venerdì 28 febbraio 2014

PUERTO RICO, SABOR CRIOLLO


Curiosità, segreti e ricette tradizionali dalla Isla del Encanto



Per conoscere veramente un Paese e cercar di capire la sua gente è necessario parlare il suo linguaggio. Condividere un idioma non è sempre facile, spesso è impossibile, ma c’è un altro strumento di comunicazione molto importante: la cucina.
Assaggiare, annusare, essere curiosi, lasciarsi coinvolgere dai sapori, dalle fragranze, dalle stravaganze della gastronomia di un popolo aiuta non solo ad avvicinare le culture ma ad arricchirle reciprocamente.
La gastronomia di Puerto Rico, isola appartenente alle grandi Antille, rispecchia il carattere criollo, sabroso per definizione, che ha resistito alle contaminazioni americane restando fedele alle radici latine. Una cucina sabrosa, ovvero saporita, come la musica che normalmente condisce l’atmosfera di condivisione del piacere anche a tavola.
L’anima della cucina puertoricana è il fritto, las frituras, accompagnata da salse e condimenti di vario tipo, da quelle agrodolci a base di frutta a quelle piccanti, a base di pique. Friggere a Puerto Rico è un’arte e tutto si può friggere, dalla carne, al platano, al pesce, alle verdure. Il tutto accompagnato da una fresca cerveza, la Medailla è quella nazionale, e per finire da un ron, o roncito, il Don Q, orgoglio di Puerto Rico, nella variante di Coquito per i gusti più raffinati. 
Da notare che la gastronomia criolla sfrutta moltissimo la carne, dal lechon asado (il maiale allo spiedo), al pollo asado, al coniglio fritto, fino all’iguana, che dicono essere davvero gustoso. 
Da buona vegetariana mi limito a proporre alcune ricette senza carne, comunque immancabili su una tavola quotidiana, sia nelle case, sia nei chioschi del pueblo lungo le spiagge, sia nei ristoranti tipici più ricercati delle città.
Un grazie speciale va al mio Cocinero Mandinga, ma le sue ricette resteranno un mio segreto! 



EL ESCABECHE
Questo non è un piatto o una ricetta ma una tecnica fondamentale per marinare i cibi ereditata dagli spagnoli e diffusa in tutto il Caribe. A Puerto Rico si usa sia con le carni, sia con la yuca e il platano, alimenti base qui.

Ingredienti (per ¾ tazze)
1 ½ tazza di olio di oliva
1 cipolla
3 spicchi d’aglio
6 foglie di alloro
grani di pepe nero
½ tazza di aceto bianco
sale q.b.

Procedimento
In un tegame profondo scaldare l’olio di oliva a fuoco lento. Aggiungere la cipolla, l’aglio, l’alloro, i grani di pepe e mescolare bene. Versare l’aceto, salare e cucinare a fuoco lento per 12 minuti, mescolando ogni tanto. Togliere el escabeche dal fuoco e lasciare che raggiunga la temperatura ambiente ed è pronto. La quantità del tempo in cui si lascia macerare il cibo determina l’intensità del sapore.

EL PIQUE
Tradizionalmente il Pique è una salsa piccante fatta in casa a base di aceto, che si usa conservare in una bottiglia simile a quella del ron.

Ingredienti (per una bottiglia da 500 ml)
20 peperoni caballero (rossi)
10 foglie di coriandolo
10 spicchi d’aglio
3 once di ananas maturo
1 cucchiaio di zucchero
2 tazze di aceto bianco
½ tazza di olio vegetale
½ tazza di olio di oliva

Procedimento
Tagliare i peperoni caballero a metà per il lungo affinchè i semi fuoriescano durante la fermentazione e metterli nella bottiglia di vetro che possa poi chiudersi ermeticamente. Aggiungere il coriandolo, l’aglio e l’ananas. Con un imbuto versare nella bottiglia il sale, lo zucchero, l’aceto, gli olii e tappare bene. Agitare e lasciare fermentare in luogo fresco per almeno una settimana.
Una considerazione: l’aglio durante la fermentazione può cambiare colore e tendere all’azzurro, questo non compromette la qualità del pique, è solo un effetto chimico.


