martedì 25 settembre 2012

Pittori di parole


Lo scrittore scrive sempre le pagine del suo libro
in bianco e nero.
E' il lettore che le colora una per una,
con l'arcobaleno delle sue emozioni.

lunedì 24 settembre 2012

domenica 23 settembre 2012

La geisha e il gladiatore



Esistono luoghi che offrono ai viaggiatori la possibilità di esplorare non solo lo spazio ma anche il tempo. Sono luoghi magici, microcosmi metafisici, in cui la storia respira e il passato si rianima nel presente, attraverso una misteriosa alchimia memoriale, che mescola fatti, pensieri ed emozioni.
Il luogo che, per eccellenza, invita a viaggiare attraverso i secoli, trascendendo la memoria dell’Umanità, è Roma. Città stregata che strega, con i suoi quasi tremila anni di vita sfoggiati con orgoglio, come una bella donna potrebbe esibire fiera il proprio corpo usato e abusato da migliaia di amanti e spudorati stupratori ma sopravvissuto miracolosamente intatto, per sempre verginale.
Vagabondando per le strade di Roma provo ogni volta la sensazione di addentrarmi in un immenso teatro: lo specchio di Merlino, le colonne di Salomone, la statua parlante, i tesori di Ottaviano, i banchetti di Trimalcione, i Papi peccatori, il Belli e Trilussa, Fellini e la Dolce vita … i sette vizi capitali! Ogni scena mi cattura, mi prende per mano e mi accompagna inesorabilmente verso l’atto successivo, attraverso un labirinto popolato di fantasmi e demoni, santi e cavalieri, imperatori e pellegrini, martiri e meretrici.
Ecco cosa diventa Roma in questo caleidoscopico teatro: la più grande meretrice di tutti i tempi, la sfacciata corruttrice, la tenutaria di lussuriosi bordelli, l’irresistibile seduttrice. Ogni passaggio attraverso le sue strade somiglia a un’iniziazione, che accosta l’umano al divino e la profanazione dei suoi segreti può condurre alla salvezza oppure alla perdizione.
Perdermi. Io ho scelto di perdermi e lasciarmi definitivamente corrompere dalla sua bellezza, dalla sua esuberanza, dai suoi eccessi. Tutto è esagerato a Roma. Visitarla è, per me, come aggirarmi in uno straordinario bordello composto di infinite stanze piene d’arte, di preziosi, di antiche memorie, di angoli misteriosi e di continue sorprese. Un luogo magico in cui amo perdermi e dove ogni mio piccolo desiderio viene anticipato e assecondato. Eccomi in un vicolo in penombra, pieno di piccole botteghe e, subito dopo, un’immensa piazza assolata; volto l’angolo a ridosso di una basilica ed ecco che mi accoglie una splendida fontana con i suoi mirabolanti giochi d’acqua spruzzati via dal vento. Torri e obelischi irrompono nello spazio e si ergono come paladini della città: sembrano dita puntate verso il cielo, quasi a volermi indicare quale sarà l’ultima, inevitabile tappa del mio instancabile peregrinare.
Roma è generosa, si offre senza ritegno e si dona senza risparmio. E’ meretrice ma non fa mercimonio di sé, perché non vende la sua Anima. Roma non cerca clienti, non ne ha bisogno, perché sono loro a gettarsi tra le sue braccia, ammaliati e famelici. E lei accoglie tutti, indistintamente. Convinti di rubare piaceri proibiti, i viandanti s’illudono di poter possedere la gran Dama quando invece è lei a possedere loro.
Me ne accorgo osservando, dall’alto della scalinata di Trinità dei Monti, il fiume di gente brulicante che si accalca in maniera impressionante in Piazza di Spagna, spaccandosi in due fitti rami, per via Condotti e Via Frattina. Del resto anche nella città eterna il presente conta: l’anno nuovo è appena iniziato e i saldi dei negozi, ancora addobbati a festa, ipnotizzano la gente impazzita e bulimica. Mi sembra di osservare due lunghi tentacoli di formiche serpeggianti, che si dipanano lente, inesorabili, a caccia di chissà quale preda o, semplicemente, cieche, sospinte solo dal flusso che preme alle spalle, distratte dalla vera bellezza che sta altrove, nelle chiese, nei palazzi, tra gli affreschi e le sculture. Quei minuscoli organismi penetrano nelle vene e scorrono nel sangue di un Essere altrettanto vivo, palpitante, che prima li accarezza, poi li coccola e, infine, li divora risucchiandoli come linfa vitale, rendendoli per sempre parte di sé.
