martedì 22 marzo 2016

L'anima del piacere


Dire che uomini e donne sono diversi è un’ovvietà. E in questo caso non alludo solo a certe manifeste fattezze fisiche ma, innanzitutto, al cervello che fermenta pensieri, sensazioni, emozioni per natura differenti. Altrettanto evidente è che i due sessi sono destinati a completarsi, inevitabilmente spinti dal desiderio di ripristinare un’originaria idillica unità.
Prima della scienza, è stata la filosofia a cercare di spiegare quest’ineluttabile motore che spinge uomini e donne a ricongiungersi attraverso l’amore e la ricerca di un piacere fisico non circoscritto alla pura procreazione. Per esempio, nel “Simposio”, Platone abbozza con pensosa arguzia uno stuzzicante dialogo sull’origine della sessualità, cercando di spiegare l’anima del piacere attraverso una metafora ben nota. Lo fa tramite il commediografo Aristofane il quale, durante un banchetto, racconta il mito secondo cui in origine, oltre all’uomo e alla donna, esisteva anche una terza creatura: l’ermafrodita. Con eccitato coinvolgimento di tutti i presenti, Aristofane spiega che:
“La figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi formavano un cerchio; aveva quattro mani e quattro pure erano le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo anch’esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio.”
Tuttavia, la potenza di queste ambigue creature deve aver alquanto allarmato gli dei, al punto che Zeus decise di dividerle in due parti, ricucendo la pelle strappata nel punto di mezzo con un nodo. Nodo che sarebbe diventato l’ombelico. Da quel momento in poi, la vita degli esseri umani sarebbe stata dettata dalla costante brama di ricongiungersi con la metà perduta. E il sesso sarebbe diventato il collante necessario per ricucire i frammenti smembrati dalla volontà (o dall’invidia) divina, trasformando così la ricongiunzione squisitamente biologica in un ineguagliabile piacere fisico.
Questo, come la maggior parte dei miti, sopperisce con la fantasia della metafora all’incompiutezza scientifica, azzardando anche un’arguta analisi psicologica. Il desiderio di fare sesso verrebbe così interpretato come una specie di nostalgia, un atavico impulso a tornare all’originale paradiso perduto, fatto di vigore ma soprattutto di equilibrio e completezza. In poche parole, meno liriche di quelle di Aristofane, fare sesso con chi si ama nascerebbe dal desiderio di far l’amore con se stessi per ritrovarsi finalmente completi.
Naturalmente non è possibile ridurre l’anima del piacere sessuale a un nocciolo atavico così lineare, perché i preamboli erotici che anticipano e seguono l’estasi sono infiniti e imprevedibili. Se fosse così semplice, l’eccitazione scoccherebbe dalla somiglianza e non dalla differenza, e l’attrazione sarebbe indotta da quel pallido riflesso di noi stessi riprodotto e ricercato nella persona amata. Non è sempre e solo così, appunto. E quell’inesprimibile richiamo tra le braccia dell’amante, quello scioglimento dei lombi, quel dolce inturgidimento, quel desiderio di fusione, di sperdimento e di ritrovamento che conduce all’estasi resterà, probabilmente, un eterno argomento di disquisizione per filosofi, scienziati, poeti e forse per gli stessi amanti.
Non è, infatti, questo uno dei misteri più belli che unisce la missione di procreare a quella di sperimentare il piacere più intenso mai conosciuto? Un piacere talmente intenso e fulminante da essere paragonato al culmine estremo della vita, ovvero la morte.
L’orgasmo, in letteratura, è stato infatti spesso accostato al decesso, tanto che i francesi, con la loro aristocratica raffinatezza, l’hanno battezzato petit mort. Non somiglia, infatti, all’unione di due semicerchi carnali destinati a liquefarsi quella tra due corpi? Due amanti, unendo le proprie membra e il proprio afflato, diventano complici della loro stessa morte, perché se fossero immortali non avrebbero bisogno di fondersi donandosi un reciproco piacere per creare una nuova vita.
Da qui, l’impercettibile confine – o ponte d’unione – tra estasi sessuale ed estasi mistica, o religiosa. Entrambi gli estatici deliqui, infatti, implicano un donarsi totale all’altro – che sia Uomo o Dio – in un dissolvimento senza possibilità di ritorno, in cui migliaia di particelle di piacere trasformano momentaneamente il corpo in anima e viceversa. Quello dell’orgasmo diventa, forse, l’attimo terreno più vicino al paradiso, in cui la coscienza è paralizzata e l’identità confusa, in cui il dolore si fa dolce e la durezza si scioglie in spasmi primordiali. E’ l’attimo in cui l’essere umano diventa al tempo stesso angelo e animale, non una ma due volte contemporaneamente, perché fuso nell’abbraccio complice dell’amante.
Se la pittoresca metafora di Platone ha dato un sapore squisitamente terreno alla natura del piacere sessuale come ricongiunzione con se stessi, nessuno come Santa Teresa d’Avila ne ha offerto un’interpretazione tanto sublime e sensuale, come comunione con Dio. La mistica spagnola del Cinquecento, infatti, con disarmante semplicità, ha descritto spesso questa sensazione di estremo sdilinquimento che fluttua tra anima e corpo, quest’estasi irrinunciabile che fa vibrare le corde più intime, fino a ricongiungere il cielo con gli inferi, grazie ai sensi terreni:
“Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore che non c’era da desiderarne la fine. E’ un idillio così soave che io supplico la divina bontà di farlo provare a chiunque pensasse che io mento …”
Insomma, dal sacro al profano, le interpretazioni circa la natura del piacere sessuale si sono affastellate nei secoli, facendo spesso accapigliare filosofi e scienziati, psicologi e religiosi. Sarebbe bello poter credere a quest’impulso di ricongiunzione cosmica di due metà separate ma, in realtà, l’argomento resta un intricato mistero più facile da vivere che spiegare. Ad un’interpretazione univoca, probabilmente, non si giungerà tanto facilmente ma, nel frattempo, il piacere sessuale (quando non è fine a se stesso) continua ad essere ciò che di più umano eleva l’anima di chi sa vivere con amore e passione, consolandola delle inevitabili afflizioni dell’esistenza.
Non ultima, l’afflizione di non essere, ahimè, né dei, né santi, né immortali ma semplicemente esseri umani.