martedì 27 novembre 2012

James Hillman, verso il sapere dell'anima



“L’anima è vulnerabile e soffre; è passiva e ricorda. L’anima è immaginazione e un cavernoso deposito di tesori, confusione e ricchezza insieme. Però la vita, il destino, la morte non possono diventare consci; così con l’anima viene costellata una consapevolezza del nostro fondamentale essere inconsci.”
Sono solo alcune delle riflessioni di James Hillman concertate nel libro di Moretti & Vitali, a cura di Francesco Donfrancesco, dal titolo “James Hillman, verso il sapere dell’anima”. I saggi contenuti in questo volume rendono omaggio all’opera di uno dei più pregnanti pensatori del nostro tempo. Le voci degli autori convergono come una luce riflessa attraverso un prisma interpretativo che ricompone le infinite sfumature di questo psicologo americano innamorato della cultura europea e italiana. Anche grazie anche alle molte fotografie che ritraggono l’analista nella sua quotidianità, sfogliare le pagine di questo libro è un po’ come seguire i passi dell’Hillman uomo, semplice e sorridente, per le strade di Bologna, Firenze, Porto Ercole e Vignanello. Ne emerge un personaggio che tutti avremmo voluto conoscere per l’istintiva simpatia che suscita. Ma anche per la sua straordinaria levatura intellettuale, coinvolgente e contagiosa: pragmatico e filosofico, eretico e rivoluzionario, il più fedele erede di Jung è anche il suo più audace traditore poiché si sa che ogni allievo all’altezza del maestro riesce sempre a sorprenderlo. Tuttavia Hillman si sgancia dal pensiero junghiano abbracciandolo e non disdegnandolo. Decolla verso orizzonti audaci e ambiziosi, recuperando le preziose gemme di quella tradizione filosofica che sboccia in Plotino, Eraclito e Vico per atterrare in un presente in cui l’anima sembra essere sempre più mortificata dalla cultura della fretta e del materialismo.
Riconducendo il pensiero junghiano all’umanesimo italiano, Hillman rivaluta il sodalizio tra bellezza e giustizia, poiché la bellezza agisce come una voce che chiama a cose migliori, che spinge il cuore ad amare, la mente a immaginare. Eppure, la moralità senza bellezza immiserisce il cuore e la mente. Hillman punta il dito contro la perdita della facoltà originaria dell’uomo, la facoltà poetica e immaginativa, e coglie la causa dell’imbarbarimento della società moderna proprio nella diffusa incapacità di entrare in contatto con l’anima mundi sottesa a ogni essere vivente.
Fare anima è il concetto folgorante, davvero rivoluzionario, di Hillman: significa rovesciare il verso del proprio processo di crescita, pensare che anziché ascendere si debba discendere per conoscere le risposte ai propri interrogativi. Il cammino della comprensione è un progressivo oscuramento, un bagno nell’incertezza, volto alla ricerca di una verità obliqua e trasparente, mai rettilinea e cristallina. E’ un invito a riscoprirsi bambini per tornare a vedere gli angeli, quegli angeli che non sono fantasmi o miraggi ma le eloquenti manifeste sfaccettature di quell’anima mundi che dobbiamo assolutamente recuperare per non inaridire del tutto. Da qui l’esigenza di incoraggiare una psicologia politeista - perché l’anima è per sua natura politeista – per favorire la differenziazione e l’elaborazione di sè, non più l’individualizzazione di un illusorio unico Sè.
James Hillman, con profonda levità e pensosa ironia, ha teso un ponte intellettuale non solo teoretico ma soprattutto pratico tra passato e futuro, tessendo gli scenari culturali necessari per una psicologia più adatta all’uomo moderno. Queste pagine rappresentano la minuziosa testimonianza di quanto sia attuale e dinamico il suo spirito, anzi la sua anima. Anima che, attraverso la voce di chi ha avuto la fortuna di conoscere Hillman di persona, giunge viva e brillante anche a noi lettori, coinvolti in quello stesso sentimento di ammirazione e riconoscenza che trapela dai contributi degli autori.
Questo libro non rappresenta, dunque, solo un elegante omaggio James Hillman. E’ piuttosto è uno strumento concreto che contribuisce a trasformare l’incolmabile vuoto lasciato da un grande uomo in un terreno fertile da coltivare, in virtù di un raccolto intellettuale sempre più fruttuoso e contagioso. 