Da quassù ho l’impressione che in mezzo a tutta quella folla vorace mi mancherebbe l’aria e tiro un sospiro di sollievo, gustando a fondo l’aria fresca che sa di primavera. Ho camminato tutto il giorno, eppure ho la sensazione di aver volato e di aver goduto di un panorama privilegiato, solo mio, in compagnia di una misteriosa guida alata che mi confidava all’orecchio tutti i segreti e i vizi di Roma. Mi ha accompagnato dal Gianicolo al Pincio, da Piazza del Popolo a Trastevere, conducendomi leggera sopra a San Pietro, per poi farmi planare piano sul Pantheon e riprendere un poco fiato tra le fontane di Piazza Navona, prima di sorvolare i Fori, il Colosseo e ricondurmi infine con i piedi per terra.
Sono atterrata felice, inebriata. Sorrido al tiepido sole, che gioca con le illuminazioni del grande albero di Natale sovrastante la scalinata di Trinità dei Monti e ascolto i gorgheggi dei gabbiani che, dal cielo, si prendono beffa di tutti noi, piccoli esseri alla mercé della Natura, dell’Arte, della Bellezza, della Storia e di un’Eternità che non ci apparterrà mai.
Capisco, all’improvviso, chi teme Roma. Capisco chi la fugge, la evita, la critica e la insulta. Impossibile resisterle, meglio quindi rifiutarla prima d’esserne catturati per sempre, imprigionati dentro la sua meravigliosa rete. Non sapete cosa vi perdete – dico tra me e me - pensando a un collega del Nord che quando capita a Roma per lavoro vi resta il minimo indispensabile (guai passarci la notte!) per paura d’essere scottato, contagiato dalla vitalità dei suoi abbracci e inghiottito dal calore della sua gente.
Io sono invece un’anima perduta, ormai. Riprendo il mio cammino senza alcuna voglia di salvarmi, beatamente controcorrente. Il vento di ponente mi sospinge vivace su, verso Villa Borghese dove, a spasso nel verde, riesco ancora a distinguere, tra tutti gli idiomi del mondo e i dialetti d’Italia, il vero romanesco, gagliardo e fiero. Mi piace, lo assaporo come potrei fare con un boccone goloso. All’uscita dal parco, le luci dei lampioni fanno sembrare la sera ancor più buia ma la luna è già in agguato a sfidare la notte. Scendo lungo il muro Torto, proseguo per Piazza Del Popolo, Via Del Corso, Piazza Venezia e di nuovo in Via Dei Fori Imperiali dove, per caso, intercetto un discorso divertente tra un bel gladiatore e una giovane turista giapponese. Non posso fare a meno di fermarmi ad osservarli, mi sembra di assistere alla scena di un film di Alberto Sordi! Lui: un Russel Crowe armato di tutto punto, lucido e piumato, sguardo truce, voce rauca e tenebrosa.  Lei: una geisha in miniatura, cerimoniosa e pallida, armata di zainetto e di una macchina fotografica superaccessoriata, sproporzionatamente grande rispetto alla sua esile figura. Alla sua timida richiesta di ritrarre il combattivo giovane, pronunciata da una vocina in perfetto inglese, l’ardito gladiatore le propina svelto la tariffa, naturalmente in perfetto romanesco:
Sò cinqu’euro a scatto.”
Sorry, I have only 50 …” replica lei visibilmente imbarazzata, facendosi ancor più piccola di fronte all’imponente guerriero dalla voce tuonante.
Nun te preoccupà, che ciò er resto…. dà qua!” ribatte pronto lui, sfoderando non la spada ma un bel mucchietto di soldi, tenuti “alla benzinara” come dicono da queste parti. Quasi ipnotizzata, la piccola geisha consegna il biglietto da cinquanta euro al gladiatore che lo infila tra gli altri, dandole 40 di resto.
Daje, co’ dieci euri te faccio fà tre scatti e puro co’ er Colosseo e te vicino e me!”.  Così, senza accorgermene, mi ritrovo coinvolta nella scenetta, chiamata a fare due scatti alla geisha stretta alla vita dell’aitante gladiatore, in un divertente e fasullo salto nel tempo.  Dietro di loro, sullo sfondo, il Colosseo si mostra maestoso come eterno testimone delle grandi e piccole vicende umane.
Anche questa è Roma! Che ve devo dì’ … Io qui sto bene! Mi sento immersa nella bellezza e piena di gioia di vivere, tanto che non vorrei più andar via. La ragione, forse, è che ho sempre pensato che non tutti i templi portano in Paradiso, e che … non tutti i bordelli portano all’Inferno.
E quale città al mondo ha più templi e bordelli di Roma?

