mercoledì 2 gennaio 2013

La ruga del cretino e il cervello della noce



Nell’Ottocento, Marco Ezechia Lombroso, altrimenti detto Cesare Lombroso, era diventato famoso non solo per essere medico, antropologo, giurista e criminologo ma anche per aver formulato una teoria destinata a sobillare gli animi e alimentare accese critiche.
Dai minuziosi studi effettuati sulla struttura ossea del cranio e sulle proporzioni tra le varie parti del corpo, il Lombroso si era convinto vi fosse una corrispondenza tra i tratti somatici e il temperamento, in particolare in quei soggetti socialmente deviati, come i criminali e i folli. “Il criminale è un essere che riproduce atavicamente sulla propria persona feroci istinti dell’umanità primitiva e degli animali inferiori.” Questa era l’anima del suo pensiero che, tuttavia, non si limitava a etichettare assassini e briganti ma anche geni e artisti. Secondo lo studioso, infatti, i tratti somatici erano sempre specchio del carattere, dunque anche di attitudini artistiche e talentuose, non solo turpi e delittuose. Così, mentre un uomo basso, irsuto, col cranio piccolo e un naso grande rientrava nella tipologia lombrosiana del potenziale omicida, uno pallido, magro, rachitico, con un cranio sviluppato doveva essere senz’altro un genio. Gli eccentrici studi ispirarono a dismisura la mente del Lombroso il quale scrisse trattati grotteschi, come “La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto”, o “Perché i preti si vestono da donne”, o ancora “Studi sui segni professionali dei facchini”, che animavano un misto di fascino e orrore, seminando pregiudizi razziali ma, talvolta, anche cieca ammirazione.
Il bisogno dell’intelletto umano di leggere un’interiorità delle cose attraverso l’esteriorità non era tuttavia nuova. Infatti, molti secoli prima del Lombroso, nel Medioevo, si era diffusa una dottrina spirituale che coglieva e interpretava una corrispondenza tra caratteristiche fisiche e virtù intrinseche non in riferimento alla psiche degli esseri umani, questa volta, bensì alle proprietà dei vegetali. Paracelso e i suoi allievi, tra cui Osvaldo Crollio - chimico cabalista nato a Wetter in Germania - avevano formulato la “teoria delle segnature”. Secondo tale dottrina, ogni caratteristica fisica di piante, erbe, frutti o ortaggi erano precisi segnali che la Natura esprimeva per rispecchiare le proprietà nascoste in ognuno di essi. Sposando il principio aristotelico per cui la Natura non fa nulla di inutile, e ispirandosi probabilmente alle precedenti teorie di Plotino e Galeno, Crollio era così affascinato dalla varietà di fogge, colori, odori e sapori del mondo vegetale da convincersi che non fossero casuali. La sua ipotesi fu, dunque, che i ‘segni’ manifesti di ogni vegetale fossero lo specchio della loro intima essenza e l’uomo aveva il privilegio di scoprire tali virtù per sfruttarle e consumarle a suo beneficio.
Ad esempio - secondo la segnatura del colore - le piante che producevano fiori gialli, come la calendula, erano utili per curare l’ittero, che notoriamente si manifesta con un colorito giallognolo sulla pelle; mentre le foglie, i semi e i fiori dell’iperico, messi a macerare in olio d’oliva al sole, offrivano un unguento di colore rosso acceso, utile per curare le ferite. Secondo la segnatura della forma, invece, era la foggia a suggerire quale parte del corpo potesse essere curata dal vegetale. La peonia, ad esempio, provvista sulla sua sommità di un pistillo a forma di cervello, veniva utilizzata per curare le malattie cerebrali; l’equiseto, detto anche coda cavallina proprio per la sua fisionomia, veniva impiegato per lenire i dolori alla colonna vertebrale; ancora, l’iperico, con le sue foglie perforate, era utile come cicatrizzante; la noce, evocando il cervello, veniva utilizzata per curare gli stati d’ansia e l’insonnia, quindi per calmare la mente; le foglie di eucalipto, che per la foggia affusolata ricordano i lobi polmonari, erano balsamiche per le vie respiratorie e gli stati d’asma. E così via, in un variopinto susseguirsi di evidenti analogie, molte delle quali col tempo si sono dimostrate corrette intuizioni.
Parallelamente a Crollio, un altro fisico napoletano allievo di Paracelso – Giambattista Della Porta – sintetizzò i segreti dell’universo vegetale in un trattato dal titolo “Magia Naturale”. Era curioso di tutto, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e i suoi studi sull’ottica hanno, tra l’altro, contribuito all’invenzione della camera oscura e alla costruzione del primo telescopio. Molti erboristi del Medioevo erano, infatti, anche appassionati astronomi e cercavano di elaborare un sapere universale, cogliendo le corrispondenze tra i pianeti e i segni dello zodiaco (il mondo celeste), le piante e gli animali (il mondo terrestre) e le diverse parti del corpo suscettibili di malattie (il microcosmo umano). Quest’ardita fame di sapere non faceva piacere alla Chiesa, infatti, lo stesso Della Porta fu perseguitato dall’Inquisizione per aver fondato l’Accademia dei Segreti, votata appunto all’esplorazione dei segreti del cosmo. Alle persecuzioni è tuttavia sopravvissuta l’idea che la Natura costituisce un ‘tutto’ completo e perfetto, incomprensibile solo per via dell’ignoranza e della cecità degli uomini stolti. In fin dei conti, anche se ancora confuse in un’aura di mistica magia, qui s’intravedono le basi filosofiche di quella che sarà la moderna ecologia.
In conclusione, l’affascinante e ipotetica analogia tra gli studi sui segni dei facchini e quella sui segni dei vegetali si esaurisce laddove comincia. Se la perspicacia del Lombroso rivela inconsapevolmente la prevaricazione della comprensione umana sulla manifestazione della natura, la minuziosa osservazione di Paracelso rappresenta tutt’oggi un’ammissione di umiltà dell’essere umano di fronte all’ineguagliabile perfezione del mondo naturale.

