martedì 11 settembre 2012

Il vecchio Leone di Wamba



Conosco un “Vecchio Leone”, si chiama Lngatuny Arary. E' con questo nome che una tribù Samburu ha voluto condividere la propria africanità con un uomo che africano non è ma che si dedica con coraggio e passione a curare gli abitanti di un villaggio molto povero, nel nord est del Kenya. 
Il “Vecchio Leone” è il dottor Oscar Sola, primario di ginecologia e mio caro amico che, insieme alla sua équipe medica di Legnano, lavora da oltre trent’anni come volontario in un ospedale missionario, situato nel distretto di Samburu, a circa 400 chilometri da Nairobi, in mezzo al nulla più assoluto. Qui si trova la culla del mondo, il luogo dove avrebbe avuto origine l’Uomo e, paradossalmente, questa è rimasta una delle zone più povere della Terra.

La popolazione, divisa nelle etnie Samburu e Turkana, appartiene ai Nilo-Camiti ma al ceppo originario si mescolano altre etnie minori, ognuna con la propria lingua, il che rende ancora più difficile la comunicazione tra loro e con gli stranieri. Essendo oltretutto nomade, per via dell’asprezza del territorio, questa gente non ha mai avuto il tempo per dedicarsi ad alcuna forma di cultura, costretta a migrare perennemente in costante lotta per la sopravvivenza.

Oscar, il Vecchio Leone, lavora qui, a Wamba, dove nel 1965 fu progettato il Catholic Hospital di Wamba, pensato e fortemente voluto dai Padri della Consolata. Non fu facile, allora, vincere le resistenze e ottenere le autorizzazioni del governo locale, che era inspiegabilmente ostile alla messa in opera del progetto umanitario, ma la tenacia dei padri missionari alla fine vinse. In pochi anni, sotto la direzione del Dottor Silvio Prandoni, medico missionario ma soprattutto uomo di grande generosità e forza di volontà, il progetto divenne realtà. Uomini di fede e uomini di scienza hanno unito le proprie energie in vista di un unico obiettivo: l’amore per la vita.

L’ospedale nacque inizialmente per curare malattie oculari, di cui la popolazione locale soffriva particolarmente. In seguito, superate le difficoltà burocratiche e le diffidenze culturali, la struttura si è via via ampliata fino a diventare quello che è oggi: un ospedale vero e proprio, esteso su 40 ettari di terreno, che offre ricovero e sostegno ad una popolazione di oltre 40.000 individui, destinati altrimenti a rimanere isolati da ogni contatto civile, umano e sanitario. 

All’inizio Wamba offriva appena venti posti letto ma era già una grande vittoria. Mancava completamente l’acqua e non c’erano né elettricità né strade. Da allora sono stati scavati due pozzi, recuperata l’acqua piovana e trattate le acque nere; sono stati acquistati quattro generatori diesel, sufficienti a far funzionare l’intero complesso; e nell’arida savana sono state ricavate strade abbastanza praticabili, almeno dalle jeep. Solo chi conosce l’Africa e le sue misteriose contraddizioni può immaginare le difficoltà che si sono dovute superare per raggiungere simili obiettivi.

Oggi Wamba ospita duecento posti letto. Ha un efficiente ambulatorio, diverse sale operatorie, un servizio di day hospital, un reparto maternità con sala parto e asilo nido, reparti d’infettivologia, ortopedia, chirurgia, con relativa palestra per la riabilitazione e la rieducazione. Questa struttura ha praticato il trapianto della cornea ancor prima che fosse diffuso in molti paesi italiani e la sua collaudata Scuola per infermiere avvia anche gli abitanti del villaggio alla professione medica e infermieristica. Il personale specialistico è sempre stato fornito dal volontariato e gran parte del sostegno economico è frutto di beneficienza e donazioni. 

