miguel Faìlde, interpretò quello che viene considerato appunto il primo danzòn, Las alturas de Simpson.
Da allora esso ha subito diverse trasformazioni fino a diventare il ballo da sala più popolare in Messico per tutto il XX secolo. L’orchestra che suonava danzònes, costituita da piano, flauto e violino, era conosciuta come tipica o charanga ed è tuttora la base dei gruppi musicali cubani più in voga. Ciò che contraddistingueva il danzòn rispetto ai precedenti balli da sala era una sfrontata sensualità e allusività dei movimenti. Tanto da risultare scandaloso, soprattutto tra i bianchi dell’epoca. La carica erotica venne man mano esasperata fino a trasformare il danzòn in rumba, in cui il contatto fisico era portato all’eccesso da scosse di spalle, vita e pelvi, in un’imitazione senza ritegno dell’atto sessuale.
  Il secondo contributo musicale fondamentale è il son, ritmo mulatto, meno bianco del danzòn ma anche meno nero della rumba, amalgama di elementi ispanici e africani, che riassume in sé l’intero patrimonio culturale cubano. Nato nella campagna d’oriente di Cuba, a Santiago, nella seconda metà del secolo scorso, ha attraversato tutta l’isola, arrivando fino a La Habana e da lì ha invaso tutto il mondo. La ritmica del son è data dalla clave, due bastoncini di legno percossi tra loro secondo una misura matematica, che forma la struttura portante dell’orchestra. Ma la clave è molto di più perché fornisce ai ballerini la frase musicale su cui giocare i passi. E’ uno schema mentale che permette l’intesa dei movimenti all’interno della coppia.
 Ancora oggi si ballano bellissimi pezzi rivisitati del Sexteto Habanero, del Trio Matamoros o di Arsenio Rodriguez, il “cieco meraviglioso”. Pur con l’introduzione di strumenti e orchestrazioni moderne non si perde nel tempo l’anima del vecchio son.
A partire da questi storici soneros, esso ha vissuto uno sviluppo vertiginoso, mescolandosi sempre più con i ritmi puertoricani e newyorkesi che come un boomerang rimandavano sull’isola novità musicali, strumentali e ritmiche non più riconducibili ad alcun genere preesistente. Fu Benny Moré con la sua Banda Gigante, negli anni cinquanta, a trasformare definitivamente il son in un punto di riferimento insostituibile per tutti i musicisti salseri. Dopo di lui, infatti, si cominciò a parlare di salsa, per cercare di definire un miscuglio musicale nuovo, saporito, tutto da gustare. Oltretutto il fatto che dentro Cuba non ci fosse l’esigenza di competere commercialmente per vendere musica, ha lasciato spazio e tempo per sperimentare sempre nuovi stili e forme musicali, senza compromessi e oltre ogni schema rigido, spaziando dall’afro al jazz, dal pop al rock. Ma mai perdendo il ritmo del cuore del son.
Oggi si parla di salsa cubana, puertoricana, venezuelana, free style, new york style e timba ma nulla toglierà al son la paternità di un ritmo e di un modo di ballarlo che è diventato banalmente di moda. Quanti italiani sono stati trascinati ad iscriversi a scuole di ballo e a frequentare lezioni, nel tentativo disperato di educare i piedi e sciogliere le cintole, ostentando una sensualità impropria e spesso ridicola! Il problema vero, per la maggior parte di loro, è l’incapacità di abbandonarsi, di liberare la mente, oltre che il corpo. Prevale il desiderio di esibirsi agli occhi del pubblico. Niente di più sbagliato. Il ballo è un fatto privato, intimo. Si potrebbe ballare ad occhi chiusi. Seguire e accompagnare il proprio partner in un dialogo segreto, comunione di spirito e corpo, legati in armoniosa sinergia.