MOFONGO
Il Mofongo è una preparazione davvero gustosa che si presta a diverse declinazioni, quella di platano è la mia preferita. Un’altra versione tipica è quella con la yuca (specie  di patata locale).

Ingredienti (per 2-3 persone)
2-3 platani
olio di semi
sale q. b.
2/3 spicchi d’aglio
1 manciata di gamberi sgusciati
2 cucchiai di pomodoro

Procedimento
Tagliare il platano a tronchetti di circa 2-3 cm di lunghezza e metterli a bagno in acqua fredda e sale grosso per un'ora circa. Scaldare l'olio di semi in una tegame non tanto grande ma alto.
Scolare il platano e asciugarlo bene (molto importante), poi buttarlo poco alla volta nell'olio bollente e farlo friggere per 2-3 minuti (non deve diventare troppo scuro).
Togliere il platano dal fuoco e metterlo in un pestello con uno spicchio di aglio e un goccio di olio di semi o di oliva. Per questa operazione si consiglia di pestare 3-4 pezzi di platano per volta con uno spicchio di aglio. Pestare il platano fino a che non diventa una poltiglia. Poi rivestire con il platano alcune formine di alluminio (da budino). All'interno delle formine mettere i gamberi sgusciati, preventivamente cotti con aglio, olio e un po' pomodoro.
Chiudere le formine con uno strato di platano pestato (che funge da coperchio), ribaltare la formina su un piatto: ecco pronto il mofongo.
Uno o due mofongo per persona sono più che sufficienti perché è molto consistente.
Alcune precisazioni: per il Mofongo serve il platano verde, ossia una specie di banano molto grande di color verde scuro e che va sempre consumato cotto. Attenzione mentre spellate il platano perche' macchia mani e vestiti. Infine, il mofongo cosi' come i tostones vanno sempre serviti caldi, al limite tiepidi, perchè una volta raffreddati perdono in sapore e consistenza, diventando pastosi.

TOSTONES
Sono simili alle patatine fritte, quelle tonde, ma molto più consistenti e saporite perché a base di platano. Accompagnano i piatti base di carne ma sono stuzzicanti anche da soli.

Ingredienti (per 4 persone)
2 platani
8 cucchiai d'olio di semi
sale q.b.
1 batticarne

Procedimento
Sbucciare i platani e tagliarli a rondelle di circa 1 cm di spessore. Scaldare l'olio in una grande padella antiaderente. Soffriggere le rondelle da entrambi i lati per 4 minuti circa (finchè si colorano leggermente). Scolare le rondelle e asciugare l'olio in eccesso con della carta da cucina. Con il batticarne schiacciare le rondelle già cotte e passarle di nuovo per 2 o 3 minuti nell'olio caldo. Scolare le chips così ottenute, salarle e servire calde.

BACALAITOS
Sono delle focaccine molto sottili e croccanti a base di baccalà, che a Puerto Rico si usa in infinite declinazioni. Sono una vera squisitezza e accompagnano ogni momento della giornata, per un pranzo, una cena o uno snack.

Ingredienti (per una dozzina)
12 once di filetti di baccalà ammollato in acqua dal giorno precedente
½ tazza di farina
1 cucchiaio di lievito in polvere
1 cucchiaino di ‘adobo’ (preparato con glutammato monosodico)
2 cucchiaini di coriandolo tritato
olio vegetale

Preparazione
Pulire bene il baccalà. Versare in un recipiente la farina, il lievito, l’adobo e il coriandolo e aggiungere 3 tazze d’acqua. Mescolare bene finché si forma un composto uniforme, senza grumi. In un tegame grande e già caldo versare l’olio e cominciare a friggere il composto in modo da formare delle focacce larghe e piatte. Friggerle per almeno 10 minuti e voltarle qua e là finchè dorano. Togliere i bacalaitos dall’olio e lasciarli asciugare in carta assorbente.
I bacalaitos sono l’apogeo della frituras puertoricana, il massimo dell’espressione criolla a tavola. Provare per credere!