Si chiamano “Amici di Wamba” – tra loro il Dottor Oscar Sola - i medici professionisti italiani che sacrificano ogni anno alcune settimane di lavoro retribuito, per portare qui il proprio prezioso contributo, sempre gratuitamente. E’ grazie alla loro generosità che le cure in quest’ospedale sono sempre state garantite a chiunque ne avesse bisogno, anche ai pazienti indigenti. Ed è grazie al loro impegno che moltissimi bambini orfani possono avere una vita dignitosa, anche attraverso le adozioni a distanza.

La storia di Wamba è ben documentata anche in rete, con dettagliate informazioni tecniche che rendono perfettamente la misura della struttura e la qualità dei servizi. Ciò che, invece, è impossibile trovare in alcun documento è tutto quello che sta racchiuso dentro il cuore di chi ha visto nascere l’ospedale e dei volontari che vivono e lavorano nel villaggio: umanità, passione, paure, frustrazioni, soddisfazioni e speranze di uomini e donne che con il loro aiuto hanno saputo trasformare un sogno in realtà, cambiando il destino di molta gente. 

Invisibili macigni di emozioni che brillano come lucciole negli occhi di Oscar, il Vecchio Leone, mentre, seduta di fronte a lui nel suo studio, gli chiedo di parlarmi di Wamba, a modo suo, perché vorrei provare a raccontarlo attraverso le sue impressioni e le sue emozioni. 

Nel suo sguardo vedo scorrere le immagini che la sua voce calda e pacata fa vivere anche a me. Vede lontano lui, il Leone. E io lo seguo: a caccia di facoceri nella savana, insieme agli amici missionari, con cui spartirà la preda a tavola, la sera, ricordando con soddisfazione la fatica fatta per catturarla; salgo con lui verso il nord, con la jeep che arranca verso il lago Turkana, il mare di giada, con le sue rocce lunari e il caldo infernale che ti toglie il fiato; lo guardo giocare con i bambini della sua tribù, tra i cespugli rigogliosi delle buganvillee, tutte accese di colori, a ridosso della terra brulla; lo spio dentro la sala operatoria, con il fiato sospeso, mentre invoca silenziosamente tutta la concentrazione di cui è capace, per poter compiere l’ennesimo piccolo miracolo; e lo accompagno nel suo alloggio, infine, la sera tardi, stanco, ma con l’inesprimibile soddisfazione d’essere stato ancora una volta utile in questa meravigliosa culla d’Africa, troppo spesso dimenticata dal mondo o ricordata solo per i suoi eterni drammi. 


Ascolto Oscar rapita, non ho nemmeno bisogno di prendere appunti perché le sue parole scolpiscono la mia mente animandola di bellissimi fotogrammi colorati. Vedo il saggio che c’è in lui, proprio come fosse un vecchio leone a capo del suo branco, eppure nel suo modo di ricordare e di raccontare trapela la purezza di un bambino, una semplicità che mi commuove. Guardo le sue mani, quelle mani miracolose che salvano vite, dispensano carezze, restituiscono sorrisi e consolano lacrime. Eppure, mentre seguo il suo racconto, penso che il vero dono di quest’uomo sia altrove, invisibile, perché è racchiuso dentro la sua anima tenace, generosa e umile. 

Un velo di tristezza cala sul suo viso, proprio mentre mi racconta di come i Samburu lo hanno accolto nella loro comunità, battezzandolo Vecchio Leone, facendolo così rinascere africano e quindi degno di appartenere alla tribù. Rispondendo al mio silenzioso stupore, Oscar mi spiega con un sorriso malinconico che questa è l’Africa e questo è sempre stato lo spirito di Wamba: la savana infuocata, gli acquazzoni improvvisi, gli scorpioni tra i piedi e dentro il letto, le capanne di paglia e fango. “Persino la chiesa è una capanna”, mi dice raccontandomi di una delle missioni cui lui è particolarmente affezionato, Sererit. Ma, soprattutto, Wamba è la sua gente, persone da capire, da rispettare, da conquistare con la fiducia e con l’onestà. Fino a qualche anno fa, quando calava il buio sul villaggio, si sentivano solo i ruggiti dei leoni, il canto degli uccelli, i tamburi dei Samburu e il tintinnio degli ornamenti delle donne che cucinavano e accudivano i bambini. La campana della chiesa era l’unica voce di civiltà in mezzo a quel coro libero e selvaggio. La sveglia era annunciata dall’alba che, con i suoi colori, bussava alle porte accendendo una nuova giornata di lavoro e sacrificio ma anche d’impagabili soddisfazioni umane. Oggi, ormai, gli alloggi dei medici hanno persino la tv, tanti sono i progressi che sono stati fatti in questi anni. 
Ecco da dove nasce la malinconia del mio amico Leone! 