Questo dovrebbe essere il ballo. Gioia, energia, vita! Così come gli schiavi yoruba si riscattavano dalle oppressioni attraverso l’espressione del corpo nella musica anche noi dovremmo imparare a sentirci liberi ballando. E magari cantando con Los Van Van …
“Bombo canilla y campana
Un buen guiro y hasta manana
Ay con este ritmo tan afinca’o!
Bailen bien que aquì el que baila gana
Esto te pone la cabeza mala”
“Cassa, bacchetta e campana, un buon guiro e fino al mattino, con questo ritmo così coinvolgente, balli bene chi ha voglia di ballare, questo ti fa impazzire …”

Sulle tracce di Henry Morgan



E’ l’ora della siesta. Cullata dall’amaca guardo l’oceano e ascolto il rifrangersi delle onde sul reef che accompagna una carezza di azzurri, verdi e blu fin sulla spiaggia.
Mi trovo a Roatan, a cinquantasei chilometri al largo della costa dell’Honduras, una piccola isola che appartiene all’arcipelago della Bahia, prolungamento naturale della barriera corallina del Belize. Insieme a Utila e Guanaja è la maggiore delle isole della Bahia, la più popolata e anche la più tecnologicamente avanzata, tanto che vanta addirittura qualche strada asfaltata, particolare che quasi stona in tanta selvaggia natura. Tutto attorno altri sessantacinque atolli, tra cui i Cayos Cochinos, coronano l’arcipelago e pare quasi siano lì a proteggere un incanto in gran parte ancora vergine.
Affascinata da tanta bellezza mi rendo conto del perché un pirata della portata di Henry Morgan avesse scelto proprio queste terre come quartier generale delle sue prodezze. L’intraprendente giovane arrivò dal Galles nel 1655 circa come manovale di contratto, ovvero come schiavo bianco ma grazie alle sue intrepide imprese divenne ben presto bucaniere e in seguito  corsaro, fino ad essere nominato Governatore di Giamaica. Insomma, una carriera degna di merito e ancora oggi si parla di lui come il leggendario Re dei Pirati.
Gli abitanti di Roatan, gli islenos, hanno voluto dedicare proprio ai pirati la capitale dell’isola, battezzandola Coxen Hole, da Coxen, altro famoso brigante dei mari, anche se il centro commerciale e vitale resta West End, col suo susseguirsi di negozi di souvenirs,  ristoranti, pulperias, spesso costruiti su palafitte di legno bagnate dalle onde. Pare che i pirati abbiano tenuto qui a lungo le loro basi e ancora oggi si narra di tesori sommersi che il mare tuttora custodisce e che il fato, o meglio la suerte, potrebbe un giorno decidere di restituire a qualche fortunato. L’ultima cassa piena d’oro è stata rinvenuta alla fine degli anni ’50, da allora più nulla ma la leggenda vuole che il più ricco tesoro di Henry Morgan sia ancora nascosto qui e non necessariamente negli abissi.
Mi guardo attorno e penso che fortunatamente siano davvero pochi a conoscere o a credere a questa leggenda, perché quest’isola gode del privilegio di non essere ancora infestata dai turisti (al contrario dei mosquitos purtroppo). Gli stessi islenos vivono pigramente, incuranti di ricchezze da scoprire e forse proprio per questo motivo sempre gentili e sorridenti, nonostante spesso manchi l’acqua potabile o l’energia elettrica, paiono sempre invidiabilmente sereni. Gli abitanti di Roatan discendono dai Garifuna, tribù originaria di Saint Vincent, nata da una mescolanza non sempre pacifica tra neri africani e caribi. Il popolo dei Garifuna nel 1797 viene in parte deportato dagli Inglesi a Roatan e  ancora oggi convivono sull’isola aspetti culturali e linguistici tipici dei Caraibi britannici assieme a quelli più marcatamente ispanici. E’ così che spesso gli islenos comunicano tra loro in una sorta di spanglish assolutamente incomprensibile ai turisti. Anche i tratti somatici rivelano questa dualità e all’esuberanza della pelle nera e di una corporatura forte e atletica si contrappone la dolcezza mulatta e mite tipica della sensualità latina.