La Boqueria



Barcellona non è solo sinonimo di Gaudì, Picasso o Dalì. L’architettura surreale che folleggia qua e là per strade e piazze racchiude, infatti, un cuore polposo e saporito che trasforma in opera d’arte anche la quotidianità.
La città gravita attorno alla Rambla, il viale alberato che da Plaza Catalunya si allunga per oltre un chilometro fino al porto. E in quest’effervescenza di passanti rapiti dalle suggestioni di Casa Batlló, Parc Güell e La Pedrera, a un certo punto si sbocca nel più grande mercato popolare della Spagna: la Boqueria. Eccolo il cuore palpitante della città, dove la gente compra, vende, vive.
Quest’ampio spazio coperto che ogni giorno si risveglia brulicante di voci e di colori è chiamato anche Mercat San Josep e si trova esattamente al numero 91 della Rambla. Visitare la Boqueria non è meno importante che visitare la Sagrada Familia perché entrare in sintonia con Barcellona senza penetrarne l’anima catalana sarebbe come pretendere di gustare appieno un frutto limitandosi alla buccia. Secondo un critico d’arte australiano, Robert Hughes, la chiave per capire la personalità catalana è cogliere l’equilibrio tra il seny (il senso comune razionale) e la rauxa (l’emozione spontanea viscerale). E qui, alla Boqueria, ho afferrato finalmente il senso di quest’affermazione.
Aggirarmi tra i banchi traboccanti d’ogni ben di Dio e mescolarmi alla gente mi ha fatto sentire un po’ come Alice nel Paese delle meraviglie. Un paese goloso dove ogni dettaglio è esagerato nell’aspetto, nel profumo e nel colore. La struttura è costruita in ferro scuro, quasi severo, e sovrasta il luogo dove tradizionalmente i contadini catalani venivano a vendere i prodotti alimentari ai ricchi commercianti barcellonesi. Sull'origine del nome pare esistano tre versioni. La prima lo farebbe derivare da un maestoso portale d’accesso alla città fortificata, voluto dal Conte Raimondo Berengario IV detto il Santo dopo la conquista di Almeria, nel 1147. Ammirare questa meraviglia lasciava i viandanti letteralmente a bocca aperta, da qui verrebbe il nome Badoqueria, trasformato poi nell’attuale Boqueria. La seconda versione, meno romantica e più bucolica, farebbe derivare il nome dal fatto che qui si vende abitualmente la carn de boc, ovvero la carne di montone, considerata dai catalani una vera e propria squisitezza. Mentre l’ultima più sbrigativa associa semplicemente il termine catalano Boqueria a quello francese Boucherie, ovvero macelleria.
In realtà la Boqueria è molto più di ciò che il suo nome evoca. La disposizione dei banchi dei venditori è già di per sé uno spettacolo ravvivato dai dialetti regionali che s’accavallano nell’aria. La scelta dei prodotti è vasta ed eccellente e il rigore con cui è indicata la provenienza di frutta, verdura, carni e pesci dà la misura dell’internazionalità del mercato. Frutta esotica dai colori solari s’intercala a cascate di pesce ancora guizzante; funghi fiabeschi dall’aspetto inquietante sfidano riottosi crostacei e molluschi sensuali; ortaggi d’ogni foggia e dimensione s’affiancano agli animali da cortile esibiti come vittime sacrificali. Eppure, la sanguinolenta tracotanza della carne non offende la garbata poesia dei vegetali: tutto è esasperato ma armonioso, proprio come in un quadro di Dalì. E proprio come per un quadro, anche qui è la mano dell’uomo l’artefice di tanta bellezza. Questa giostra di colori è opera meticolosa dei commercianti che animano i banchi con la stessa sensibilità che il pittore usa nei riguardi della tela. Nulla sembra essere lasciato al caso e ogni dettaglio pare assecondare un ritmo cromatico ineluttabile. E’ arte anche questa, soprattutto se si pensa ai laboriosi preliminari di quest’esposizione che si rinnova ogni mattina ogni giorno dell’anno, sempre uguale eppure mai identica a se stessa. Perché, si sa, la bellezza stupisce sempre.
Visitare la Boqueria è dunque un piacere estetico che tuttavia comporta un effetto collaterale pratico: procura un’ubriacatura dei sensi tale da indurre il visitatore a trascendere la pura contemplazione. La tentazione all’acquisto compulsivo è prepotente, grazie anche alla premura dei venditori che stuzzicano l’acquolina offrendo golosi assaggi. Per questo i commercianti hanno pensato di aprire anche alcuni chioschi dove poter consumare piacevolmente qualche assaggio più consistente, tipico della cucina catalana e non solo. Uno dei piatti classici più semplici è il pa amb tomaquet, una bruschetta di pomodori senz’aglio che accompagna normalmente salumi e formaggi. Ci sono poi i calçots, profumatissimi cipollotti tipici della Catalogna serviti alla brace e conditi con una salsa a base di pomodoro, mandorle, nocciole, peperoni e olio. Un’altra golosità inimitabile è l’esqueixada, a base di baccalà crudo con cipolla, pomodori e olive. Chi invece riuscisse a sfuggire a tali eccessi può sempre consolarsi con le variopinte centrifughe di frutta che rinfrescano qua e là i banchi, accentuando il carattere esotico del mercato.
Infine, per gli amanti più esigenti della cultura enogastronomica, la Boqueria offre anche un’aula gastronomica, un punto d’incontro per cuochi e artigiani, venditori e clienti, turisti e curiosi, tutti accomunati da un unico scopo: la cura e il trattamento degli alimenti freschi. E’ questo, infatti, il primo grande segreto per eleggere la Boqueria non solo come il più grande mercato popolare del Paese ma anche come il migliore per qualità e rigore. Un mercato che continua a lasciare i viandanti di oggi, come quelli di ieri, letteralmente a bocca aperta!