COQUITO
E’ una specie di Bailey a base di ron, una deliziosa crema leggermente alcolica, raffinata e sensuale.

Ingredienti
1litro rum (possibilmente Don Q oro o anejo) 
1 tubetto di latte condensato 
2 barattoli di crema di cocco
6 uova (solo rossi)
1 dl latte
1 pizzico di cannella
facoltativo chiodi di garofano

Preparazione
E’ semplicissimo. Versare tutto nel frullatore fino a quando sarà ben amalgamato. Imbottigliare e lasciare in frigo per qualche ora, è ottimo anche nei giorni successivi e resiste a lungo, se non lo si finisce tutto d’un fiato. Come si dice a Puerto Rico … hiendete!


Un consiglio: se decidete di visitare San Juan, capitale di Puerto Rico, il miglior ristorante della città è al primo piano dell’Hotel Condado, in pieno centro. Si chiama Pikayo ed è reso celebre dal talento dello Chef Por Wilo Benet che sposa sapientemente la fantasia criolla alla raffinatezza estetica.

giovedì 27 febbraio 2014

EL PARAISO EN TIERRA


Culebra, l’sola che non c’è … forse!



Sono ormai pochi gli angoli di mondo sopravissuti alla barbarie della colonizzazione turistica. Soprattutto frugando tra le Isole delle Antille, contaminate dall’artificialità della mondanità e del lusso, è difficile ritrovare la bellezza semplice della verginità. Eppure è ancora possibile.
Svelare il nome dell’Isola che mi ha innamorato per la sua disarmante esuberanza, nuda di artifici e ancora sufficientemente refrattaria alla conquista, mi turba un po’. Ne sono gelosa, provo un senso di pudore e vorrei proteggere anziché esibire agli appetiti dei turisti d’assalto questa piccola perla del Caribe. Tuttavia mi è irresistibile il desiderio di raccontarla con velata discrezione, come fosse un languido sogno da interpretare, o un’invenzione inafferrabile della mia fantasia.
Il nome di quest’isola grande appena sette miglia (isola che forse non c’è) è Culebra, una porzione di terra silente e selvaggia lambita dalle acque turbolente del Caribe, in fronte a S.Thomas e Virgin Gorda. La si può raggiungere da Puerto Rico in due modi: con il traghetto da Fajardo in un’ora scarsa di navigazione, oppure in aereo in una ventina di minuti, su charter Highlander che offrono una panoramica privilegiata Cayo Luis Peña, su Vieques (altro gioiello naturale fino a poco tempo fa occupata dall’esercito americano per le esercitazioni militari) e sui cayos corallini disseminati nel blu. Vista così, dal cielo, Culebra pare davvero un miraggio, un’emersione terrestre dal profondo cristallino, e dalle poche case presenti si può intuire quanto l’isola sia ancora intatta e fedele alla natura.
Con Puerto Rico condivide le radici indigene e la recente colonizzazione americana, il suo nome racconta infatti il suo passato poiché deriva da San Ildefonso de la Culebra, che era il titolo nobiliare del Ministro di Ultramar, pueblo dell’isola, tra il 1876 e il 1886. Oggi quest’isola conta circa due mila abitanti stabili ed è meta di villeggiatura per gli Americani desiderosi di fuggire per un po’ dal frastuono della civiltà. Molti hanno case proprie qui, anche perché l’ospitalità di hotel, B&B e posadas è fortunatamente limitata rispetto ad altre isole delle Antille, pur non mancando. Il modo migliore per vivere l’isola è affittare una casa e le possibilità sono molte, godendo così dell’indipendenza e della libertà di spazi e tempi del dolce far niente. La bellezza di Culebra sta anche in questo: nel suo desiderio di restare fedele a se stessa senza ostentare lusso e mondanità, con le sue case in legno dipinte in colori pastello, i piccoli negozi di souvenir, i mini market in “città” necessari alle esigenze quotidiane, i pochi bar dove godersi un roncito la sera … e poi le strade tortuose oggi asfaltate ma puntualmente correlate dalle carretere sterrate che s’inerpicano fin sulle colline e poi giù verso le spiagge.