Forse uno dei guai dell’Italia è proprio questo, di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia, alla modestia di un Popolo che quando grida “forza Roma” allude solo ad una squadra di calcio.
(Indro Montanelli)

Battaglia d'Amore


"Non esistono amori felici", diceva Verlaine in un suo famoso scritto. 
In effetti, se si giudicasse una storia d'appassionati sensi in base alle sue conseguenze, somiglierebbe molto più spesso alla guerra che all’amore. 
Tuttavia, evidentemente, si tratta sempre di una battaglia deliziosa e inesorabile cui nessuno dei due combattenti, perdente o vincitore, rinuncerebbe mai, per nulla al mondo.
Ben venga, dunque, questo giogo tirannico e seducente che si chiama Amore: la passione sarà forse destinata sempre al fallimento ma sarebbe un fallimento ancor più cocente rinunciare per sempre alla passione.

Ricordo


A qualcuno basta una notte 
indimenticabile 
per dimenticare una giornata 
indimenticabile.

sabato 22 settembre 2012

Pane, amore e filosofia



Mangiare è un atto di barbarie o di civiltà? E’ un fatto legato alla semplice sopravvivenza o allo sviluppo della cultura? L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, nel suo libro “Il crudo e il cotto”, sosteneva che il nostro grado di civilizzazione riguardo al nutrimento non dipendesse dall’atto di mangiare in sé, bensì dall’atto di cucinare.
Il cibo crudo veniva associato alla barbarie e al primitivismo; quello cotto, alla civiltà e alla raffinatezza delle relazioni sociali. La concezione strutturalista dell’antropologo era molto articolata ma, in sintesi, lo portava a classificare le società in termini di strutture binarie opposte, cioè di dare-avere, amico-nemico, sacro-profano, e così via. Quindi, anche la coppia crudo-cotto si prestava bene per distinguere le culture meno sviluppate da quelle più avanzate.
E’ vero che l’unico animale capace di cucinare è l’uomo ma, con il passar del tempo e la contaminazione culturale, le interpretazioni filosofiche attorno all’atto del mangiare-cucinare si sono moltiplicate, completate e, a volte, complicate. Oggi, la letteratura in materia è tanto vasta da perderci la testa e, naturalmente, segue le trasformazioni delle abitudini sociali e l’avvicendarsi delle mode che si rincorrono alla ricerca di un’originalità sempre nuova anche a tavola, capace di conciliare estetica e gusto.
Crudo e cotto, in realtà, non sono opposti puri e, in ogni caso, in molte culture è proprio la crudità a rendere eccelso un alimento, che sia vegetale o animale. Ostriche, caviale, sashimi, tartare di pesce o carne, ma anche fave, carote e peperoni colti nell’orto e consumati in purezza, sono prelibatezze apprezzate in tutto il mondo, anche se non da tutti i palati.
Allora cosa distingue barbarie e civiltà, se non la differenza tra crudo e cotto? Forse, la capacità di cucinare non nel senso di cuocere ma nel senso di arte di trattare i cibi con consapevolezza e amore, valorizzandone le qualità senza mortificarne la natura. In questo senso, cucinare può diventare una filosofia, perché mentre si affetta un succoso cucurbitaceo, si sfiletta un argenteo sgombro, si disossa un povero pollo, si sbuccia un profumato ananas, o si affetta una fragrante baguette non si lavora solo con le mani eseguendo chirurgici rituali. Anche la testa è in fermento creativo e ha tutto il tempo per riflettere non solo sui gesti che compiamo ma anche sull’anatomia e l’essenza dei cibi che maneggiamo. Ogni alimento, crudo o cotto che sia, racchiude la sua storia e la sprigiona attraverso i sapori, gli aromi, i colori, la consistenza, i pregi e i difetti. Una storia che, attraverso le nostre mani, riacquista valore trovando il suo epilogo nei nostri piatti e, infine, nelle nostre bocche. In altre parole, i cibi non esistono solo per essere mangiati e cucinati ma anche per essere pensati.
E’ una concezione che prende corpo agli inizi dell’Ottocento, questa, ben interpretata da Brillat-Savarin il quale sapeva calarsi nell’universo dei cibi come avrebbe fatto un poeta nell’universo dell’amore. Ne la sua “Fisiologia del gusto”, a un certo punto ha dedicato una riflessione al pesce davvero deliziosa:
“Il pesce, considerato in tutte le sue specie, è per il filosofo un argomento di meditazione e meraviglia. Le varie forme di questi animali, i sensi che loro mancano, la povertà di quelli che sono stati loro concessi, le loro maniere di vita, l’influsso che su tutto ciò ha avuto certamente la differenza di ambiente in cui sono destinati a vivere, respirare e muoversi, estendono l’orizzonte delle nostre idee e delle modificazioni infinite che possono risultare dalla materia, dal movimento e dalla vita. Ho per essi un sentimento che somiglia al rispetto e che nasce dalla mia persuasione che siamo esseri antidiluviani, perché il gran cataclisma che annegò i nostri prozii verso il secolo decimottavo dalla creazione, per i pesci fu semplicemente un periodo di gioia, di conquista e di festa.”
Leggendo questa poetica argomentazione, si capisce che anche un cibo semplice e umile come il pane può diventare una festa e tradursi in argomento di meditazione e meraviglia. Così, affettare una croccante pagnotta, abbrustolirla gentilmente al fuoco e condirla con un filo di profumato olio, può rappresentare un vero e proprio atto filosofico da compiere con amore e gustare con passione.
Possibilmente in compagnia di un buon filosofo.