lunedì 26 novembre 2012

Un Amore silente



Sento l’urgenza di esprimere un pensiero tanto profondo quanto banale.
Mai, dico mai, avrei potuto permettermi la vita che sto vivendo oggi se non fosse per mia madre. Non avrei potuto viaggiare e scrivere dei miei viaggi, interiori ed esteriori, se non ci fosse sempre stata lei a colmare con il suo impegno e le sue rinunce le mie frequenti assenze. Per troppo tempo ho dato per scontato la sua dedizione generosa, silente e gratuita, che è solo uno dei tanti volti dell’Amore. Per troppo tempo ho dato per scontato la fortuna di avere una famiglia alle spalle.
Vorrei imparare a manifestare spontaneamente la mia gratitudine e il mio affetto per lei ma evidentemente ho ancora troppi bavagli, troppe manette attorno al mio cuore per guardarla negli occhi e dirle semplicemente Ti voglio bene. Mi è più facile farlo così, vigliaccamente ma sinceramente, attraverso parole che sfumano nell’etere dove, anziché sentirmi nuda, mi sento scioccamente protetta perché so che il suo sguardo qui non si poserà mai.
Ho solo un grande inguaribile rammarico, quello di avere riscoperto mia madre solo ora che è nonna e a una nonna si perdona tutto, anche il fatto di non essere sempre stata una madre perfetta. Chi lo è, dopo tutto?
Spero di ricordarmi queste timide ma sentite parole quando un giorno, tra tanti anni, sarò anch’io nonna se il tempo me lo concederà.
 

sabato 24 novembre 2012

Bipolare


Aiuto, mi sento divisa ... alterno incessantemente i pensieri più casti e verginali a quelli più spudorati e lascivi. 
E' inutile, credo d'essere irrimediabilmente bipolare. Ma il peggio è che non voglio guarire!

La danza


La Donna scopre sempre di saper danzare 
quando l'Uomo scopre di saperla guidare.