Le spiagge … ecco il sortilegio che scatena l’innamoramento definitivo per Culebra! Sopraggiungere dalla carretera soffocata da mangrovie e fare i primi passi sulla sabbia bianca di Playa Flamenco è un’emozione che leva il respiro. Questa è la spiaggia più famosa di Culebra per la sua morbida bellezza, caratterizzata da un vecchio carro armato americano che, come una balena piaggiata, sembra paradossalmente fuori luogo qui ma nello stesso tempo appartiene al paesaggio, sorprendendo il turchese del mare e il candore della sabbia col suo groviglio di memorie arrugginite. Ma la cosa più straordinaria di questa lunga spiaggia è la dispersione di gente, perché anche nei giorni di festa e di massima frequenza la concentrazione di persone è sempre minima, tanto da lasciare a ognuno la propria intima solitudine. Qua e là, ogni tanto, il vento porta con sé i ritmi di un reggaethon o di un merengue, sgusciati fuori da qualche radio dei puertoricani che qui vengono a crogiolarsi al sole senza rinunciare ai ritmi criolli. Ma per lo più è la voce del mare a vincere, talvolta increspato ma spesso amabile e invitante col suo quieto tepore.
Altre spiagge imperdibili di Culebra sono quelle di Carlos Rosario, raggiungibile a piedi da Playa Flamenco, e quella di Tamarindo, poco prima. C’è poi la Playa del ultimo dìa (questo è il suo soprannome), una piccola lingua di sabbia dalla parte opposta dell’isola, dove si racconta che un importante avventuriero (di cui non si dà il nome) venisse puntualmente a fare l’ultimo bagno prima di ripartire per l’Europa, rito sacrale in virtù del prossimo ritorno. Da qui i tramonti sono struggenti e non è raro riuscire a sentire, nella solitudine dei propri pensieri, il suono acuto del cocquì. Sembrerebbe il canto insistente di un uccello tropicale, in realtà si tratta del verso di un sapito – un ranocchio piccolissimo – talmente diffuso ma al contempo invisibile per le sue minime dimensioni da essere diventato il simbolo di Culebra. Oltre al cocquì, pochi altri animali abitano l’isola: iguane, serpenti, galli e galline ovunque, cervi che nuotano persino da un cayo all’altro in cerca di cibo, e poi pellicani, fregate, boogies e colibrì. Il resto della fauna locale appartiene alle profonde acque dell’Atlantico e alla barriera corallina.
Se Culebra con le sue spiagge scioglie il cuore, Culebrita sconvolge l’anima, come fosse davvero il paradiso in terra. E’ un’isoletta raggiungibile in pochi minuti di barca veloce ed è nota per il suo faro in pietra e mattoni, costruito sulla sommità della collina nel 1874, per monitorare le navigazioni da e verso S. Thomas e le Isole Vergini. Scendendo dal faro si attraversa una fitta foresta di mangrovie, punteggiata qua e là da enormi cactus che infondono al paesaggio un’atmosfera vagamente dantesca. Ma una volta espugnata la foresta, ecco che dalle mangrovie si sbuca su una delle spiagge più belle che io abbia mai visto in vita mia. La chiamano Playa Kennedy per essere stata meta privilegiata del Presidente, eppure sembra essere quanto mai lontana da ogni definizione e più vicina al romanzo di Defoe, Robinson Crusoe, per la sua selvaggia natura. Giunta qui, ho avuto la sensazione di essere l’ultimo, o il primo, essere umano sulla terra, e tutt’a un tratto mi è tornato alla mente un altro romanzo della mia vita: Dissipatio Humani Generis, di Morselli. Sì, il dramma di scoprire d’essere sola al mondo capovolto in estasi! L’esaltazione di sentirmi ricca senza niente nella pienezza del silenzio, il desiderio di fermare il tempo in quest’eternità di solitudine, la preghiera che nessuno osi interferire in questo dialogo estatico tra me e l’universo. Annullarmi nell’acqua tiepida, abbandonarmi alla brezza sotto lo sguardo di soffici nuvole che corrono veloci per non farsi catturare dal mio sguardo che gioca a dar loro nomi e forme … dimenticare chi sono e ritrovare me stessa. Qui, nella semplicità del nulla.
Sopraffatta da quest’emozione che si ripercuote in me anche ora, raccontandola, ho capito d’aver lasciato a Culebrita un pezzetto del mio cuore. O forse, in verità, è Culebrita ad essere entrata tutta nel mio cuore. E così, languidamente, conserverò per sempre il suo dolce ricordo come fosse un dono divino, un dono d’amore, fino al mio prossimo ritorno in questo insperato paradiso.  