“Ho paura che Wamba diventi un ospedale “normale”, come i nostri, con tutti i suoi vantaggi ma anche con tutte le difficoltà della burocrazia ” mi confessa Oscar, con un’aria di rassegnato rammarico, come quella di un padre che dopo aver cresciuto ed educato con amore un figlio sa di doverlo lasciare andare al proprio destino. 
“E’ per questo – prosegue – che appena posso scappo via, in foresta, nella missione di Sererit, o sul lago Turkana, nella missione di Loyiangalani, dove ritrovo la mia Wamba, quella degli anni 70.” 
Sì, perché recentemente l’ospedale di Wamba ha visto subentrare una società no profit, Wamba e Athena onlus, e anche se la tradizione umanitaria verrà rispettata, gli interessi economici in gioco potrebbero diventare sempre più forti e corrompere lo spirito caritatevole con cui la struttura era stata progettata. Sicuramente nulla cambierà nella sua efficienza, anzi, gli obiettivi per il prossimo futuro sono ambiziosi. Ma quale sarà lo spirito che animerà d’ora in poi i suoi uomini, i medici, le infermiere, i tecnici? Saranno anche loro davvero “amici di Wamba”? 

Chi ha visto il leone ruggire corre più veloce di chi l’ha soltanto sentito, dice un proverbio di queste parti. Il timore di Oscar, e di chi ha visto crescere Wamba, è che con il cambio di gestione si rischi di dimenticare la sua anima più profonda. Chi verrà a lavorare qui per la prima volta non capirà, forse, il valore di un’opera così immensa nata dal nulla: solo deserto, diffidenza e tanta povertà. E soprattutto dovrà imparare a conoscere la sua gente. Il combustibile per continuare far girare al massimo questo motore viene dal cuore, non dai muscoli, perché è fatto di generosità, sacrificio e umiltà, non solo di denaro e tecnica. Speriamo che il leone, con il suo ruggito, sappia farsi conoscere e rispettare, anche da chi non l’ha mai guardato negli occhi.

Chiedo a Oscar quando tornerà la prossima volta a Wamba e glielo domando con voce emozionata e con la segreta speranza che mi renda complice di altre fascinose notizie sui suoi futuri programmi africani. Invece, il Vecchio Leone mi guarda con un sorriso dolce, cogliendomi di sorpresa: 
“A maggio… Vorresti venire con me?”
L’invito mi travolge come uno tsunami. In una frazione di secondo, immagini meravigliose e commoventi squassano la mia mente: la savana, il lago di giada, i sorrisi dei bambini, i fieri Samburu e l’ospedale miracoloso che ridà vita e speranza. Sto per rispondere un entusiastico “Sì” quando, in un flash, ripenso agli scorpioni dentro il letto e a tutte quelle ridicole paure di cui mi vergogno e che forse non saprei affrontare. Così, quasi in un sospiro, riesco appena a sussurrare: 
“Sarebbe meraviglioso, chissà … ” 
Saluto Oscar, abbracciandolo forte, con la speranza che possa sentire tutto il mio affetto e la mia infinita ammirazione. Uscendo dallo studio, ho ancora in mente lo sguardo dolce e fiero del mio generoso amico, al confronto del quale mi sento come una piccola gazzella impaurita. 
Il suono di un clacson perentorio vorrebbe riportarmi alla grigia realtà del traffico cittadino ma con la mente io mi trovo già laggiù, a Wamba, senza dubbi e senza paure, accanto al mio coraggioso Vecchio Leone.

