mercoledì 30 dicembre 2015

Il prezzo dell'amore


Non ci si abitua mai al dolore.
Ogni volta ti sorprende come fosse la prima.
E sì che l’avevi già conosciuto, l’avevi colto altre volte nello sguardo di chi cercava, con composto timore, di nascondersi al tuo per non versare inutilmente la sua tristezza nel tuo cuore.
Ogni volta torna più nero, così, all’improvviso quando tutto sembra azzurro, come il cinico jolly di un gioco beffardo le cui regole son note solo al suo diabolico autore. E ti lascia lì, vuoto e inerme, davanti ai tuoi fantasmi messi in fila come tante candele spente ancora fumanti, a pensare ai dolori passati, cui hai assistito brandendo un fragile scudo di speranza che non sai bene se fosse paura, rabbia o banale impotenza.
In ogni caso, il nodo in gola che ti impedisce di inghiottire quel freddo male che non sarai mai pronto ad affrontare, ti scaraventa addosso in un secondo tutta la tua vita. La tua e quella delle persone perse che ti hanno amato e che vorresti riabbracciare un attimo, una volta ancora, l’ultima come fosse la prima.
Ma allora, pensa. Fermati, apri gli occhi e affonda lo sguardo dentro lo sguardo di chi forse non vuole nascondersi al tuo, perché dopo tutto la sua tristezza non è un peso nel tuo cuore ma è solo il prezzo dell’amore. Forse è proprio questo l’immenso abbraccio che vorresti dare per stringere in un solo afflato tutti gli affetti che sopravvivono in te. Quel patto tra sguardi è la condivisione di un momento triste che passerà superando se stesso e che germinerà altre emozioni, nuove, improvvise, culla a loro volta di altre emozioni altrettanto vive. Sconosciute persino al diabolico autore del gioco beffardo che guida verso l’ombra del misero capolinea. Armato dei suoi macabri jolly, forse, ma incapace di sconfiggere l’amore per gli altri, l’amore per la vita. Perché quello non è un gioco dettato dai dadi ma l’unico mezzo per arrivare vincenti al traguardo.
E allora, sguardo nello sguardo, uniti in un abbraccio, diventa chiara una cosa.
Non ci si abitua mai al dolore, è vero, perché l’amore ha un prezzo. Ma non ci si abitua mai neanche alla gioia, perchè l'amore premia. E quel nodo in gola che ti paralizza di fronte a un male che non sarai mai pronto ad affrontare soccomberà ogni volta di fronte al tuffo al cuore che puntualmente, capricciosamente e inesorabilmente ti riporterà sempre ad alzarti, a guardare avanti e a mordere la vita. 
Insieme.

giovedì 3 dicembre 2015

Gioco di specchi


Mi domando se siano i paesaggi a colorare le nostre emozioni o viceversa.
Se un cielo gravido di grigio possa essere artefice di un inspiegabile malessere interiore, oppure se sia un’inconsapevole negatività emotiva a rendere quel medesimo cielo minaccioso ai nostri occhi.
E che dire di un languido lago rassegnato all’abbraccio dell’inverno? Ai più, un paesaggio lacustre che galleggia nella stagione più arida di colori suggerisce indolenza, tristezza, melanconia. Persino depressione. A pochi altri, invece, il lago d’inverno rassicura e accompagna con la sua muta quiete una palpabile serenità interiore.
Allora penso che forse questo dialogo silente tra i nostri stati d’animo e gli scenari in cui ci immergiamo altro non sia che un gioco di specchi. Noi vediamo fuori ciò che siamo dentro.
L’importante è non abituare lo sguardo, non lasciarlo addormentare davanti alle sfumature dei paesaggi apparentemente immobili, perché anche quelle più impercettibili sono messaggere di vitali vibrazioni.
E’ lo sguardo capace di stupirsi, di emozionarsi e di innamorarsi ogni volta, anche davanti allo stesso panorama, quello che sa cogliere la poesia della Natura, sempre e comunque. Che sia un cielo gravido di grigio, o un lago sprofondato nell’inverno.

E lo stupore, si sa, è quel colore che rende tutto migliore. 
Dentro e fuori.

mercoledì 2 dicembre 2015

Il vagito dell'Universo


Facile è amare la Natura quando si risveglia. Quando la primavera sboccia d’inebrianti colori e l’estate schiude i suoi sensuali odori.
Ma si può altrettanto amare la Natura quando si assopisce. Quando si ritira nel suo letargico sonno, piano piano, in punta di piedi, sottovoce. Quasi chiedendo scusa alle creature viventi per sottrar loro colori e profumi, ecco che mesta si avvia verso il suo obbligato regredire, al ritmo ossequioso di una luce sempre più pallida, sempre più fredda. Fino a liquefarsi in una fragile penombra ai confini col mondo soffice dei sogni.
Così le piante finiscono per somigliare a immobili scheletri abbozzati in uno sfumato leonardesco, il cielo sembra piovere dentro il lago e le colline attorno paiono scivolare anch’esse dentro quell’enorme pozza grigioazzurra che è l’inverno.
Il silenzio si fa forte. Tutto tace. Eppure da qui, tra cedri e cipressi che come spavaldi scudieri sorvegliano il mio scrivere, sembra quasi di avvertire un leggero suono, un rumore di sottofondo, denso, costante, emanato da una sorgente invisibile, vicina o lontana non saprei dire. Sembra un filo teso tra la Natura e me. Che sia il primo vagito dell’Universo? L’eco sordo del Big Bang? Quella inquietante radiazione cosmica di fondo sfuggita di bocca alla Terra nell’istante del suo nascere, tanto impalpabile quanto presente, testimone di immensa forza e precaria certezza?
Ecco che allora, cullata da questo ancestrale lamento mai spento, sento che la Natura non muore mai per davvero. E che quel suo puntuale, lento e progressivo sopirsi fino quasi a scomparire non è che un’altra splendente manifestazione della sua eterna bellezza.
Un altro volto. Un altro vestito. Un altro trucco con cui lei si mostra, si spiega, si lascia guardare e si lascia amare.

Da chi la sa vedere.