martedì 1 gennaio 2013

Uomini e cani



Ieri il mio dolce Rocky ha avuto uno scontro battagliero con un gigante a quattro zampe decisamente degno della sua mole. L'intruso, dal pelo bianco e dal muso truce, s'è incautamente introdotto nel nostro giardino liberandosi in un guizzo dal guinzaglio della giovane donna che lo accompagnava per strada.
La guerra tra i due titani pelosi è scattata improvvisa ed è montata furiosa. Mai avevo visto il mio mite Rocky così agguerrito, così aggressivo, così feroce, mai! E posso parimenti immaginare l'altro povero cane altrettanto docile nella sua casalinga quotidianità.
Non so come sia miracolosamente finita ma dopo lunghi interminabili minuti di ringhiosa lotta, i due hanno reciprocamente mollato la presa. Tanta paura, qualche ferita e infine doppia razione di biscotti per Rocky, mentre il nemico s’allontanava mesto insieme alla sua padrona altrettanto affranta e spaventata.
Lo scontro poteva avere un esito ben grave, non oso pensarci. Tuttavia, ancora scossa dallo spavento, un pensiero mi tormenta: trovo sia grottescamente lampante la somiglianza tra noi umani e gli animali. Quante volte anche noi perdiamo improvvisamente la ragione in virtù dell'istinto, in scatti repentini che annebbiano la mente e scatenano un’energia incontrollabile!
In questo caso, i due cani litigiosi seguivano solo la propria naturale vocazione: Rocky difendeva il suo territorio, mentre il nemico difendeva se stesso e la sua amata padrona.
Purtroppo, invece, non sempre noi umani abbiamo delle motivazioni altrettanto vitali, nobili e ineluttabili che giustifichino la nostra ignobile regressione animale.
Questo penso mentre guardando negli occhi il mio Rocky mi pare di leggere nel suo sguardo un’espressione di pentimento, di vergogna, quasi a chiedere scusa per quell’involontario scatto primitivo di cui non sa farsi una ragione.