lunedì 10 settembre 2012

Gli ormoni della felicità



Immaginate un bambino nato e cresciuto nel Giappone degli anni ‘40. L’educazione tradizionale estremamente rigida cui è stato sottoposto, prevedeva che venisse regolarmente legato ad un albero in un bosco per un giorno intero;  che restasse solo di notte in montagna a contemplare le stelle; che giacesse a lungo sotto una cascata gelida fino a perdere i sensi; che digiunasse per una settimana con il permesso di bere solamente acqua. E molto altro ancora.
Non stupitevi. In Giappone, questi sono stati a lungo esercizi d’ordinaria amministrazione, con cui introdurre i bambini alle pratiche ascetiche. Lacrime e smarrimento sarebbero destinati a tradursi progressivamente in forza interiore e gioia di vivere.
Uno di questi eroici bambini si chiama Shigeo Haruyama. Protagonista ed erede di queste tradizioni, è nato a Kyoto nel 1940 da una famiglia fortemente imbevuta nell’arte medica orientale e, oggi, è uno dei medici giapponesi più affermati nel mondo. Chirurgo, esperto di agopuntura, moxa, shiatsu e direttore di una clinica di successo dedicata alla salute psicofisica e alla prevenzione dell’invecchiamento, il Dottor Haruyama è anche uno scrittore dallo stile gentile ed essenziale, in perfetto stile nipponico. Con il suo libro più recente, “La rivoluzione della salute”,  di Macro Edizioni, ha venduto oltre 5 milioni di copie solo nel suo paese.
I segreti del successo professionale di quest’uomo trapelano da queste pagine che mescolano piacevolmente vivaci aneddoti sulla sua vita personale e insegnamenti pratici volti a sconfiggere lo stress e mantenere a lungo un cervello attivo in un corpo altrettanto longevo e sano. Il Dottor Haruyama intreccia le antiche discipline orientali con i metodi diagnostici occidentali più all’avanguardia, per curare e guarire non solo chi già soffre ma anche i mibyo, che in giapponese significa chi non è non ancora malato.
Come curare, dunque, i mali della vita moderna e come prevenire i danni che lo stress provoca? La terapia del dottor Haruyama si basa sui cosiddetti ormoni della felicità. Non si tratta di elisir magici ma di sostanze chimiche spontaneamente secrete dal nostro cervello che suscitano in noi sensazioni piacevoli e appaganti, vere e proprie morfine cerebrali. Se ne conoscono almeno venti ma i principali sono l’adrenalina, la noradrenalina, la beta-endorfina e l’encefalina. La liberazione di questi ormoni dipende dall’atteggiamento interiore con cui si affrontano le situazioni e ci si relaziona alle persone. Banalmente detto, avere buoni pensieri, scatena buoni ormoni.
Questa formula sembra essere scientificamente dimostrata, almeno per ora, e il Dottor Haruyama la sfrutta prescrivendo ai clienti la sua ‘confezione tripla’: alimentazione, movimento e meditazione. Una corretta alimentazione per liberare le endorfine; un equilibrato movimento per sviluppare i muscoli; la meditazione per stimolare le onde alfa che albergano nell’emisfero cerebrale destro, responsabili del senso di rilassatezza e beatitudine.
Una simile rivoluzione psicofisica, presupposto per vivere a lungo in salute, non è un miraggio e si ottiene praticando esercizi molto più godibili (anche per chi non è masochista) del digiuno forzato e della sottomissione al gelo di una cascata. Leggendo questo libro, troverete perciò qualche buon consiglio su come aspirare alla veneranda età di 125 anni in gran forma psicofisica. Inoltre, scoprirete perché gli intellettuali e gli amanti dell’amore fisico sembrano essere decisamente avvantaggiati in questo lungo cammino che pare non avere limiti nella ricerca del piacere.
Attività intellettuale e sano sesso sono, infatti, gli ingredienti indispensabili per arrivare al traguardo colti, appagati e felici. In una parola, vivi!