A questo mix culturale fa da scenario un panorama naturale altrettanto ricco di contrasti, un concentrato di colori e profumi davvero unico. Eccolo, io penso, questo è il vero tesoro di Roatan. Non oro e preziosi nascosti negli abissi o seppelliti sulle montagne, bensì una natura prepotente, mozzafiato, esuberante come i pirati che ha ospitato. Sulle spiagge si alternano palme da cocco e pini marittimi che affondano le radici fin quasi nel mare, lasciando qua e là respiro a rigogliose piante di papaya. Anche l’interno dell’isola è un groviglio fitto di vegetazione capace di scoraggiare qualsiasi umana penetrazione.
Quel che più mi colpisce rispetto ad altre isole caraibiche è il silenzio che qui domina, o meglio l’assenza dei ritmi musicali, frenetici e sensuali che lascia rispettosamente la parola alla natura. Strani gorgheggi, veri e propri dialoghi, si elevano dalle piante, pappagalli e tucani, gabbiani e avvoltoi si scambiano voci in un tam-tam continuo mentre anatre e pavoni fanno bella mostra di sé fin sulla spiaggia, tra ombrelloni di paglia scomposti dal vento,  per un bagno al tramonto.
Sgranocchiano giorno e notte le guatusas, piccoli simpatici roditori simili al tapiro, che si uniscono così alla sinfonia. A dire il vero spesso capita anche di sentire grida di spavento di qualche gringo impreparato agli assalti delle scimmie, piccole curiose scimmie dispettose, golose e ladre che sorprendono alle spalle, si arrampicano su gambe e braccia, non demordono, anzi spesso mordono, finchè non viene offerto loro qualche cosa di ghiotto. Molto meno invadenti le iguana, lente e silenziose, che osservano immobili quasi pensierose, veri e propri draghi, a ricordare che i dinosauri sono davvero esistiti.
Unica nota dolente nel panorama faunistico di Roatan sono le sunflies, instancabili, impercettibili, insopportabili insetti dalle minuscole ali bianche, le cui punture sono inversamente proporzionali alle loro dimensioni. Non c’è repellente che tenga ma, penso, se la loro presenza può fungere da deterrente ad una rovinosa invasione turistica, allora tutto sommato provo simpatia anche per loro.
Il linguaggio della natura che colma il silenzio dell’isola proviene anche dal mare. Sono i delfini a parlare questa volta, pare ridano e mi piace credere che davvero sia così, che si prendano gioco di quei tipi mascherati con tubi di gomma, occhiali e pinne, tutti intenti a corromperli con qualche sardina per rubare loro una fotografia, una carezza e magari, perché no, un bacio.
E’ così che ripenso a Roatan, ora che sono rientrata nei confini della civiltà. Rivivo i colori dell’oceano e il silenzio delle montagne, il profumo dolce di sigaro e rhum al tramonto, la sabbia docile sotto i piedi e il vento tiepido tra i capelli … rivedo il bacio che il delfino mi ha regalato, le conchiglie di madreperla accarezzate e restituite al blu, le stelle cadenti che la notte mi hanno suggerito desideri proibiti, … ripenso al sorriso e ai volti gentili che hanno stupito i miei occhi e che non scorderò mai …
Cullata dall’amaca, questa volta nel mio giardino, mi vengono in mente le parole di una ballata gallese, lette su una scatola di rhum prima di partire :
“Eri un grand’uomo Henry Morgan, un re senza corona, quando alzavi le tue vele, eccoti ora essere tutt’uno con questa tua meravigliosa terra.” 

Il letto nel deserto



Sembra un miraggio quella piccola tenda bianca nel deserto. Da lontano si nota appena, accampata ai piedi di una duna a due passi dall’oceano. Sembra un fazzoletto svolazzante, trattenuto a stento da quattro pali di legno conficcati nella sabbia, che resistono fieri agli schiaffi del vento. E’ piccola ma grande abbastanza da accogliere un lettino su cui distendersi, una sedia dove lasciare gli indumenti e un piccolo tavolo dove appoggiare asciugamani, creme e alambicchi con profumi e oli essenziali.