mercoledì 26 febbraio 2014

LOS INCANTOS DE LA ISLA DEL ENCANTO


Puerto Rico: amore a prima vista

La brezza lieve portata dagli alisei dell’Atlantico, il piacevole tocco del sole del Caribe e la voce delle onde che si struggono sulle spiagge ... e si è definitivamente perduti, perché questo è amore a prima vista.
Questa è l’accoglienza irresistibile che offre San Juan, capitale di Puerto Rico, a chi sceglie di avventurarsi alla sua scoperta. Città inebriante, musicale, colorata, dalla promiscuità culturale contrastata che nel corso dei secoli le ha donato la seduzione di una terra conquistata che oggi sembra rivalersi sui moderni conquistadores – i turisti – conquistandoli a sua volta con il suo indiscreto fascino.



Dai Tainos ai Conquistadores alla libertà
Insieme a Cuba, Repubblica Dominicana e Haiti e Giamaica, Puerto Rico è la quarta isola delle Grandi Antille. Come amano dire i puertoricani, Puerto Rico y Cuba son dos alas del mismo pajaro, ovvero Cuba e Puerto Rico sono due ali dello stesso passero. Ed è proprio questa la sensazione che si ha venendo qui: quella di una segreta complicità culturale e razziale tra le due Isole che, nonostante i differenti sincretismi maturati nel tempo, sembrano tenersi per mano a dispetto delle colonizzazioni di Americani ed Europei, per non tradire l’orgoglio delle radici indigene.
In origine, Puerto Rico fu abitata da diverse tribù di indiani americani tra cui i tainos che vissero anche nel periodo successivo all’arrivo di Cristoforo Colombo, nel 1493. Questo pacifico popolo aveva sviluppato una cultura, un linguaggio e un sistema religioso piuttosto sofisticati. Essi, per esempio, davano accesso al potere anche alle donne che secondo la loro cultura potevano permettersi anche più di un marito, il quale alla morte della moglie veniva bruciato insieme a lei. I tainos ottenevano oracoli dai loro dei e dai morti attraverso pratiche di alterazione mentale, come l'inalazione di una polvere allucinogena ricavata dai semi di cohoba e da conchiglie frantumate. Probabilmente queste pratiche distrassero i tainos dalle prassi difensive, infatti, non seppero difendersi dall’attacco dei coloni spagnoli nel 1508.
I coloni, si sa, schiavizzarono ed evangelizzarono i tainos, esponendoli alle malattie provenienti dall'Europa e nel giro di poco tempo questo popolo si estinse insieme alle sue leggende e alla sua cultura.
I coloni spagnoli invece si stabilirono a San Juan, che divenne così uno degli avamposti più strategici di tutto il Nuovo Mondo, tanto che nel secolo successivo la città subì un esplosivo processo di fortificazione per essere difesa dalle incursioni marittime di inglesi, francesi e olandesi. Gli spagnoli furono molto abili nell’imporre ferree regole al fine di controllare il commercio regionale, da qui l’importazione degli schiavi africani costretti a lavorare nelle piantagioni di zucchero, di cotone e tabacco. Quando la rivoluzione incominciò a mettere sottosopra il Nuovo Mondo, gli spagnoli abbandonarono la politica commerciale totalitaria nel tentativo di tenere Puerto Rico e Cuba sotto la propria influenza coloniale. Iniziarono così i contrasti tra gli spagnoli, i nazionalisti puertoricani e il governo coloniale circa i pro e i contro l'indipendenza, finché nel 1897 gli Stati Uniti occuparono il paese governando Puerto Rico come un protettorato coloniale per cinquanta anni. Nel 1917 i puertoricani ottennero la cittadinanza statunitense e nel referendum del 1951 l’Isola divenne uno Stato libero associato agli Stati Uniti e non più una colonia.
Questi trascorsi storici trapelano ancora oggi nelle stradine, nelle piazze di San Juan, ma anche nel linguaggio, nelle canzoni e negli sguardi stessi dei puertoricani, giustamente fieri delle proprie origini. Da qui l’incantesimo che l’Isola dell’Incanto procura a chi fortunosamente le si avvicina.