martedì 20 novembre 2012

Un frutto per tutti i sensi



Diceva bene Marcel Proust sostenendo che il vero viaggio non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi ma nell’avere nuovi occhi con cui scoprirli.
Ne ho avuto conferma anche quest’estate, in Madagascar, durante un’escursione all’interno della foresta primaria di Lokobe. Avventurarsi laggiù dà la sensazione d’essere avvolti dal morbido abbraccio di piante gigantesche che con le loro liane invitano ad addentrarsi sempre di più nel cuore vergine della primitività. 
Le foglie carezzano, i fiori seducono, gli animali spiano. 
Viene spontaneo trattenere il fiato per non disturbare la quiete, camminare in punta di piedi, quasi a rallentatore, per assecondare l’apparente immobilità degli alberi e dei loro ospiti. Ma soprattutto viene naturale aprire gli occhi in maniera nuova, educare lo sguardo a ciò che sembra invisibile e che tuttavia c’è: respira, si muove, osserva e spera di non essere scoperto, se non con rispetto.
Mentre la mia guida procedeva lenta nella delicata ricerca di serpenti e camaleonti rarissimi, io ho casualmente alzato lo sguardo verso l’alto, più interessata ai lemuri che ai boa. E frugando serendipicamente con gli occhi tra le palme frondose, ho intravisto qualcosa d’inatteso. Una polposa macchia color giallo brillante stava appesa a un robusto tronco di una pianta mai vista prima. Non solo una ma altre tre, quattro o forse più macchie gialle penzolavano pigre dallo stesso fusto. Sottovoce ho pregato la guida di dirottare il cammino verso quegli stranissimi spruzzi di sole per capire cosa fossero ed è stato così che ho incontrato per la prima volta il Jackfruit.  Quando si dice “amore a prima vista”!
La pianta appartiene al genere Artocarpus, una famiglia di circa sessanta specie di alberi e arbusti tropicali sempreverdi, di cui la più nota è il Breadfruit o Albero del pane. Il Jackfruit è una variante meno nota, almeno nella nostra cultura. La sua origine è asiatica: dalla Thailandia l’albero è stato trapiantato fino in Brasile dai viaggiatori portoghesi del sedicesimo secolo, anche se alcune ricerche farebbero risalire la sua primissima coltivazione a seimila anni fa, in India.  La cosa certa è che il suo nome deriva dal portoghese “jaca”, inglesizzato nel 1563 dal naturalista Garcia de Orta nel suo affascinante libro “Colòquios dos simples e drogas da India”. Più tardi, un certo William Jack, un ambizioso botanico scozzese dei primi dell’Ottocento, restò a sua volta talmente affascinato da questa bizzarra pianta rinvenuta durante un viaggio in Malesia che millantò la paternità del nome, Jack appunto.
Nome di battesimo a parte, il Jackfruit oggi è uno dei tre frutti beneauguranti del Tamil Nadu - insieme alla banana e al mango – oltre ad essere il frutto nazionale del Bangladesh. Un’altra curiosità che lega il frutto all’Oriente, arte culinaria a parte, è che da esso si estrae il colorante giallo utilizzato per tingere le tonache sacre dei monaci buddhisti.
La sua lunga storia ha permesso alla pianta di approdare molto lontano dalle terre d’origine ed è così che anch’io ho potuto scoprirla in Madagascar, straordinario crocevia di cultura africana e asiatica. Ogni Paese in cui è arrivata è stato contagiato positivamente dalla sua esuberanza. In Brasile, paradossalmente, il Jackfruit ha finito per diventare invasivo, soprattutto nella foresta secondaria del Tijuca, dove piccoli mammiferi come il coati, essendone golosi, contribuiscono a diffondere a dismisura i suoi semi nel terreno, alimentando così un’eccessiva espansione della specie vegetale a scapito di altre.
In Madagascar, invece, la presenza del Jackfruit è discreta ma generosa e rallegra la foresta punteggiandola qua e là di queste sfere ovoidali gialle che possono raggiungere anche il peso di cinquanta chili e un metro di lunghezza ciascuna. All’olfatto il frutto non risulta immediatamente simpatico, perché l’odore che emana quando è maturo è prepotente e ricorda un po’ quello aspro  e pungente della cipolla. Dev’essere un trucco che la pianta ha escogitato come naturale difesa verso certi animali. Toccando il frutto, la prima sensazione è quella di scontrarsi con una superficie rugosa e coriacea inespugnabile che sembra non promettere granché di speciale con tutti quei bitorzoli tondeggianti. Invece, la vera sorpresa del Jackfruit sta proprio nel suo cuore tenero, cosa che avrei scoperto con mio grande piacere a cena, quella stessa sera.
Anche grazie al Jackfruit, ho imparato che il vero viaggio non solo vuole nuovi occhi con cui guardare ma anche una nuova bocca e un nuovo naso con cui sentire sapori del tutto sconosciuti. Essere curiosi e lasciarsi stupire è indispensabile per aprire i sensi con disinvoltura a nuove esperienze senza diffidenza né timore. E questo vale anche a tavola, soprattutto quando ci si trova lontano da casa.
Prima di assaporare il misterioso gusto del Jackfruit, ho voluto capire come venisse ricavata la polpa dalla scorza brufolosa. E ho constatato che il lavoro d’estrazione non è impresa da poco, anzi somiglia più all’arte fine dello scultore che a una semplice operazione culinaria. Dopo un primo taglio netto che squarta la sfera ovoidale esattamente a metà, la scavatura deve essere eseguita da mani esperte, decise ma delicate, di solito femminili. Il cuore carnoso del frutto si lavora con un coltello flessibile con cui si ricavano decine e decine di petali, simili a grosse fave o a patatine chipster, dal colore giallo tenue e lucente. Io li ho mangiati crudi, perché il frutto da cui sono stati ricavati era maturo al punto giusto. Quando invece il frutto è ancora acerbo o giovane, la sua polpa viene utilizzata cotta in un’infinità di sfiziose varianti: bollita, stufata, arrostita, lessata nel latte di cocco, speziata con aromi agrodolci e piccanti, accompagnata spesso da gamberi o carne di zebù.
La consistenza del petalo del Jackfruit crudo, così come l’ho assaporata io, è fibrosa ma cedevole e al primo impatto, che risulta sonoramente croccante sotto i denti, segue una sdilinquita scioglievolezza sulla lingua che ammutolisce dalla bontà. Il profumo si percepisce appena, mentre il sapore è garbatamente dolce e sottile ma non facilmente definibile. Immagino che la timbrica dipenda dalle papille gustative di ognuno, perché mi è capitato di raccogliere sensazioni discordanti tra loro da parte di chi, come me, assaggiava per la prima volta questa prelibatezza. Banana, ananas, mandorla, vaniglia, mela, soia e persino sapone: questi sono solo alcuni dei sapori che questo frutto titilla al palato. In realtà, il Jackfruit è semplicemente unico, ridente e sensuale. Questo è un motivo in più per assaggiarlo, giocando a dare un nome al suo carattere senza confonderlo con altre unicità del mondo vegetale. La possibilità ci sarebbe anche qui in Italia, poiché lo si può trovare, anche se raramente, in qualche mercato etnico particolarmente curato. Un delitto, invece, sarebbe provarlo in scatola, sciroppato, tostato o essiccato, come mi è capitato di vedere in certe drogherie nel centro di Roma. Non solo il Jackfruit inscatolato perde il suo fascino esotico ma s’impoverisce anche delle virtù intrinseche, visto che non è solo bello ma anche sano. Il Jackfruit è, infatti, una ricca fonte di vitamina B1, B2 e potassio, con un concentrato minimo di grassi e massimo di carboidrati.
Quindi, se possibile, meglio raggiungerlo e gustarlo laddove naturalmente prospera. E per completare l’elogio del goloso frutto, aggiungo infine che se il Jackfruit mi ha stuzzicato vista, tatto, olfatto e gusto è riuscito a sorprendere anche l’udito. Il legno dell’albero viene, infatti, impiegato nella costruzione di strumenti musicali dalle sonorità morbide e sensuali che hanno spesso animato i tramonti infuocati di un Madagascar per me indimenticabile, in tutti i sensi.
Indimenticabile anche grazie a quel giallo sole, odoroso e saporito, che spunta qua e là nella lussureggiante foresta di Lokobe.  