Sex and the City



Chi ha detto che la filosofia debba discettare solo di concetti elevati e profondi? Ogni cosa, in realtà, merita d’essere discussa, persino una serie televisiva. Poiché è molto più difficile scrivere a proposito di un telefilm, che non commentare Platone.
Questa è l’idea di Susanna Mati, filosofo e insegnante di Estetica, che si destreggia con disinvoltura tra i simboli della mitologia più classica e la mondanità di una commedia americana. In questo saggio di Moretti & Vitali, Sex and the City – la nota fairytale che vede come protagoniste quattro amiche in una New York raffinata, colta e sentimentale - si spoglia d’ogni maschera patinata e mostra la sua nuda anima. Così, nelle mani di Susanna Mati, l’effimero divertissement si traduce in un’eloquente favola postmoderna e postfemminista, i cui fili conduttori sono i miti antichi dell’esistenza e non i capricci di quattro affascinanti quasi quarantenni. Dietro a Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte emergono l’Eros, il Fato, l’Anima, il Tempo, quegli archetipi che appartengono a ogni essere umano, che scatenano a loro volta i grandi dilemmi dell’esistenza: l’amore, l’amicizia, la solitudine, i rapporti con il sesso, con la politica e la religione, la libertà e la responsabilità di scelta. C’è poco da fare: le idee mitologiche non muoiono mai. Diventa facile, allora, intuire il successo della serie televisiva: cosa ci accomuna, nonostante le abissali differenze caratteriali e ambientali, alle quattro esuberanti amiche? Queste donne moderatamente istruite, moderatamente in carriera, moderatamente fiere solitarie; queste donne che non sono assolutamente come gli uomini le vogliono; queste donne che non conoscono la fatica, i lavori di casa, che non spingono mai un carrello della spesa, non fanno la coda in posta, all’anagrafe o in banca; queste donne drogate di shopping e alate di sogni impossibili; queste amiche che si rivelano più forti dell’odiato-amato archetipo maschile, persino nei momenti di disincantata fragilità, così unite tra loro eppure, alla fine, immancabilmente sole, ognuna con la propria evanescente libertà; cos’hanno a che fare queste quattro farfalle colorate con le donne vere? E’ l’eterna ricerca romantica, con le sue sfumature sentimentali ed erotiche ma anche ciniche e comiche, a cucire il pathos irresistibile tra le protagoniste della favola e quelle della vita, che s’incontrano in ogni puntata condividendo sogni e delusioni, speranze e frustrazioni. Il gioco tra i due mondi, quello romatico-ideale e quello cinico-reale, è deliziosamente riassunto persino nella sigla della serie televisiva, in cui una caramellosa Carrie, vestita da vaporosa bambola, viene brutalmente infangata dall’acqua di una pozzanghera al passaggio di un autobus. L’umiliante schizzo evoca un brusco richiamo alla ruvidità dei rapporti umani e, contemporaneamente, suggerisce il tragicomico fallimento delle favole di fronte all’inevitabile realtà. Forse proprio per questo, la quest romantica, che riassume in sé tutti i simboli mitologici dell’esistenza, non può durare in eterno. Persino le quattro eterne fanciulle, alla fine della serie, stanno per diventare qualcos’altro, come se, forse, non fossero mai state davvero farfalle ma solo crisalidi sulla soglia di una metamorfosi senza possibilità di ritorno. Valeva la pena, dunque, sognare e rincorrere a perdifiato ciò che è destinato a sfuggire sempre alla presa? Susanna Mati ne è certa: “Amica che hai tanta voglia di correre, che balli da sola di fronte allo specchio, che t’inventi il meglio perché il meglio esiste … amica cerca l’ago nel pagliaio: essere felici e libere è possibile. E poi succeda quel che deve succedere, tanto nella vita – che dura un lampo – non si fa altro che correre incontro al proprio destino.” 
Dopo tutto, è vero: non solo nelle favole come Sex and the City, ma anche nella realtà, ogni crisalide si trasforma sempre, prima o poi, in una bellissima farfalla. Almeno per un giorno.