I tre volti di San Juan
Al primo impatto la città respira e trasmette una sensazione di internazionalità, di multi etnicità che ricorda vagamente l’atmosfera di Barcellona, elevata all’ennesima potenza tropicale. Questo è il volto più esteriore e superficiale di San Juan ma non per questo poco seducente. L’analogia con la bella città di Gaudì si svela attraverso il profilo architettonico del Condado e Isla Verde – il quartiere moderno in cui si concentrano i grandi hotel, i ristoranti chic e i negozi più fashion – profilo che svetta leggero dal mare al cielo, come sospinto dagli alisei. Si ha una sensazione di libertà qui, di grandi spazi che non trasmettono il peso del cemento sulla naturalezza delle spiagge.
Uscendo dalla mondanità del Condado, non molto lontano, si raggiunge anche piedi la Vieja San Juan, dove si può ammirare il suo secondo volto, quello storico. E’ l’estrema parte occidentale della città denominata Isleta de San Juan, circondata e protetta dalle antiche mura fortificate. Il contrasto tra l’azzurro del mare, il verde della vegetazione e il bronzeo marrone delle fortezze dona allo sguardo un sussulto di meraviglia in cui si mescolano tempi lontani e vicissitudini tuttora palpitanti. 


Esplorare il Castillo San Cristobal (VII sec.) e il Castillo San Felipe del Morro (1539) dà la sensazione di un tuffo in un passato fiero ancora vivo. Il primo è tuttora la più grande fortificazione europea in America Latina e il secondo è stato la prima baia dove le navi provenienti dall’Europa potessero attraccare, per questo appetibile e attaccabile. Con i suoi massicci cannoni disposti su sei livelli, il Morro resta un’opera maestra di ingegneria militare che sorveglia dall’alto tutta la città. Da qui lo sguardo scorre lungo il cimitero, pittoresco cuore di statue in pietra affacciate sul mare che sembrano conversare con i suoi sospiri salati.  Poco più in là il vasto barrio de La Perla, dove non è consigliabile avventurarsi, e oltre le piazze raggiungibili a piedi o su pittoreschi bus colorati: Plaza de Armas, Plaza Colòn, Plaza San Josè e la deliziosa Plazita Santurce collegate tra loro da stradine in pavè costellate di edifici coloniali dai colori sgargianti. Lilla, azzurro, viola, rosa, tutte le case riecheggiano i colori dei fiori, comunicando la straordinaria vitalità, la vibrante musicalità della città e del suo popolo.


E questo arcobaleno porta al terzo volto di San Juan, quello del pueblo. Pueblo che si riversa e si rispecchia sia lungo le spiagge pubbliche che si srotolano lontano dal centro storico e mondano, sia inerpicandosi sulle montagne attraverso una vegetazione selvaggia e lussureggiante. Raggiungere in auto le lunghe lingue di sabbia costeggiate da un lato dal mare e dall’altro dai chioschi che offrono i piatti gustosi dell’isola è un’avventura emozionale indimenticabile. Qui si respira il puro caribe, l’anima salsera, fatta di ritmi di bomba y plena, di volteggi sensuali, di piaceri carnali trasmessi non solo dalla musica coinvolgente ma anche dai profumi penetranti che, sospinti dal vento, invitano a fermarsi per un ardito assaggio. 