venerdì 16 novembre 2012

L'età dell'inconscio



Ci sono libri che divertono, libri che commuovono, libri che insegnano e libri che annoiano. 
Poi ci sono libri che toccano!
“L’età dell’inconscio, arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri” di Eric Kandel è un libro che tocca i pensieri e le emozioni più taciute. 
Dopo averlo letto, diventa impossibile godere di un’opera d’arte senza rievocare nella mente queste pagine per sorprendersi, ogni volta come fosse la prima, dei meccanismi inconsci che ci animano al cospetto di un quadro o di un romanzo. Artista e fruitore dialogano nella stessa dimensione immaginifica che, grazie a Kandel, diventa tangibile, reale, quotidiana.
Anche Freud sarebbe deliziato da queste seicento pagine di poetica scienza.

martedì 13 novembre 2012

Grazie libri!



Per anni mi sono rifugiata nella lettura come una tartaruga nel carapace.
Ho sempre considerato i libri come fonte di consolazione e di compensazione interiore, mai come varco d’apertura verso il mondo esterno. 
Oggi invece, dopo tante pagine consumate nel silenzio di un’avidità quasi morbosa, mi rendo finalmente conto di quale fertile ricchezza ho lentamente accumulato. Mi rendo conto, cioè, che ciò che ritenevo essere un solitario giaciglio senza spiragli di luce era al contrario la pista di decollo verso vette imprevedibilmente ariose. 
La conoscenza è l’humus della vita: non sta chiusa nei libri, si libra nella mente e vibra dentro il cuore, seminando e contagiando. Fertilizza i pensieri, emoziona le idee, trasforma i sogni in progetti e le fantasie in realtà. 
E scrivere, oggi, mi sembra essere la naturale, fisiologica proiezione del leggere. Un passo ulteriore, una spinta ancora più in alto, verso quelle vette ariose che fino a poco, pochissimo tempo fa, parevano irraggiungibili chimere. 
Non è ambizione la mia, è solo riconoscenza e lo voglio dire.
Grazie libri!

venerdì 9 novembre 2012

Tutta colpa della "neotenia"!