E’ lì dentro che lavora Ramilton, un giovane capoverdiano dalla pelle di seta e i riccioli color d’ebano. Non è un alchimista, come tutte quelle boccette di vetro potrebbero far pensare, ma un massaggiatore molto apprezzato sull’isola. E la piccola tenda bianca è il suo regno, un’oasi di riposo, ombra e abbandono, per chiunque desideri chiudere fuori per un po’ il caldo incessante del sole e la violenza del vento che, in certi giorni, è davvero prepotente a Sal.
Il via vai dalla tenda è continuo, con un ritmo variabile e soste che durano da poche decine di minuti  fino a due o più ore. Per lo più sono donne quelle che la frequentano, donne di tutti tipi, turiste di tutte le età, anche se a volte persino qualche uomo fa visita a Ramilton, forse incuriosito dai racconti delle signore che decantano entusiaste i suoi sapienti massaggi.
Pur riconoscendone il fascino, Ramilton è decisamente troppo giovane per i miei gusti. Sembra un ragazzino sbocciato tutto d’un colpo, spremuto dall’esuberanza precoce della natura. Troppo delicata la sua pelle ambrata rispetto al nero africano, duro e animale di queste isole; troppo dolce il suo sguardo di cerbiatto, come fosse un cucciolo in cerca di carezze, proprio lui che ne è dispensatore. Il suo sorriso morbido è così disarmate che mette in moto dentro di me tutti i sentimenti più vicini alla tenerezza, piuttosto che all’eccitazione. Per questo non considero seriamente i suoi insistenti inviti ad assaggiare le sue virtù.
Vieni un giorno a farti massaggiare da me, nella mia tenda, sono bravo” mi ha detto sorridente una mattina sulla spiaggia, mostrandomi le sue belle mani di velluto. Ramilton parla un inglese talmente improvvisato che sembra una lingua nuova, inventata apposta per un sogno. Si rivolge a me quasi sottovoce e il suo tono è in sintonia perfetta con il suo modo d’essere garbato e rispettoso. Puntualmente, quando mi parla, gli vado incontro in quel buffo crocevia d’idiomi e declino gentilmente l’invito, spiegandogli di non avere bisogno dei suoi massaggi, perché ci pensa il mare, con le sue onde, ad occuparsi generosamente del mio corpo.
In effetti, così è. Ci sono momenti in cui è difficile, persino rischioso, tentare di tuffarsi nell’oceano, tanto sono alte le onde. Osservandole, ho capito che bisogna studiare il mare, calcolare il ritmo e la frequenza con cui si susseguono le onde violente fino a diventare sempre più deboli. Quello, il momento in cui la forza si esaurisce, è l’attimo in cui poter approfittare per avvicinarsi e tuffarsi, andare al largo e aspettare che il successivo moto d’acqua faccia il suo corso e ritorni quieto prima di tentare di uscire nuovamente sulla spiaggia. Bisogna essere intonati con il mare, altrimenti si rischia di esserne travolti.
Ramilton non si mette mai in costume da bagno. Anche quando esce dalla sua oasi e raggiunge la spiaggia, magari a caccia di nuove clienti, indossa sempre il suo grembiule bianco, candido come la sua tenda. Sembra un dottore. Le signore lo salutano sempre con calore, s’intrattengono a chiacchierare con lui e spesso le vedo offrirgli una bibita o chiedergli di scattare qualche foto insieme, per non rischiare di dimenticare quel viso d’angelo tentatore.
E’ sempre gentile e sorridente, con tutti, ma con me lo è di più.