La frituras è l’anima della cucina puertoricana: friggere è un’arte e tutto qui si frigge. I chioschi delle spiagge di Luquillo e Loiza sono il destino (destino in spagnolo significa destinazione ma qui lo intendo in italiano) perfetto per averne conferma: alcapurrias, bacalaitos, pastellitos, sorullos, bolitas, mofongo y tostones sono solo alcune tra le specialità, preparate e servite nella semplicità più disarmante, tipica del Caribe. E la musica è il condimento del fritto, insieme alla birra del luogo – la Medailla – e al ron – il mitico Don Q – declinato in Cocquito per i gusti più maliziosi. Senza dimenticare l’immancabile lechon, il maiale allo spiedo, e tutte le altre carni dal coniglio all’iguana!


Il volto del pueblo si completa salendo sulle montagne, immergendosi in una vegetazione che rivendica la sua evidente superiorità sulla civiltà urbana. Il massimo dell’esuberanza è offerta da el Junke, la foresta nazionale di oltre 28000 acri, ma dappertutto per chilometri  l’abbraccio del verde è spontaneamente inestricabile: pini, palme, bambù, flamboyant, banani, frangipane, bunganville e tulipani d’Africa si ergono e si intrecciano, benedetti dal sole e dalla pioggia. E guardando questa miracolosa esplosione della Natura, non si può fare a meno di sentirsi perdutamente innamorati degli incanti della Isla del Encanto.


Scendendo nuovamente dalle montagne e proseguendo per Fajardo si torna al mare e si raggiunge il porto da cui partono le barche da pesca, i charter turistici e i traghetti per Culebra. 
Ma questa è un’altra storia che merita un capitolo a parte, perché Culebra è il Paraiso en Tierra. E' puro Amore ...

Un grazie speciale a Susan, Pedro e Angelo, per aver reso questo mio viaggio inolvidable!

Struggimento


Dolce è lo struggimento del sentire la mancanza di Qualcuno.
Ma amara assai è l'impossibilità di dirglielo ...  
Semplicemente 
Mi manchi.

martedì 11 febbraio 2014

Me voy!




Una pequena porciòn de maravillosa tierra perdida entre las turbulentas aguas del Caribe me està esperando. 
Esta isla se llama Culebra! 
Por dos semanas voy a olvidarme del trabajo, de la politica, de la economia, de todos los problemas de nuestro pobre pays, y voy a buscar mi misma en el silencio del viento y en las caricias del mar … Me voy a olvidar de mi idioma también y no quiero escribir nada de nada, solo vivir cada dia como si fuera el ultimo, en el abrazo del Caribe.
Hasta luego a todos, la Natura me llama!

venerdì 7 febbraio 2014

Le ali che m'invento



Ci sono giornate in cui le preoccupazioni sembrano fare a gara per arrivare prime al traguardo, quello della sopportazione.
Eppure, anche così, con la fronte corrugata da solchi già scolpiti e la mente ingombra di crucci esasperati, ecco che sempre, all’ultimo scatto della corsa verso l’angoscia, spunta qualcosa d’inatteso a vincere su tutto.
Un sogno!
Sarà incoscienza, sarà ingenuità, sarà quel sottofondo fanciullesco sopravvissuto intatto nonostante gli anni, sarà l’esser poco legata a radici che non sento e rapita da ali che m’invento, non lo so… ma so che puntuale, come risucchiata dentro un quadro di Chagall, trovo sempre un magico appiglio a un sogno colorato, gioioso, che mi trasmette energia, eccitazione, passione e tanta voglia di volare per raggiungerlo, nonostante le intemperie reali e umorali.
Se poi non lo raggiungerò pazienza, sognare è un esorcismo che porta alla rinascita! Un sogno è un’opera d’arte e basta a se stesso, tutt’al più sarà un’opera d’arte incompiuta, resa ancor più seducente dalle sue infinite evoluzioni e possibili soluzioni. Sarà tuttavia sempre sufficiente per andare oltre l’inutile autocompatimento, le lagnanze per la propria impotenza e le recriminazioni per le ingiustizie esterne.
Tanto prima o poi le preoccupazioni, grandi e piccole, saranno sempre lì, a turno, a bussare alla mente per irrompere nella quiete interiore coltivata con amore. Quindi, tanto vale lasciarsi andare, chiudere gli occhi, spalancare le ali e sognare.
Venite, venite pure grigie preoccupazioni … io ho il mio sogno colorato che mi difende ed è più forte di voi tutte messe insieme. Perché lui viene dal volere del mio Cuore!

mercoledì 5 febbraio 2014

Amico o non Amico ...