In un bel libro intitolato “L’animale donna”, Desmond Morris offre un’interpretazione interessante a un aspetto particolarmente evidente della nostra epoca.
Mi riferisco al fatto che la nostra società, sempre più longeva, trabocca di persone mature che, nonostante l’età, si mantengono giovani e arzille tanto nel lavoro quanto nell’amore. E l’interpretazione scientifica di Morris completa e trascende le motivazioni legate ai traguardi della salute e del benessere sociale per scavare lontano, fino all’origine dell’uomo.
L’antropologo riassume che l’esuberanza giovanile manifesta durante la senilità – soprattutto quella maschile - sia eredità di quel fenomeno che i biologi chiamano “neotenia”. Si tratta di un meccanismo biologico presente in entrambi i sessi, per cui negli individui adulti di una specie permangono le caratteristiche morfologiche e fisiologiche tipiche delle forme giovanili. E questa tendenza a mantenere vive alcune peculiarità giovanili anche durante la maturità, non riguarda esclusivamente lo sviluppo anatomico ma anche quello psicologico. La neotenia diventa così anche un trucco evolutivo raffinato in millenni di trasformazioni che mescola fantasia, socialità e curiosità, equipaggiando gli esseri umani del desiderio di giocare e di divertirsi anche in età adulta trasformandoli in inossidabili "evergreen".
Il gioco dei “grandi” è, infatti, una caratteristica squisitamente umana. Gli altri animali giocano solo finché sono cuccioli e perdono questo comportamento naturale via via che crescono, perché esso diventa superfluo alla sopravvivenza. Al contrario, gli esseri umani normalmente in salute amano giocare sempre, per tutta la vita, quasi fossero una specie a parte: quella di Peter Pan per eccellenza. Naturalmente questa passione per il gioco muta espressione attraverso la cultura e si trasfigura in modi diversi, anche molto raffinati. L’arte, lo sport, la danza, la poetica, la musica, il teatro e l’erotismo - da un punto di vista strettamente evolutivo - sono tutte attività che contemplano le caratteristiche ancestrali del gioco. Gioco inteso come mescolanza di rischio, curiosità, inventiva, esplorazione, creatività, eccitazione e divertimento. Quindi, la neotenia psicologica sottesa a queste espressioni giocose della vita è uno di quei segreti che aiuta a mantenersi giovani il più a lungo possibile anche nello spirito, a dispetto dell’età anagrafica.
Ma perché questa caratteristica propria di entrambi i sessi è più esplicita negli uomini che nelle donne, soprattutto quando riguarda il desiderio erotico?
Anche questa differenza dipenderebbe dalla storia dell’evoluzione. Uomini e donne non hanno percorso il cammino evolutivo allo stesso ritmo e la neotenia ha inciso in maniera diversa sui due sessi, a seconda dei ruoli svolti nella società. Tra i nostri antenati, il rischio (caratteristica fondamentale del gioco) era indispensabile ai maschi per aver successo nella caccia e nella protezione della tribù. Al contrario, le femmine dovevano essere prudenti e conservatrici per non compromettere la natalità e la sicurezza della prole. E siccome l’istinto di correre rischi non è qualcosa di esclusivamente fisico ma anche mentale e psicologico, ne derivano differenze molto evidenti anche nei comportamenti slegati alla pura sopravvivenza ma piuttosto inerenti agli affetti, ai desideri e alle emozioni.
In una società destinata ad essere sempre più “vecchia”, questa discrepanza tra uomini e donne maturi è particolarmente evidente: gli uomini tornano spesso a comportarsi come adolescenti anche quando hanno i capelli bianchi e le rughe, mentre le donne acquistano un fascino più sobrio sia nell’aspetto che negli atteggiamenti. Ecco perché è facile assistere a gagliardi signori attempati che perdono la testa per fanciulle spesso acerbe, esorcizzando così l’ineluttabilità del tempo nelle fattezze della gioventù; mentre è decisamente più raro imbattersi in situazioni inverse.
Ogni storia è unica, ovviamente, e una spiegazione antropologica, seppur affascinante, non è sufficiente a districare tutti i nodi psicologici sottesi. Anche perché quando entrano in gioco i sentimenti, non è più solo un gioco! Così, gli esiti degli ardori senili possono essere tanto sublimi – come fu quello di Goethe che a 73 anni s’incapricciò della diciassettenne Ulrike struggendosi d’amore per lei nell’ “Elegia di Marienbad” - quanto patetici – come alcune mondane vicende ostentate senza alcuna poesia. In ogni caso, forse c’è poca differenza tra una fascinazione adolescenziale e una senile e questo dovrebbe far riflettere sull’unica cosa certamente immortale dopo millenni di evoluzione: la necessità di emozionarsi sempre attraverso le infinite variabili dell’amore e del desiderio. 

Una breve digressione personale. L’argomento mi sta particolarmente a cuore e vorrei riparlarne, ispirata da una frase scritta proprio da Goethe: Non si smorza comunque questo interiore fuoco! Morte e vita si danno orrendo assalto.” Ci tengo, innanzitutto perché ho la fortuna di avere alcuni affezionati amici che confermano questa straordinaria vitalità senile, mentale e sentimentale (purtroppo ho anche a che fare con altri - o un altro - decisamente patetici, imbarazzanti e sgradevoli, ahimè!). E poi, perché io stessa sono nata da un padre ultrasessantenne che si innamorò perdutamente di una splendida ragazza di 25 anni più giovane di lui, mia madre. Quindi, in mezzo alle infinite contraddizioni che certe storie d’amorosi sensi possono alimentare, una parte di me ammirerà sempre le passioni senili vissute con reciproco rispetto. Mi auguro solo che certe emozioni tanto intense possano animare anche noi donne, nonostante la nostra minor dose di neotenia.
Anche di questo vorrei riparlare un giorno, tra tanti tantissimi anni, naturalmente accanto al mio aitante Peter Pan. 

