martedì 4 settembre 2012

Il Discorso del Re



La sala della libreria era quasi colma quando sono arrivata. Sul palco c’erano già gli ospiti e la mia emozione era più viva che mai, come sempre in queste occasioni.
Peter Conradi, giornalista del Sunday Times, e Mark Logue, nipote di Lionel Logue - i due autori del libro “Il discorso del Re” - erano a Milano, per raccontare con la loro voce una storia che sta riscuotendo molto successo ma, soprattutto, per testimoniare la vicenda di un uomo che la storia l’ha fatta: Re Giorgio VI d’Inghilterra.
Accanto ai due autori sedevano il Dottor Caruso, psicoterapeuta e logopedista, un giovane traduttore e il direttore di Tecniche Nuove, la casa editrice che con grande intuito ha scommesso su questa pubblicazione, traducendola e diffondendola anche in Italia.
L’atmosfera s’è rivelata immediatamente sciolta e amichevole e si è protratta per quasi due ore in un clima piacevole e salottiero. Alla domanda a bruciapelo di Peter Conradi – espressa in un perfetto e vivace italiano - su chi del pubblico avesse già visto il film, s’è levato un coro praticamente unanime di mani alzate. Ben superiore rispetto a chi ha poi ammesso d’aver già letto il libro. Nessuna sorpresa, né da parte degli autori, né da parte mia. Spesso, infatti, è il cinema a trascinare sull’onda del successo un libro, anche se, in realtà, la storia stampata risulta ben più ricca e coinvolgente di quella messa in scena.

E’ proprio questo il caso. Il libro, infatti, non è solo un bel romanzo ma è innanzitutto un documento storico: è la trascrizione fedele degli appunti e delle riflessioni di Lionel Logue, il logopedista (diremmo oggi) del Principe Albert, Duca di York, in seguito Re Giorgio VI d’Inghilterra.
La trama è nota ma per chi fosse a digiuno di Storia, o non avesse visto il film né letto il libro, la riassumo brevemente. L’Inghilterra degli anni Trenta deve affrontare contemporaneamente due monumentali eventi, uno sul fronte internazionale, l’altro tra le mura di Corte. Innanzitutto, una guerra sofferta e impegnativa che s’affaccia sull’Europa e che coinvolgerà tristemente il mondo intero; poi, la morte di Re Giorgio V, avvenuta nel 1936, morte che pone urgente il problema di successione al trono in un momento storico particolarmente caldo. L’abdicazione del primogenito Edoardo VIII, dovuta a ragioni sentimentali incompatibili con il ruolo di futuro re, crea infatti un imbarazzante vuoto a Corte. Destinato al trono risulta, per discendenza, il secondogenito Albert, Principe e Duca di York, votato non solo a personificare l’impegnativo simbolo di una Nazione ma anche, e soprattutto, ad affrontare difficoltà psicologiche, trascinate sin dall’infanzia, apparentemente insormontabili. La prima vera grande battaglia che il giovane Principe dovrà vincere, quindi, è quella contro i suoi stessi limiti.
Albert, infatti, confidenzialmente chiamato Bertie, soffre sin da piccolo di balbuzie e, dopo aver inutilmente sperimentato terapie e consultato specialisti, sembra arrendersi all’idea di non poter affrontare il pubblico parlando con disinvolta scioltezza. L’amore e l’intuito della moglie Elizabeth, lo portano, però, ad accettare le cure di Lionel Logue, una sorta di guaritore d’origini australiane, esperto in terapie del linguaggio - come diplomaticamente si fa chiamare - il quale accoglie Albert come qualsiasi altro paziente, conquistando la sua riluttanza con una semplice prova. Gli chiede di leggere a voce alta un passo dell’Amleto mentre ascolta musica attraverso una cuffia e quando successivamente il Principe sentirà la registrazione della propria voce, scoprirà d’essere riuscito nella lettura in maniera sorprendentemente fluida. Lionel, con i suoi metodi poco ortodossi e la sua straordinaria empatia, intreccia così con Bertie un rapporto umano intenso e costruttivo, che va ben oltre l’asettica relazione tra dottore e paziente, e saprà anche farsi perdonare d’aver taciuto il fatto di non essere un vero medico. Con la sua sensibilità, dimostra al futuro Re - e non solo - che la terapia non ha etichette: sono il rapporto umano, la collaborazione e la forza di volontà congiunte di paziente e dottore, che determinano il successo di ogni cura.