I poveri non ci lasceranno dormire



C’è chi i libri li scrive e chi, prima di scriverli, li vive.
E’ il caso di Alex Zanottelli - missionario comboniano e teologo, nato nel 1938 in Val di Non - che con il suo libro “I poveri non ci lasceranno dormire” (Monti Edizioni) dà voce a un’Africa scomoda e indigesta alle nostre affaccendate coscienze. Un’Africa spesso abbandonata a se stessa ma non sempre e non da tutti, come le pagine di questo diario di vita vissuta raccontano.
“E’ incredibile vedere gli incontri che facciamo nella nostra vita, scoprire quanto sono importanti, capire che di sicuro c’è qualcuno che tira i fili, anche se non comprendiamo mai il come e il quando.” Così scrive quest’uomo di fede e d’azione che oggi vive a Napoli, nel Rione Sanità, perché anche lì c’è bisogno di lui. Il suo darsi ai poveri comincia lontano, in Sudan, e ha proseguito incessante mescolando all’opera umanitaria quella d’informazione, attraverso la rivista Nigrizia, un mensile sociopolitico dedicato all’Africa. Nel ’90, Padre Alex (viene spontaneo chiamarlo per nome dopo aver letto le sue parole) si trasferisce a Korogocho, una delle baraccopoli più reiette ed emarginate del Kenya, costruita attorno a una discarica a cielo aperto. E’ a questo mucchio di baracche e alla sua gente dimenticata dal mondo che sono ispirate le pagine di questo libro.
Il primo immenso problema dei centomila abitanti di Korogocho – spiega Padre Alex - è la terra, gestita dalle contraddizioni del governo centrale. Pochissimi sono proprietari della propria baracca, che si risolve in un minuscolo tugurio il cui solo lusso è rappresentato, talvolta, dalla turca. Fame, sete e aids sono le altre falci quotidiane. Il cinquanta per cento degli abitanti è sieropositivo e, mentre il governo kenyota chiude gli occhi sul dramma del virus, Padre Alex ogni giorno vede chiudersi per sempre gli occhi di giovani uomini e donne divorati da dolori e sofferenze atroci.
Eppure, è proprio qui che avvengono i miracoli. Nel girone delle fogne, dove i bambini abbandonati a se stessi arrancano smarriti tra prostituzione e violenze incomprensibili, logorati da fame e sete, avviene paradossalmente l’incontro con la vita. Qui s’impara a vivere con dignità, costruendo la speranza del futuro sui rifiuti dei ricchi. Non solo grazie alla carità e alla compassione ma anche alla forza di volontà e al coraggio di persone come Padre Alex. Negli occhi di questi poveri splende una luce che arricchisce, contagia e plasma. Ma ci si deve mescolare a loro per capire, ci si deve sporcare per sentirsi puliti, proprio come ha fatto lui. I poveri rivelano la verità, perché i più lontani dal centro del potere, sono i più vicini al cuore. E’ facile spezzare ostie ma è duro lasciarsi mangiare dalla gente. Talvolta ho la febbre alta ma non posso fare altro che alzarmi e ascoltare. Questo per me significa lasciarmi mangiare. Per la prima volta comincio a sentire che mi sto convertendo, perché i poveri mi convertono!
Se è vero che la vita è fatta d’incontri, anche grazie a un libro come questo si può incontrare una persona e, attraverso di essa, un’altra faccia dell’umanità. Lasciamoci contagiare, dunque, dal messaggio di Padre Alex: il grido dei poveri è immane e sale dall’intero globo, è impossibile non sentirlo, a meno che non si sia morti dentro.
Il peccato più grave della nostra società è di restar sordi, imprigionati nel sonno torbido dell’indifferenza. Ma i poveri non ci lasceranno dormire tanto facilmente. Il loro soffocato grido continuerà inesorabilmente a graffiare i nostri cuori fino a farli sanguinare, pugnalando il nostro egoismo con semplici parole, quelle di Gesù: se la tua vita la tieni per te, sei morto

