sabato 17 settembre 2016

COME SOPRAVVIVERE ALL’ANDROPAUSA



“… La monotonia conduce inevitabilmente all’infedeltà …
il campo di battaglia tra i sessi è il talamo. Non è vero che noi maschietti subiamo un calo del desiderio rispetto ai diciott’anni. Ne è la prova il fatto che le diciottenni ci piacciono oggi forse più che allora. Il problema è che spesso troviamo repellenti le nostre coetanee. Intendiamoci, non è che noi si sia invecchiati stile Harrison Ford: siamo un tripudio di pance e di calvizie, però chi non è più indulgente verso sé stesso che verso il prossimo? Senza contare che il numero di donne che acquisisce fascino con l’età è ridotto: se Sean Connery è migliorato, lo stesso non si può dire per Ursula Andress…”
È solo un assaggio di uno spassoso saggio scritto con pungente sarcasmo da Paul de Sury il quale, guardandosi allo specchio si scopre improvvisamente giunto oltre quella soglia di età che pone sul baratro dell’esistenza donne e uomini. La mezza età giunge quasi inattesa senza possibilità di fuga e con essa si acuisce il senso del tempo: da bambini le ore non passano mai, da grandi diventano granelli di sabbia al vento. Per motivi diversi, e con manifestazioni diverse, entrambi i sessi soffrono dolorosamente l’avanzare degli anni e per quanto ognuno di noi possa reagire all’inevitabile con formule più o meno ostentate, alla fine la rassegnazione alla convivenza con la propria età anagrafica è l’unica carta che ci resta in mano.
Se la menopausa ha una fotografia di sé ben precisa con evidenti sintomi fisici e psicologici che inquadrano inequivocabilmente la donna dentro quell’odiosa fase esistenziale fatta di vampate e crisi di pianto, l’andropausa è un po’ più nebulosa tanto che i maschietti spesso giocano a viverla come una protratta seconda adolescenza, con esiti sociali e relazionali del tutto individuali. Chi si compera l’auto sportiva, chi si mette il parrucchino, chi si iscrive in palestra, chi al corso di salsa, chi corre dietro alle ragazzine (i più!) … con buona pace di mogli, figli e nipoti.
Paul de Sury affronta in modo scientifico, ma leggero, il processo di senescenza virile mettendosi a nudo con gustosa sincerità, insegnando ai colleghi maschi come adattarsi progressivamente al deterioramento (esterno) e al rincoglionimento (interno). In poche parole, come avere sessant’anni e comportarsi da ventenni!

A far da controcanto alle sue spesso colorite divagazioni, la voce del Prof. Re Rebaudengo, ordinario di senilità andrologica all’Università di Torino. Il palleggio tra i due scrittori è assai divertente, un’occasione per tutti – donne e uomini – per immaginare come saremo o consolarci di ciò che siamo. In fondo – io credo - un solo pensiero può bastare a farci accettare di buon grado la nostra vecchiaia: non arrivarci è peggio!

sabato 10 settembre 2016

SOTTO IL SEGNO DELLO … ZIBIBBO

Apoteosi pantesca: una notte limpida di stelle aiuta a volare… indietro nei ricordi, lontano nei sogni



Immaginate di approdare su una piccola isola dal cuore immenso.
Limpidi riflessi d’azzurro s’immergono nel blu del mare più africano e abbracciano un’anima di brillante vegetazione. Una tavolozza mediterranea che conquista il suo diritto a colorare la vita facendosi strada tra rocce a picco sulle onde, serpeggiando fuori da una terra straordinariamente ricca di promesse.
Immaginate, ora, di calarvi in un’oasi dentro all’isola. Un concentrato di colori, profumi e sapori che riassume tutto il bello e il buono che questo luogo magico contiene, in parte frutto della generosa Madre Terra, in parte dell’appassionata mano umana.
Non siete stati risucchiati dentro il multiforme vortice della fantasia.
Siete a Pantelleria che, così come un satellite corteggia il suo pianeta, bacia la costa sud ovest della Sicilia completando con i suoi 80 km quadrati di suolo vulcanico la provincia di Trapani.
Questa piccola isola dal cuore immenso ospita una Azienda che ha saputo esaltare all’ennesima potenza la profferta di una natura tanto generosa quanto varia, considerando lo spazio alquanto limitato di questo microcosmo galleggiante nel blu.
È l’Azienda Agricola Emanuela Bonomo, una giovane azienda che tramanda con talento l’esperienza di famiglia. Da qui la natura esce completamente trasformata: uva, olive, frutta, capperi, origano vengono sublimati nel meglio che in cucina e a tavola si potrebbe desiderare.