Cedo al suo invito solo il giorno prima di partire, quando la nostalgia morde e anticipa l’amarezza del ritorno a casa. Cedo solo per fargli un piacere. E’ strano, non avverto alcun desiderio né necessità di offrirmi alle sue mani. Ma quando quest’ultimo giorno Ramilton mi dice “Ti prego, oggi vieni alla tenda”, il mio Ok esce di bocca così spontaneo che, senza nemmeno avere il tempo di ripensarci, sento la sua mano afferrare la mia per condurmi nel suo regno. Cammino controvento di un passo dietro a lui e quando di tanto in tanto si volta a guardarmi mi lancia un sorriso talmente raggiante e uno sguardo così grato che mi mette in imbarazzo.
Dieci minuti Ramilton, ok? Solo dieci minuti …” E’ il massimo di tempo che voglio concedergli, il perché poi non lo capisco, visto che sono libera e oltretutto adoro i massaggi. Da cosa voglio cautelarmi?
E’ l’ora in cui il calore raggiunge la sua massima temperatura sull’isola e la gente se ne sta tutta a riposare al riparo dal sole. Attraversare la spiaggia a quell’ora è un’incoscienza ma a me sono sempre piaciute le sfide, ed è una dolce tortura sentire la sabbia scottare sotto i piedi nudi, che scavano per cercare il contatto con quella più fresca.
Provo comunque un sollievo immediato appena m’infilo nella tenda, preceduta da Ramilton che tiene sollevato il telo dell’ingresso sbattuto dal vento. Appena dentro ho l’impressione di infilarmi in una conchiglia madreperlata, per via dei raggi del sole che filtrano smorzati e giocano con le ombre sulla sabbia. Tutto è candido e pulito: il lettino, le lenzuola e gli asciugamani ripiegati sul tavolo e la poltroncina dove avrei dovuto lasciare i vestiti. Non ho vestiti, solo un pareo azzurro cielo a coprire il bikini.
Comunichiamo in silenzio ora, solo cenni e sguardi. Ramilton m’invita a sciogliere il pareo e a distendermi pancia sotto sul lettino, mentre lui dà inizio ai preparativi: si lava le mani versando dell’acqua da una brocca e, dopo averle asciugate lentamente, afferra un alambicco di vetro appoggiato su un piccolo fornello, facendolo roteare adagio in una mano.
I suoi gesti sono rituali, così lenti da mettermi leggermente in agitazione anziché invitarmi all’abbandono. Mi distendo al rallentatore, ricalcando il suo ritmo, con il viso adagiato su un cuscino talmente soffice che sembra fatto di panna montata. Lo respiro, è fresco e sa di buono. Il silenzio sembra fermare il tempo, solo il sibilo del vento e un sussurrato canticchiare di Ramilton che insegue probabilmente una canzone della sua isola, dolce e triste insieme. Concentrata sulla melodia, cerco a questo punto di rilassarmi, sforzandomi di domare il battito del cuore che, inspiegabilmente, non vuole rallentare. Ho paura che Ramilton se ne accorga, non voglio mostrarmi insicura, quando fino ad ora l’ho considerato solo un ragazzino. Ho tenuto duro così a lungo e ora è lui ad essere il duro! Perché proprio adesso comincio a sentirmi io piccola e fragile? Perché sono nelle sue mani, ecco perché! E lui sapeva sin dall’inizio che avermi qui, nel suo regno, sarebbe stato l’unico modo per ribaltare la relazione e dimostrarmi la sua virilità. Mi sento improvvisamente in trappola, un’eccitante trappola.
Immersa in tutti questi ragionamenti, ormai senza speranza, sento Ramilton slacciare il reggiseno del costume da bagno e i lacci abbandonati ai lati della schiena mi procurano un brivido. Impossibile controllare il fremito, lui l’ha sicuramente notato ma chiudo gli occhi sul suo sguardo curioso.