La mente in fuga



Insieme all’amore, la più antica e potente emozione umana è la paura. Se ai misteri del primo, piacevolmente ci abbandoniamo, ai turbamenti della seconda spesso soccombiamo.
Vito Covelli, medico e docente di neurologia, nel suo libro La mente in fuga (Schena Editore) analizza le paure moderne. Quelle, cioè, non direttamente connesse al corpo e alla sopravvivenza ma all’anima e alla percezione di sé in relazione agli altri, in una società sempre più vuota di valori profondi e condivisi. Paura di non essere all’altezza, di fallire, di restare soli, di non saper controllare la propria ansia e le proprie reazioni emotive di fronte alle aspettative familiari e professionali. Fino alla ‘paura della paura’ - ovvero l’ansia anticipatoria delle crisi fobiche o degli attacchi di panico – una sofferenza psicofisica che può rendere invalidante le azioni più semplici della vita quotidiana. Questi malesseri sono sempre più frequenti e coinvolgono ogni età. Possono maturare nel silenzio di un’infanzia non sempre serena e restare latenti, oppure improvvisamente esplodere in età adulta, scatenati da eventi esterni che possono alimentare un pericoloso cortocircuito.
Capire come funziona la nostra mente per alleggerire la nostra anima: è questo l’invito del libro, che sintetizza alcune attuali teorie neuroscientifiche e psicologiche, passando attraverso brevi pennellate di alcune esperienze di pazienti reali. Se la terapia farmacologica cura il sintomo, non elimina la causa, per questo è saggio rivolgersi a psicoterapeuti adeguati, senza timore di confessare le proprie fragilità. Dopo tutto siamo ‘solo’ esseri umani, non super eroi e talvolta sono proprio i bambini, con la loro semplice ingenuità, a rammentarcelo. Come la bambina, citata da Vito Covelli, che prima di andare a letto, chiede alla mamma: “Perché io che ho paura del buio devo andare a letto da sola nella mia stanza e tu, che sei grande e non ti spaventi del buio, devi dormire con papà?
Ecco: forse, anche imparare a fare bene i genitori è un passo cruciale per crescere degli adulti forti, consapevoli e meglio equipaggiati ad affrontare con successo le proprie paure.