“Io posso guarirVi – dice Lionel al Principe dopo il primo incontro – ma senza il Vostro impegno non otterremo nulla.” Lionel, da quel giorno, accoglie nel suo studio semplicemente un uomo, svestendo il futuro Re d’ogni corona e scettro, per relazionarsi direttamente con il piccolo Bertie, ovvero con le radici stesse delle sue sofferenze.
 
E’ a questo punto che s’accende l’anima del libro, laddove invece il film – a detta dei due autori - sembra spegnersi. Come in un gioco di specchi, le prospettive nel romanzo si ribaltano, pur restando armoniosamente intrecciate. Mentre il panorama storico e culturale, fatto di maschere, intrighi e guerre, sfuma impercettibilmente dai riflettori verso un affascinante controluce, in primo piano si dipana una vicenda umana delicata, conflittuale e pressoché sconosciuta, fatta di amicizia, rispetto e gratitudine.
“Balbuzie, pensateci un attimo …” ci hanno, a un certo punto, invitato a riflettere i due autori sul palco, uscendo così dalla trama del libro per dialogare con la sensibilità di tutti noi. Sembra un difetto apparentemente sciocco, quasi buffo. In realtà, quest’involontario inciampare nelle parole è invalidante per qualsiasi persona, nel momento in cui deve confrontarsi con il mondo e con la disinvoltura altrui. Un fardello ingombrante, a maggior ragione, per un bambino, un qualsiasi bambino, mira di facili derisioni spesso crudeli che possono innescare insicurezze e sofferenze emotive profonde e durature. Una malattia – perché la balbuzie è una malattia - ancora più gravosa per un giovane destinato a diventare quello che un’intera Nazione si aspetta d’avere: un Re. Un Re dev’essere forte, autorevole, sicuro di sé, dimostrare al mondo intero di poter guidare con fierezza il popolo alla vittoria, alla sicurezza e al benessere, perché Lui rappresenta le fondamenta e le aspirazioni di quella Nazione. Un Re deve saper comunicare tutto questo, attraverso i fatti ma anche attraverso la sua stessa presenza e i suoi discorsi e non può certo permettersi di tentennare ogni qualvolta apre bocca davanti ai sudditi riverenti e ai cinici nemici.
“La balbuzie, negli anni Trenta – ha spiegato il Dottor Caruso – è un difetto tanto eclatante quanto sfuggente, dalle cause ancora ignote e la logopedia non è riconosciuta come disciplina medica”. Tanto che il piccolo Bertie cresce avvolto da un pesante guscio di apparente riservatezza, o meglio di vergogna, da parte della famiglia e, soprattutto, di un padre severo, autoritario e inflessibile di fronte alle manifeste ‘deficienze’ di un figlio che non si sa come trattare. Bertie non è amato, né capito. “Allevato ed educato – ha continuato a raccontare il simpaticissimo Peter Conradi - in assenza d’affetto e d’incoraggiamento paterno, si convince presto che la sua esasperata timidezza sia dovuta a vere e proprie insufficienze intellettive, sprofondando ancor di più nell’insicurezza.” Così, mentre nel suo animo si affastellano ansie, dubbi e frustrazioni, fuori Bertie deve continuamente affrontare le pressioni sociali che gli vengono imposte. E’ costretto sin da piccolo a imparare tre idiomi contemporaneamente – il francese e il tedesco, oltre la madrelingua – impegno che certamente contribuisce non poco alla confusione interiore del Principe. Viene, inoltre, forzato a correggere il naturale approccio alla scrittura, essendo mancino, istinto evidentemente non gradito alla famiglia. Infine, deve sopportare il senso d’inferiorità rispetto al fratello di poco più grande, molto più agile e intraprendente rispetto a lui. Tutto questo scolpisce nell’animo sensibile del Principe profonde ferite, accentuando il suo difetto di pronuncia.