venerdì 21 settembre 2012

Elisir d'amore



Preparare una salsa è un po’ come fare l’amore.
Occorrono passione, fantasia, gentilezza e quel pizzico d’esperienza necessario a guidare l’istinto nella scelta degli ingredienti, delle dosi e dei tempi. In cucina, certamente, la materia prima ha un ruolo protagonista – come l’amante a letto, appunto – ma non esclusivo, perché ciò che crea l’alchemica magia sono anche le quantità, le proporzioni, i tempi e le pause, il cui equilibrio si tradurrà poi nel piacere all’assaggio.
Sapori e aromi devono incedere, dunque, in maniera armonica fin dalla preparazione, assecondando ritmi cadenzati quale oculato preludio d’altri più accesi movimenti. La complicità che si stabilisce tra le mani e gli ingredienti è il segreto di un buon risultato, poiché ogni piccolo tocco, intimo o ardito ma mai arrogante, rivela la sensibilità di un bravo partner, così come quella di un bravo chef.
Questa stuzzicante metafora vale per tutti i tipi di preparazioni culinarie, s’intende. Tuttavia, penso che salse, confetture e marmellate si prestino particolarmente a una stuzzicante traslazione in chiave erotica, sia per quanto riguarda la messa in opera, sia la degustazione, possibilmente condivisa in giusta compagnia.
Non so se il signor Angiolino Berti – che già tempo fa avevo coinvolto in un mio articolo – s’ispiri a un sentimento amoroso durante la confezione delle sue famose salse. So, però, che il risultato è certamente una sintesi esemplare di come si possa trasformare in sensuale bontà alcuni dei prodotti più semplici e naturali della Terra.
Anche l’amore è, infatti, cosa semplice e naturale. Caso mai sono gli innamorati che, spesso, lo rendono complicato, proprio come certi gourmet eccessivamente sofisticati esasperano un buon piatto.
Tra le tante preparazioni del signor Angiolino, ce n’è una che mi ha fatto particolarmente innamorare. E’ una confettura a base di fichi e mela verde che già per la semplice scelta degli ingredienti evoca l’amore e l’erotismo. Innanzitutto è una confettura, non una marmellata, cioè ha una percentuale di polpa di frutta tale da risultare particolarmente densa, rotonda e vellutata al palato. Il sottofondo è morbido e pacatamente dolce, come il fico, ma qua e là nella polpa contrastano spicchi croccanti di mela che, con la sua sfumatura d’aspro, completa il composto d’impreviste note saporite.
Tutti i sensi conosciuti entrano in gioco: la confettura è bella d’aspetto, saporita come un bacio, morbida come una carezza, profumata come la pelle e quel musicale ‘clic’ all’apertura del barattolo solletica persino l’udito, anticipando così il piacere del gusto. Lo sposalizio tra fico e mela è assolutamente originale, vi assicuro. Oltretutto, mescolare con tale maestria due frutti così significativi nella storia non solo alimentare ma anche simbolica dell’umanità, sembra rendere questa confettura ancor più seducente.