A questo punto, sento qualcosa di caldo piovere lentamente lungo la schiena: gocce dense e profumate, forse olio di cocco, che scivolano giù, dalla nuca lungo la spina dorsale, in un rivoletto che si divide in due all’altezza dei lombi. Ramilton sta in piedi di fronte a me, il suo bacino è a un palmo dal mio viso. Senza avvicinare troppo il suo corpo al lettino, sposta leggermente i miei capelli da un lato, liberandomi il collo e accarezzandoli con un gesto gentile e premuroso, come fossero vivi. Ho paura che persino i miei capelli trasmettano fremiti invisibili.
Poi allunga le braccia e comincia a scivolare con le mani lungo la schiena, all’inseguimento delle gocce d’olio versate. Prima un lungo e lento massaggio fino alla vita per recuperare l’olio, per poi tornare su, di nuovo alla nuca. Sento i polpastrelli indugiare con cautela, come se stessero cercando il punto segreto per scatenare chissà quale piacere. Eppure mi rendo conto di pensare, anziché sentire. E’ troppo acceso il mio cervello, troppo in guardia, attento a seguire lucidamente i movimenti sul mio corpo, piuttosto che a rassegnarsi a goderne.
Shhh, rilassati …” Ramilton accompagna i movimenti delle mani con respiri profondi e lenti come i suoi gesti, tanto che piano piano riesce ad ammorbidire le mie resistenze. Ogni tanto versa nuovo olio e ogni volta il calore mi mette un brivido. La nuca, le spalle, i fianchi si rassegnano all’esplorazione sempre più piacevole e al ritmo sempre più concitato del massaggio.
Ramilton dialoga con il mio corpo, come un artista con la sua opera d’arte. Le sue mani fanno ribollire i miei lombi, premendo i pollici all’interno sulla spina dorsale, fino ad abbracciare con le altre dita i fianchi, al sorgere dei glutei, che ora vorrebbero liberarsi dall’ingombrante bikini. E lì si ferma, ha trovato il punto segreto. Sembra immobile eppure avverto leggere circonvoluzioni, sussulti caldi che mi penetrano fino dentro alla pancia, con la stessa prepotenza delle onde del mare. Sembra che, con una delicatezza inaudita, quelle mani vogliano scavare sotto la pelle, fino ad afferrare direttamente il coccige per rivoltare e raggomitolare la coda e continuare ad accarezzarmi come fossi un animale selvatico da acquietare.
Per arrivare fin laggiù,  Ramilton ha dovuto sporgersi sul lettino e allungarsi tutto sopra il mio corpo e il suo grembiule sulla schiena mi solletica la pelle aumentandone i brividi. Quando schiudo gli occhi, vedo il grembiule in parte sbottonato davanti al viso, ho le braccia raccolte sul cuscino e sfioro il tessuto bianco che si apre sempre di più, rivelando una peluria bruna e ricciuta, squarciata da un guizzo di piacere. Mi basterebbe allungare una mano … I miei mugolii sono eloquenti e Ramilton sa di aver ottenuto definitivamente la mia resa e la sua vittoria. Le carezze oleose hanno conquistato e corrotto l’animale ribelle e diffidente. Il profumo di cocco mi ubriaca di dolcezza e mi sento sciogliere di caldo sempre più dentro, tanto che le cosce si schiudono e il bacino s’inarca senza che io lo comandi. Allungo finalmente una mano verso Ramilton, che dietro al grembiule semiaperto non può nascondere la sua naturale reazione e lo incoraggio silenziosamente ad avvicinare alla mia bocca il suo corpo gonfio di desiderio e a mescolare i suoi sospiri ai miei.
L’atmosfera è ormai troppo carica di energia e di attesa perché quel massaggio a senso unico possa durare ancora a lungo. Non posso più restare ferma, il mio corpo scivola come l’olio che ha addosso e non bastano più le mani a domarlo. Nuove onde violente s’impossessano di me e voglio esserne travolta. La tenda bianca s’incendia irrimediabilmente di desiderio, gli oli profumati fanno scintille, evaporano, liberando nell’aria umori animali, densi e incontenibili e le mani scivolano in carezze reciproche, disobbedienti ormai alla ragione e beate vittime degli istinti. Il vento fuori sembra d’un tratto soffiare più forte, per poi placarsi improvvisamente, così come l’incandescenza dell’eccitazione cede spazio lentamente all’estasi del languore.