Il Satiro e la luna blu



E' un filo invisibile quello che tesse le nostre vite. Cuce una rete di serendipici incontri, che possono talvolta nascere anche da un libro.
Leggendo “Il satiro e la luna blu” (Moretti & Vitali) è facile entrare in magico contatto con l’autrice. Carla Stroppa - psicoanalista junghiana, autrice di numerosi saggi e del libro “La luce oltre la porta” - utilizza un linguaggio dell’anima, poetico e lunare, che corteggia quel sentiero mito-logico caro ai poeti e ai fanciulli. Con passione e sorveglianza, approfondisce il tema dell’analisi e della relazione transferale, quell’alchemico rapporto che intreccia analista e paziente in un reciproco contagio psichico. Il lettore è preso per mano e accompagnato dietro le quinte della psiche, per scoprire il meraviglioso teatro dell’Anima fatto di sogni, di miti e di archetipi.
Il libro è dedicato ad Alma, una giovane donna, che al contempo rappresenta la condizione esistenziale di tutte le donne alla ricerca di se stesse. “Sto male, sto molto male dottoressa ma non so da che parte cominciare, non so come parlarne.” Così, con gli occhi colmi, Alma bussa alla porta della speranza. Senza orizzonti, si presenta piena di sogni che echeggiano un vissuto costellato di vuoti e delusioni. Orfana di affetti autentici e di specchi fedeli in cui ritrovarsi, Alma è tuttavia una donna intelligente, lirica, dal cuore immaginativo. Sarà proprio il suo cuore visionario a permetterle di rinascere come donna e come artista, grazie all’aiuto dell’amore e del rigore transferale.
Non potrebbe, dunque, essere ognuno di noi, Alma? Tutti abbiamo un’Anima e in ognuna zampilla qualche goccia di lirismo, magari celato per timidezza o incredulità, eppure c’è ed è linfa vitale. Individuare il proprio posto nella scena del mondo può diventare il problema di tutta un’esistenza, soprattutto oggi, in cui oltre ad essere spesso orfani d’affetti lo si è anche di ideali e di obiettivi. L’analisi serve anche a questo. Il problema è che l’Anima sorge sempre dietro l’Ombra e per incontrarla occorre varcare quella soglia oscura e spingersi sino al punto in cui essa lascia trasparire una luce inedita. Occorre affrontare il Satiro, il briccone malandrino, non per scacciarlo ma per conoscerlo e sposarlo. Carla Stroppa ci invita a guardare negli occhi il Satiro senza vacillare, per avvicinarci alla Luna. Luna che è blu, il colore che separa il nero della depressione dal bianco della rinascita, come scrive Hillman. Per ciascuno, il percorso coincide con la riscoperta degli dei e delle dee di cui è figlio. Non ci si può trasformare in qualcuno che non si è. Si può, tuttavia, diventare se, aprendosi alla visione della Luce oltre la porta chiusa dell’Io meramente razionale. Solo attraverso questa ricomposizione psichica, l’Anima personale può trascendere se stessa per ricongiungersi all’Anima mundi, quella dimensione grandiosa che restituisce a ognuno il proprio spazio nel mondo.
Leggendo Il Satiro e la Luna blu, entrerete in un mondo magico ma reale. Non abbiate timore di scivolare dentro voi stessi. Affrontate con candido stupore questo viaggio solitario per scoprire quant’è veritiero il linguaggio dei sogni. E non sorprendetevi se sentirete d’un tratto una voce nel cuore: potrebbe essere il fanciullo che c’è in voi, da tempo addormentato nei silenziosi abissi della vostra Anima.

Mille baci, due corpi, un'anima



Il bacio non si dà. Si scambia.
“Dammi mille baci, e poi cento, poi altri mille e poi ancora cento. Ancora un secondo centinaio, e poi ancora mille. E infine, quando ne avremo raccolti mille e millanta, li mescoleremo tutti fino a non poterli più contare, perché nessuno ce li possa rubare.”
Così Catullo travolge la sua Lesbia in un’onda fremente di baci incontenibili, stemperando l’impeto erotico in un raffinato velo romantico.
Cosa c’è di più sensuale di un bacio tra due innamorati?
Che sia pudico o lascivo, garbato o sfacciato, mieloso o focoso, il bacio è un piacere fuggente che si fa eterna promessa, un sussurro uterino che fa tremare le carni e vibrare le menti. E’, semplicemente, l’amplesso di due afflati disgiunti, finalmente riuniti nell’anelato sposalizio con se stessi.
Irrimediabilmente, quindi, dopo un bacio lento, denso e profondo, non si sarà più la stessa persona. Perché attraverso i rivoli odorosi delle labbra che si sfiorano, che si cercano e si trovano, i corpi di due innamorati rinasceranno insieme in una nuova anima, attraverso una guizzante risonanza di fragranze amorose.
E’ così che si può rinascere insieme mille, poi cento, poi altre mille e poi ancora cento volte ...
Una per ogni bacio scambiato.