martedì 6 novembre 2012

La domanda


A volte è una fregatura credere d’aver capito cosa sia l’amore. 
Più saggio sarebbe domandarsi ciò che l'amore non è, 
e sperare di capire cosa mai potrà essere.

domenica 4 novembre 2012

Il profumo della seduzione



Sarà capitato anche a voi di annusare un odore e sentirvi improvvisamente risucchiati in un lontano ricordo. Un viaggio, un panorama o un volto che appartengono al passato possono essere miracolosamente resuscitati da un evanescente effluvio, spesso inconsciamente assorbito. Così come può capitare che un profumo di passaggio possa indurre i vostri sensi in un’inattesa fibrillazione erotica.
Noi animali umani siamo praticamente schiavi di quello che è il senso più arcaico e al contempo il più sottovalutato. L’olfatto è determinante non solo per un naturale meccanismo di sopravvivenza ma perché dal nostro naso dipendono infinite diramazioni emotive e affettive inconsapevoli che guidano le nostre azioni consapevoli. Biologicamente questa dipendenza all’olfatto è ovvia. Possiamo chiudere gli occhi e la bocca, tapparci le orecchie, non toccare alcun oggetto e continuare a vivere temporaneamente senza handicap vitali compromettenti. Ma se smettiamo di respirare per più di qualche istante, prima o poi moriamo.
Mediamente un essere umano respira più di 23.000 volte al giorno lasciando transitare circa 13 metri cubi d’aria, compresi profumi, aromi e olezzi. Una volta incanalate nel naso, le molecole odorose affrontano un percorso turbolento, fortemente vascolarizzato, e approdano direttamente al cervello dopo aver impregnato l’epitelio olfattivo di migliaia di timbriche odorose diverse. L’epitelio è una spugna straordinaria composta di un’infinità di recettori specifici per ogni odore e il suo compito è di convertire i segnali chimici in messaggi elettrici che poi i neuroni saranno in grado di interpretare. L’intricato universo sinaptico s’infittisce ancor di più quando le molecole odorose si mescolano a quelle saporose: ad occhi chiusi e con il naso tappato non sapremmo dire con certezza se stiamo addentando una mela o una patata, o se stiamo leccando del burro o un gianduiotto. Il confine tra olfatto e gusto è dunque davvero effimero e il piacere o il disgusto nascono dal matrimonio dei due sensi.
E’ a questo punto che entra in gioco l’intricata sfera affettiva legata al senso dell’olfatto, il quale come un subdolo ipnotizzatore guida attrazioni e repulsioni anche nelle relazioni umane. Nonostante la sua preponderanza nella nostra vita quotidiana, è un “senso muto”, perché non sa esprimersi a parole. L’ignoranza olfattiva di noi esseri umani moderni è, infatti, desolante e pur riuscendo a percepire migliaia di odori siamo spesso tristemente incapaci di descriverli adeguatamente. Probabilmente, questo succede perché le regioni cerebrali che registrano le molecole olfattive sono debolmente connesse alle aree del linguaggio, mentre sono affini a quelle responsabili delle emozioni e dei ricordi. Così, il lessico olfattivo è spesso costretto ad attingere al pozzo delle immagini per esprimersi. Da qui, il fertile humus creativo di alcuni grandi scrittori, come Proust, i quali associano mirabilmente impalpabili fragranze a concrete situazioni emotive.
Questo lascia intuire come l’olfatto abbia a che fare anche con i sentimenti e con i meccanismi di attrazione fisica tra gli individui. In effetti, annusare l’evanescenza di qualcuno rappresenta la percezione più intima che possiamo avere di lui o di lei, perché in un solo istante ne incorporiamo la più segreta essenza. Una persona priva di profumo artificiale è essenzialmente nuda ed è per questo pudore che amiamo vestire il nostro corpo di effluvi seducenti al fine di risultare più desiderabili a noi stessi e agli altri, mascherando eventuali odori corporali sgradevoli. Il profumo artificiale diventa così un’impronta del temperamento, dell’umore, un marchio personale e, come diceva Hegel, “l’uomo (e la donna!) è un profumo delicato che impregna l’intero comportamento.” Jean Baptiste Grenouille, il protagonista del romanzo di Süskind “Profumo” è l’emblema dell’esasperazione di quest’identificazione tra odore e personalità. Il folle individuo, infatti, s’appropria dello spirito delle fanciulle desiderate assassinandole per ricavarne l’essenza del loro essere e farne profumo.
I profumieri conoscono bene la potenza del significato simbolico degli aromi: mistero, magia, purezza, destino, sensualità, seduzione, erotismo sono tutti aggettivi che rivestono i profumi di un linguaggio enfatico irresistibile e indossandoli c’illudiamo d’incorporare tali virtù.