A dieci anni dalla nascita di Facebook, una riflessione tra tutte vince in me.
Al di là della rivoluzione che il concetto di Amicizia ha subito – un’amara involuzione, in verità – s’è radicata a mio parere un’esasperata incapacità di stare soli con se stessi. Forse i due fatti son connessi, anzi mi pare evidente sia così: l’illusoria sensazione di essere in contatto con persone idealmente vicine - per idee, gusti, sentimenti, emozioni, obiettivi - ha generato un diffuso bisogno di condividere tutto subito – idee, gusti, sentimenti, emozioni, obiettivi – per bearsi dell’urgente compiacimento, e autocompiacimento, che questa distorta maniera di stare insieme infonde.
Il problema è che spesso le immagini di sé trasmesse da quest’infinito parco giochi virtuale sono assolutamente dissonanti con la realtà e con le nostre attese, e si finisce per identificarsi nell’autoreferenzialità altrui, anziché stabilire un dialogo critico di reciproco ascolto in cui si impara realmente a conoscersi piano piano. La faccenda meriterebbe una profonda analisi psicologica, che per adesso rimando.
Ora m’interessa seguire un altro pensiero: anche quando s’accende in noi la consapevolezza che tutta questa giostra di amichevoli ‘mi piace’ è solo un’illusione, non si ha voglia di rinunciarci. Non si rinuncia perché è consolatoria, perché alleggerisce anche se illude ma pazienza, intanto si sorride trascinati spesso sempre più lontano da ciò che ci circonda nelle immediate vicinanze e che a volte proprio ‘non piace’. Ecco perché penso sia la paura di stare soli con se stessi a impedire il generale risveglio da quest’ipnotico risucchio virtuale.
Da parte mia, continuo a partecipare con il dovuto disincanto a questo gioco di prestigio, senza urgenza e con molta ironia, e questo me lo rende piacevole. Ma soprattutto continuo a chiamare ‘amica’ e ‘amico’ solo quelle poche persone che conto sulle dita di una mano. E per quanto riguarda lo spauracchio del silenzio, dell’isolamento, del pazientare, del non-comunicare e non-condividere, e dunque del rischio di restare sola con me stessa … bhe, questo per me è sempre e solo un grande piacere, mai un timore, un piacere che ho imparato ad esercitare fin da piccola e che tuttora mi salva. 
Ma probabilmente, a parte me, solo quelle due o tre persone mie amiche, quelle che conto sulle dita di una mano, sanno davvero di cosa sto parlando...e forse senza di loro sì che mi sentirei davvero sola!
p.s. sempre che anch'esse non si siano già perse nell'attrazione fatalmortale di Facebook :)

lunedì 3 febbraio 2014

Bau!



Ogni volta che guardo il mio Rocky negli occhi, mi domando – e gli domando – chi c’è dentro di te? Chi sei, a cosa pensi, perché non parli…
Eppure lui, il mio amato e innamorato molosso, col suo sguardo silente parla, parla eccome, perché lui pensa, sente e comunica, proprio come noi esseri umani. E noi sempre ci capiamo!
E ogni volta che mi perdo nei suoi amorevoli occhi scuri, è impossibile non vedere quella parte di me che c’è in lui. Allora,  da buona darwiniana, penso che se si smettesse di voler antropomorfizzare gli animali in impossibili proiezioni di sé e si accettasse, piuttosto, l’animalità che c’è in noi, riusciremmo a gestire meglio pulsioni, istinti e paure che con i nostri simili a quattro zampe per natura condividiamo, relazionandoci meglio con noi stessi e con gli altri. Animali compresi.
Ogni volta che guardo il mio Rocky negli occhi, anche lui sicuramente si domanderà – e mi domanderà – chi c’è dentro di te? Chi sei, a cosa pensi … e perché parli? Non serve ... tanto noi ci capiamo!”