Oggi si sa che la balbuzie è dovuta a fattori genetici e che il tessuto familiare e il clima psicologico possono essere scintille scatenanti ma non determinanti della malattia. Oggi si sa anche come intervenire e, nonostante i molti ciarlatani, affabulatori di magiche ricette, esistono associazioni mediche serie che offrono cure certe e professionali. Il Principe Albert, invece, ha potuto contare esclusivamente sull’amore della moglie, la propria forza di volontà e la straordinaria guida di Lionel Logue. L’unico che ha saputo trattare la malattia come un problema fisico e non mentale, curabile quindi attraverso complesse tecniche di rilassamento muscolare, controllo del respiro ed esercizi di pronuncia, insieme a un intenso affiatamento emotivo e affettivo con il suo paziente.
A proposito di Lionel, quando Mark Logue, suo nipote, ha ripreso la parola, ci ha spiegato di non aver mai conosciuto il nonno, se non attraverso le lettere rinvenute, utilizzate poi per la stesura del libro e la messa in scena del film. “E’ stato emozionante, una vera avventura – ha raccontato – assistere alla ‘rinascita’ del nonno dopo tanti anni, oltretutto con una risonanza mediatica così straordinaria e inattesa. Le lettere sono tutte scritte a matita e ben tenute ...” Da esse trapela tutta l’intensità del profondo legame tra Lionel e il futuro Re, legame che li ha uniti oltre la terapia, fino alla morte stessa di Re Giorgio VI, avvenuta nel ’52. L’amicizia e il rispetto reciproco tra i due uomini ha creato anche un collante affettivo a Corte, tanto che la Regina Madre, dopo la scomparsa prematura del figlio, scriverà una lettera a Lionel per ringraziarlo personalmente per l’aiuto prezioso offerto al Re, uomo giusto e generoso. Del resto, durante il cammino terapeutico, Lionel è entrato a far parte della vita quotidiana della famiglia reale, trascorrendo le feste di Natale a Corte e affiancando Bertie in ogni occasione pubblica, prima come Duca di York, poi come Re Giorgio VI. Lionel è diventato un padre per lui e l’ha accompagnato nel suo cammino esistenziale, consapevole del fatto che, prima o poi, questo ‘figlio’ avrebbe imparato a camminare da solo.
E così è stato: il bambino insicuro è diventato, piano piano, uomo. E di quel ragazzo paralizzato davanti alle persone, ammutolito di fronte alla radio e fagocitato da qualsiasi platea, incapace di pronunciare quella parola così difficile “King” … quella “K” insormontabile come un macigno impossibile per lui da dire … ecco, di quel ragazzo non è rimasto che un pallido ricordo.
Re Giorgio VI è ricordato oggi per le sue riforme e la sua politica ed è ammirato per aver saputo condurre e rappresentare con orgoglio la sua Nazione. Il suo successo è coronato da un memorabile discorso rivolto ai suoi sudditi, pronunciato con dignità in piedi, dall’alto del suo potere, sostenuto dall’affetto sincero della moglie, delle figlie e, naturalmente, di Lionel Logue. E ora, grazie al libro “Il discorso del Re”, anche il piccolo Bertie è entrato a far parte della Storia, esempio di forza di volontà, di tenacia e di onestà d’animo, virtù senza le quali anche l’abile Lionel, forse, non avrebbe potuto essere d’alcun aiuto, né lasciare nel tempo un segno di sé.