E’ sempre stato così, sin dall’antichità, da quando cioè l’alchimia giocava a escogitare intrugli aromatici per esercitare effetti amorosi o venefici invincibili sulle persone. Ma anche oggi i profumieri sanno trasformarsi in astuti fattucchieri, elaborando essenze che possono rivelarsi dei veri e propri strumenti di seduzione. Come? Sfruttando i naturali afrodisiaci corporali, ovvero i feromoni, scoperti negli anni ’50 ma già intuiti da Freud il quale, senza saperlo, aveva colto un collegamento tra senso dell’olfatto e attrazione sessuale. Paradossalmente, però, egli era convito che inibendo chirurgicamente il primo si sarebbe potuto dominare la seconda per facilitare quel processo di civilizzazione da lui tanto auspicato.
Oggi i feromoni non sono più un mistero né una minaccia, anzi sono spesso sfruttati commercialmente proprio dai profumieri. Nel 1983 una società americana, la Jovan, aveva lanciato negli Stati Uniti i primi profumi che contenevano dei feromoni sintetizzati. Si trattava delle Acque di Colonia Andron, una femminile l’altra maschile, propinate al pubblico come essenze in grado di veicolare silenti messaggi erotici e di solleticare gli appetiti sessuali. Evidentemente l’effetto era garantito, o forse si trattava di pura suggestione, visto che all’Andron sono seguiti molti altri prodotti analoghi. Nel 1992 è nata la società Erox e i suoi profumi, Realm homme e Realm femme sono commercializzati anche in rete con un cospicuo guadagno da parte della società. Ora, questi profumi ai feromoni confermano la potenza dell’immaginario olfattivo e il suo straordinario permanere nel tempo, perché queste formule di seduzione ricordano appunto gli antichi filtri d’amore degli alchimisti. Una sola considerazione del tutto personale: si sa per certo che nelle ricette antiche tutti gli ingredienti erano rigorosamente naturali, compresi l’urina, il sudore e altre secrezioni corporali umane e animali, da cui emanano i feromoni. Sarà quindi il caso oggi di indossare i profumi feromonici che, come dicono gli slogan in rete, promettono di “conquistare l’altro sesso senza fare alcuno sforzo”? Forse sarebbe meglio “rassegnarsi” a sedurre col proprio discreto fascino e presentarsi nudi di profumi feromonici agli appuntamenti galanti, perché anche nel caso di successo sarebbe un po’ come barare. Al contrario, molte delle essenze raffinate non truccate esercitano un indiscusso fascino, spesso sufficiente a incoraggiare la seduzione.
Chi desiderasse avventurarsi in un vero e proprio viaggio all’interno della cultura olfattiva del passato e del presente, può farlo andando a Parigi. Esattamente nella Reggia di Versailles, nel 1990, è stata inaugurata un’osmoteca, cioè un museo dei profumi. Qui, sono archiviati tutti i più famosi profumi della storia, alcuni nella loro formula originaria fortunatamente conservata e tramandata, altri riprodotti sulla base di minuziosi studi storici. In ogni boccetta di vetro sta racchiusa un’essenza che si fa ricordo, come se ognuna di esse fosse un impalpabile fotogramma del passato da evocare ad occhi chiusi. Tra le più preziose c'è l'acqua di colonia Hungarian Queen del 1815, usata da Napoleone durante il suo esilio a Sant'Elena, e molte delle ricette tratte dai libri di Plinio, con le quali si possono ricreare i profumi usati nell'antica Roma. Fra queste ampolle sono conservate, a una temperatura costante di 13 gradi, oltre 1.800 fragranze, di cui circa 400 estinte, considerate autentiche leggende del mondo dei profumi. Il fondatore di quest’attraente museo dei profumi e dei ricordi è Jean Kérleo, chiamato amichevolmente “il naso”, senza ovviamente alludere al bel racconto satirico di Gogol. Kérleo è anche l’inventore di molti profumi famosi di grande successo e in un’intervista spiega come "realizzare un profumo sia una vera e propria arte. Vuol dire creare un mix di fragranze naturali e sintetiche, utilizzando diversi tipi di odori. Per prima cosa devi impararli a memoria, in modo che con un po' di fantasia ed estro artistico è possibile creare un vero profumo."
Al cospetto di questa corte di preziosi effluvi in grado di sedurre i sensi con la sola malizia dell’eleganza, mi piace ricordare una pratica raccomandazione che Napoleone Bonaparte fece alla sua Giuseppina alla vigilia di un appuntamento amoroso. La missiva dell’ardente condottiero – che evidentemente preferiva i ruspanti feromoni di Josephine al suo delicato Hungarian Queen - diceva esattamente così:
“Arriverò a Parigi domani sera. Non lavatevi!”