Pensiamo al fico. Forse non tutti sanno che questo meraviglioso frutto dalla straordinaria carica energetica, stringe un’alleanza molto intima con l’ambiente in cui l’albero cresce. E’ un’esemplare testimonianza di quanto possono essere complici i rapporti tra il mondo vivente macroscopico e quello microscopico. I fichi, infatti, maturano due volte l’anno, quando si miete e quando si vendemmia, direbbero i contadini di una volta.
Oggi anche l’agricoltura ha i suoi trucchi ma tradizionalmente, per portare a maturazione questi gioiosi frutti occorreva assecondare la Natura, anziché raggirarla. Bisognava, innanzitutto, appendere sull’albero del fico domestico i frutti non commestibili del caprifico, cioè la pianta di fico selvatico. Tramite quest’imbastardimento, i minuscoli e prolifici moscerini presenti nei frutti del caprifico cominciavano a migrare verso i frutti del fico, quelli buoni, socchiudendone il cuore, assorbendone l’eccesso di umidità e soffiandoci dentro l’aria esterna.
Si verifica un passaggio di principi generatori … entra il sole e i soffi fecondatori, grazie ai moscerini che schiudono gli orifizi, come ebbe modo di dire Plinio il Vecchio in qualche suo scritto. Pur non avendo strumenti d’osservazione e conoscenze scientifiche, Plinio non era lontano dal vero. Funziona proprio così: un imenottero appena visibile trasporta il polline dal caprifico al fico, che non possiede fiori maschili. Uscendo dall’ostiolo, il forellino alla base del siconio, l’infiorescenza che contiene i piccoli fiori femminili s’imbratta di polline proveniente dai fiori maschili.
Il moscerino, volando all’interno dei siconi del fico domestico, è dunque il responsabile della fecondazione dei fiori, che daranno poi vita ai carnosi e dolci frutti. La simbiosi tra fico e insetto è uno straordinario esempio della variegata sessualità della Natura, che attraverso invisibili e meticolosi gesti partorisce ‘creature’ di straordinaria bellezza e bontà. Tuttavia, non è solo l’atto fecondativo del fico a evocare un’analogia con la sessualità. E’ anche l’aspetto, sia delle foglie, sia dei frutti. Il contorno delle foglie, infatti, ricalca la virilità maschile e forse per questo si vuole che Adamo ed Eva se ne servissero per coprire le proprie nudità. Inoltre, il fico è un frutto succulento dalla foggia sfacciatamente evocativa, tanto che in virtù del suo simbolismo, era il goloso protagonista nelle feste dionisiache, in cui si portavano in processione una brocca di vino, una vite, un capro, un paniere di fichi e un fallo scolpito nel tronco del fico stesso. Nel tempo, la domesticazione della pianta ha semplificato la vita riproduttiva del fico e ha migliorato i caratteri del frutto, mantenendo però le sue connotazioni sessualmente simboliche.