L’obiettivo è quello di esaltare i sapori locali senza corruzioni artificiali e contemporaneamente quello di lavorare nel rispetto di un ambiente raro e prezioso per qualità di clima e terreno.
Qui, come in alcun altro luogo, regna sovrana la cultivar dello Zibibbo che dà vita a vini unici al mondo.
Dalla coltivazione di Uva Zibibbo nasce, infatti, un vero nettare: il Pantelleria Bianco, Vino D.O.C. secco di Zibibbo, apoteosi pantesca nel calice. Non da meno è il Passito D.O.P. prodotto anch’esso da Uva Zibibbo appassita naturalmente al sole di Sicilia. Il “Don Petro” ne è l’emblema! Ed è proprio il sole che pare bere quando, poggiando le labbra sul bicchiere, il nettare scivola fin dentro il cuore rilasciando il suo dolce calore attraverso il sapore.
Un’esperienza tutta da gustare.
Non solo vino, però. Altro pregio dell’Azienda sono i capperi coltivati nel bel cappereto di Monte Gibele, un anfiteatro naturale terrazzato interamente dedicato a capperi, frutteti e olivi. Dalla cultivar Biancolilla si estrae a freddo, nell’unico frantoio dell’isola, un olio extravergine che sprigiona tutte le fragranze della sicilianità e dell’animo pantesco.
Dunque… Profumo di origano, fragranza di olive, croccantezza di cucunci e morbidezza di paté (imperdibile quello di capperi!), salse e marmellate completano il ventaglio di seduzione dell’Azienda Emanuela Bonomo.
Se poi non avete nulla, e nessuno, da perdere e potete permettervi il lusso di abbandonarvi definitivamente a questa piccola isola dal cuore immenso, assaggiate il Nettare di Uva di Zibibbo, un mosto d’uva concentrato dalla consistenza del miele tanto gentile da sposarsi perfettamente con piccanti umori. Un innamoramento al primo assaggio.
L’ultimo, forse, dolce segreto di una piccola isola dal cuore immenso.

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domenica 4 settembre 2016

GENOVESI SÍ MA... DAL CUORE SICILIANO


Sarà la voglia di dolcezza che in questa mite sera lacustre mi riporta con la mente alla mia amata Sicilia. In particolare a Erice.
Mi si perdoni la nuda materialità ma in quest’istante non sto rievocando la magnificenza di questo piccolo borgo sopravvissuto intatto al tempo. Sto immaginando, piuttosto, di affondare le labbra nella morbida cremosità di un dolce nato qui, anch’esso sopravvissuto al tempo, simbolo della sicilianità gastronomica.
Mi riferisco alle “genovesi” di Erice: dolci di pasta frolla con un cuore di delicata crema pasticcera cosparsi da una carezza di zucchero a velo. La prima cosa che mi son chiesta, dopo il primo assaggio di dolcezza in un pomeriggio assolato di luglio trascorso là, è stato il perché di quel nome. Perché chiamare “genovesi” delle creature partorite dalla pasticceria artigianale squisitamente siciliana? Raccogliendo qua e là qualche curiosità ho scoperto che, pur restando l’etimologia incerta, una suggestiva ipotesi riguarderebbe la forma del dolce che ricalca la sagoma del cappello dei marinai genovesi. Infatti, in passato i commerci tra Trapani e Genova erano molto intensi, il che renderebbe plausibile un’associazione tra le genovesi ericine e l’aspetto dei marinai liguri.
Storicamente, in realtà, tra il 1300 ed il 1500 alcune famiglie nobili dedicarono a Erice oltre trenta chiese, per coronare la carica di prete di un primogenito maschio, come voleva la tradizione. Con il trascorrere degli anni, molte chiese passarono alle suore e alle monache di clausura, abili pasticcere ricche di tempo e di inventiva. Dalle loro mani nascevano i “mustazzoli”, dolci di marzapane con confettura di cedro, e le mie amate “genovesi”, appunto. Nella seconda metà dell’Ottocento una apposita legge dettò la chiusura dei conventi e il rischio di perdere questo patrimonio di arte pasticcera fu scongiurato grazie all’iniziativa di una signora molto speciale: Maria Grammatico.
Maria, durante un’infanzia particolarmente difficile, aveva vissuto nel monastero e da “grande” cercò di imitare l’arte culinaria delle monache, giocando con ingredienti, dosi e fantasia. Grazie alla sua perseveranza oggi non solo si possono gustare le genovesi ericine in tutta la loro bontà ma è anche possibile visitare il goloso laboratorio che Maria conduce per la gioia di turisti e soprattutto dei Siciliani, fieri delle proprie tradizioni anche gastronomiche.
La pasticceria di Maria Grammatico anima la Via Vittorio Emanuele, nel cuore di Erice: i dolci colorano le antiche vetrine dai profili in legno invitando i passanti all’assaggio. Imbarazzante la scelta fra mostaccioli delle monache e frutta di Martorana, tra le minne e i cannoli, fra le cassatine e ... le genovesi!
Gli abitanti di Erice dicono che Maria è sempre lì, nel suo laboratorio, a prendersi cura delle sue dolci creature, oggi come tanti anni fa. Un buon esempio di come la passione possa trasformarsi in imprenditorialità e la storia in un presente da tramandare alle generazioni future.


Per chi fosse curioso, la storia di Maria Grammatico è ben raccontata da Mary Taylor Simeti, nel libro Mandorle amare (Palermo 2004). E per chi volesse cimentarsi nella preparazione delle genovesi ericine può pescare una delle tante ricette in rete, anche se l’originalità è garantita solo ed esclusivamente andando a Erice, direttamente nella bottega di Maria Grammatico.
Un’occasione in più per innamorarsi della Sicilia e della sua infinita dolcezza.