Dieci minuti Ramilton, ti avevo detto solo dieci minuti …” mormoro pigramente con un soffio di voce, mentre mi crogiolo molle, esangue ancora abbandonata ad un piacere che non vuole finire. Mi sembra d’essere un ghiotto mollusco protetto dentro la sua conchiglia, cullato lievemente dallo sciacquio del mare. Guardo Ramilton, il suo corpo snello, il suo sesso stanco e il suo volto aperto ad un sorriso di gratitudine che, per la prima volta, mi appare non più come quello di un ragazzo ma di un uomo, un uomo grande, sicuro di sé e del suo potere.
Mi sembra di sentire ancora le sue mani scivolare lungo la schiena, scendere lungo le cosce e afferrarmi forte per le caviglie … forte, sempre più forte … di più, di più, ma che succede? Quelle che afferrano le mie caviglie non sono più mani di velluto ma mani violente … mani fredde che mi strattonano e mi trascinano giù dal lettino, strappandomi al mio molle languore come per punirmi … per portarmi via. Ma per portarmi dove? Mi aggrappo con tutta la forza che mi rimane al lettino ma è inutile: le lenzuola svaniscono come fantasmi, il letto si sgretola come canne sotto la violenza del ghibli. Alambicchi, oli, profumi ed essenze vengono risucchiati da un vortice misterioso, insieme a Ramilton che, con il suo sorriso fiero, sembra salutarmi mentre si allontana sempre di più, fino a sparire del tutto dietro a un sipario evanescente. La tenda diventa sempre più piccola, un fazzoletto bianco minuscolo, che perde inesorabilmente forma e consistenza, fino a svanire anch’essa per sempre nel nulla.  La morsa invisibile mi trascina con sé, come fossi un geco sorpreso nella sua tana e strappato via da un predatore alieno verso chissà quale destino. Le mie dita tentano inutilmente di aggrapparsi alla sabbia che invece diventa sempre più cedevole e complice della “cosa” che mi trascina. Improvvisamente,  il mio corpo comincia a diventare pesante … sempre più pesante finché, di colpo, tutto si ferma intorno a me. Le mani fredde che mi tengono prigioniera si allentano e io precipito, su qualcosa di morbido e ostile allo stesso tempo. Immobile, a pancia sotto, apro le palpebre a stento e immediatamente un bianco abbagliante violenta i miei occhi. Con le mani comincio a tastare intorno a me e mi rendo conto di giacere tra lenzuola setose di un letto che non somiglia affatto a quello piccolo e magico  della tenda. Nell’aria non sento più le note dolci e tristi che Ramilton cantava ma solo un trillo martellante che mi scalpella le meningi. Resto attonita: pochi secondi che mi sembrano durare un’eternità, il tempo per orientarmi come farebbe una esploratrice di fronte a una terra ignota.  Non c’è più sabbia intorno a me, né tende, né vento, né mare.
Il trillo insiste … allungo un braccio per fermare quella  sveglia crudele che suona sul comodino da chissà quanto tempo. Cerco di riprendermi, di scrollarmi di dosso il torpore di un piacere ormai svanito, la delusione di un paradiso perduto. Così, d’improvviso, mi rendo conto d’essere tornata nel mondo della realtà, in un deserto senza sabbia e senza gechi, senza tende né essenze, senza nenie o carezze ma, come ogni mattina,  nel deserto del mio letto!  Mentre mi accingo ad alzarmi, vago ancora con lo sguardo intorno e, all’improvviso, provo uno strano fremito: appoggiato sulla poltroncina accanto al letto, vedo il mio pareo azzurro cielo, umido d’olio e di sudore. Con un sorriso assaporo il mio peccaminoso segreto e silenziosamente urlo:  
“No!… Perché? Perché solo dieci minuti …?”