“Mio nonno Lionel è sempre stato molto riservato nel suo lavoro e non ha mai confidato segreti professionali ad alcuno … - ha concluso Mark Logue, custode tra l’altro dell’Archivio dedicato al nonno - Non ha mai cercato di vendere la sua storia e quando già negli anni ’80 si parlava di mettere in scena un pezzo teatrale sulla vita di Lionel Logue, la Regina Madre s’oppose. Finché lei sarebbe stata in vita – questa è stata la volontà della Regina – nessuna messa in scena sarebbe stata concessa.” Infatti, sono trascorsi trent’anni prima di poter rendere pubblica la storia e farne un film. Film che è stato fortemente voluto dai registi, convinti, leggendo le carte di Logue, del fascino storico e scientifico di questa vicenda, tanto che molti diritti di esclusiva alla proiezione sostengono alcune comunità mediche inglesi e americane che si occupano di balbuzie. Ora, sull’onda di questo successo (il film è tradotto in 25 lingue) si stanno moltiplicando altri racconti più o meno romanzati attorno alla vita di Lionel Logue che, da pseudo medico, si sta trasformando in vero e proprio mito storico e mediatico.
Quella narrata ne “Il discorso del re” è, tuttavia, l’unica storia autentica. Ha sorriso, infine, quasi imbarazzato Mark Logue, raccontando tutto questo, incredulo forse di fronte a tanto clamore ma certamente fiero di un nonno che ha contribuito a far conoscere un inedito Re Giorgio VI al mondo.
La serata, animata da molte domande e simpatiche battute - nonostante la serietà dell’argomento – s’è conclusa con un’ultima provocazione da parte degli autori, curiosi di sapere se tra il pubblico ci fosse qualche logopedista desideroso di esprimere una sua testimonianza. Con mia sorpresa, un omone alto dai capelli folti e bianchi, s’è alzato proprio davanti a me e ha preso la parola, ringraziando profusamente gli ospiti e protraendosi in complimenti sinceri. Dopo di che si è presentato: “Non sono un logopedista – ha detto - bensì un balbuziente o, meglio, un ex balbuziente”. Mi ha colpito la disinvoltura delle sue parole, testimonianza viva della sua personale vittoria sulla malattia. Ascoltare il breve intervento di quest’uomo è stata l’ulteriore conferma di quanto questo libro racchiuda in sé molto più di una vicenda storica e di come gli autori siano riusciti a dare respiro a una dimensione psicologica sommersa, con una sensibilità e un rispetto rari, intrecciandola magistralmente al denso contesto storico.
“Mi raccomando – hanno concluso gli ospiti prima di salutare e lasciare il palco tra gli applausi – leggete il libro, perché se il film è bello, il libro lo è molto di più!”

Uscendo dalla sala con il libro sottobraccio, rimescolavo mentalmente pensieri e sensazioni e tra tutte vinceva la parlata spigliata di Peter Conradi che aveva fatto quasi da contraltare alla presenza più discreta e riservata di Mark Logue. Non so perché ma Conradi mi aveva trasmesso una spontanea simpatia con quel suo humor vagamente mediterraneo e mi son domandata, sorridendo, se sapesse dell’esistenza di un vecchio giornalino, famoso in Italia negli anni Quaranta. S’intitolava “Il Balilla” – qualche lettore non più giovanissimo lo ricorderà - e propagandava un’ostentata antipatia verso gli Inglesi in favore  della stima per i Tedeschi. Ebbene, una vignetta per niente ossequiosa nei confronti di Re Giorgio VI, che appariva tutte le settimane in prima pagina, esordiva così: “Re Giorgetto d’Inghilterra, per paura della Guerra, chiede aiuto e protezione al Ministro Churchillone …” Poi, seguiva, di volta in volta, un episodio di fantasia, in cui gli Inglesi risultavano immancabilmente degli sfigati, mentre gli Italiani erano sempre gli strafottenti vincitori, grazie naturalmente all’aiuto dei camerati tedeschi.
Ora, preferisco pensare che né Peter Conradi, né Mark Logue conoscano quello strambo giornaletto dei tempi che furono. Ciò che conta è che il loro bel libro ha dato nuova vita a un coraggioso sovrano, riscattandolo definitivamente da pittoresche leggende e irriverenti fumetti, restituendo così la sua regale dignità umana e il suo reale valore simbolico alla Storia.

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