E che dire della mela? La mela fa parte della storia umana molto prima che Newton ne traesse ispirazione. Le sue origini sono alquanto incerte ma la leggenda vuole che essa sia il frutto proibito dell’Eden. La fiabesca immagine deriva da un vago accenno che si fa nelle Scritture ad un generico frutto tondeggiante, in realtà non specificato, tradotto dall’ebraico tappuah e poi dal greco melon. In verità, l’affermazione della mela nella coltura e nella cultura universale è frutto di un lungo e profondo rapporto di conoscenza tra le potenzialità della Natura e le opportunità dell’Uomo. La domesticazione del melo si completa, infatti, solo con la diffusione della tecnica dell’innesto, in epoca greca e poi romana, tecnica che consente anche la moltiplicazione di differenti specie di frutti, ognuno con sue specifiche caratteristiche. Tuttavia, il mito resiste oltre la realtà e alcuni maligni sostengono che furono certi Padri della Chiesa, ovviamente celibi e misogini, a scegliere la mela come frutto del peccato, perché tagliandola a metà videro comparire i semi disposti a foggia di vulva, proprio quella parte di Eva responsabile della corruzione di Adamo. Leggende a parte, il simbolismo di questo fascinoso frutto sembra derivi proprio dagli alveoli racchiusi nel suo cuore, a forma di stella a cinque punte. Robert Ambelain, nell’”Ombres des cathédrales”, ha scritto infatti che il pomo è il simbolo della conoscenza perché, dividendolo perpendicolarmente, vi si trova un pentagramma, tradizionale simbolo del sapere. Fatto sta, che la mela resta il frutto della tentazione, persino nella fiaba di Biancaneve. E in particolare, l’allusione alla complicità sessuale ha ispirato filosofi, poeti e artisti d’ogni tempo. Il giardino di Afrodite della poetessa greca Saffo è, guarda caso, un boschetto di giovani meli, dove sopra gli altari fumano incensi. E più recentemente, Pablo Neruda ha decantato una Donna completa, mela carnale, luna calda, bacio a bacio percorro il tuo piccolo infinito.
Insomma, fico e mela continuano a nutrire le nostre assetate fantasie, oltre ai nostri famelici corpi. Ed ecco che mescolati insieme e deliziosamente racchiusi in un barattolo di vetro, non possono che esser nati dall’amore e amore suggerire. Anche una confettura è un piccolo infinito da percorrere … pura poesia per il palato. E, forse, se Adamo ed Eva avessero conosciuto quest’elisir d’amore, l’avrebbero preferito al tanto tribolato pomo, evitando così d’inguaiare se stessi e l’intera Umanità!
Ringrazio il signor Angiolino Berti, dunque, per aver deliziato i miei sensi con tanta dolcezza e ispirato queste mie giocose righe, scritte tra un cucchiaino di frutta, un segreto desiderio e un sospirato piacere.