sabato 29 dicembre 2012

Il bacio e la Pianta della Luna



Un anziano barbuto, scalzo e magro per il digiuno, s’arrampica su una possente quercia. Avvolto in una lunga tunica bianca, con un falcetto d’oro in mano s’appresta a tagliare dei rami verdeggianti dalle bacche brillanti che raccoglierà poi in una candida tela, ben attento a non farli cadere a terra.
E’ la pittoresca immagine del Druido – antico sacerdote celtico - che secondo la leggenda alla fine dell’anno va a caccia di foglie di vischio per salutare, con i comandati riti propiziatori, l’inaugurazione di quello a venire.
Tradizionalmente, questo rito si svolgeva il sesto giorno della luna, in occasione della festa che segnava l’inizio dell’anno celtico: un traguardo simbolicamente importante, perché indicava la morte della vegetazione. Il vischio, invece, caparbio e orgoglioso, non solo restava tenacemente verde ma proprio in quel periodo gettava dei frutti deliziosi di cui erano particolarmente ghiotti i tordi i quali, cibandosene avidamente, ne disperdevano i semi ovunque. Così, in una stagione sterile, il vischio emergeva come l’unica specie resistente, in grado di propagare la sua vitalità a dispetto del freddo e dell’inospitalità del terreno.
Simbolicamente la pianta del vischio rappresenta, perciò, il carattere indistruttibile della vita vegetale, l’ininterrotta rigenerazione, la ciclicità dell’esistenza. Da qui il significato del suo nome, che in celtico indica “colui che guarisce tutto”. In effetti, sempre secondo le leggende, il vischio comunicava i suoi poteri vitali a chi ne consumava l’acqua in cui era lasciato a macerare, trasmettendo forza e vigore. 
Come spesso la storia ha dimostrato, le leggende celano alcune verità. I Druidi deducevano il potere del vischio innanzitutto dal suo aspetto: essendo una pianta saprofita, cresceva sfruttando il fusto di altri alberi. Di conseguenza, essendo aerea e priva di radici proprie, era considerata manifestazione degli dei che vivono in cielo senza sfiorare il suolo. Toccare l'umana terra avrebbe comportato per la pianta la perdita d’ogni potere, per questo la raccolta doveva essere protetta da un telo bianco. Anche la fattezza delle bacche, perlacee, lattiginose e brillanti nel buio, hanno contribuito alla fama magica del vischio, suggerendone il nome di “Pianta della Luna”.
E’ sintomatico che i Druidi scegliessero esclusivamente il vischio nato sulle querce, dato che in realtà era molto più facile trovarlo su meli, peri, pini silvestri e pioppi. Secondo Plinio, la scelta derivava dal simbolismo legato alla quercia, che era l’albero del dio dei cieli e della folgore, meritevole perciò di profonda venerazione. Il vischio, nel cantone svizzero di Argau, era persino considerato la “scopa del fulmine”, perché si credeva cadesse insieme alla folgore e chi ne avesse bevuto l’essenza, la linfa vitale, si sarebbe impossessato dello stesso vigore.
Al di là delle suggestioni magiche, qualcosa di fondato c’è. E’ significativo che all’estremità opposta del globo, nel nord del Giappone, esiste una comunità – quella degli Ainu – che tutt’oggi attribuisce al vischio poteri terapeutici. Pare che la pianta curi l’epilessia e renda feconde le donne sterili e il bestiame. A pensarci bene, l’analogia tra la natura del vischio e le sue presunte proprietà è potente: la sua propagazione operata dagli uccelli si allaccia simbolicamente al seme maschile e alla fecondazione; mentre la sua natura aerea giustifica il potere di guarire l’epilessia, detta “mal di terra” poiché la crisi epilettica si manifesta con una brusca caduta a terra e, come s’è visto, il vischio non deve mai toccare il suolo.
Un’altra leggenda lega il vischio alla dea anglosassone Frigga, sposa del dio Odino e protettrice degli innamorati. Dalle sue lacrime sgorgate per la morte del figlio Baldr nacquero le bellissime bacche perlate del vischio e quando magicamente Baldr riprese vita, la dea ringraziò chiunque passasse sotto l'albero con un dolce bacio. 

Questa è una delle versioni, riprese anche dal Cristianesimo, che spiegherebbe l’attuale usanza di baciarsi sotto un ramo di vischio la notte di San Silvestro. Ancora una volta, la realtà pare sposarsi felicemente con il simbolismo arcaico: dal nome “vischio” deriva l’aggettivo “vischioso” per indicare quella consistenza scioglievole, densa e persistente che collega due superfici aderenti. Espressa in maniera più poetica e piacevole, questa caratteristica effettivamente tipica delle bacche di vischio, potrebbe alludere all’attrazione amorosa e a quel magico bacio scambiato dalle tumide labbra di due innamorati l’ultima notte dell’anno.
A questo punto l’immaginazione può tutto, soprattutto quando si parla d’Amore: i fragorosi fuochi artificiali di capodanno si trasformeranno in beneauguranti folgori divine, mandate dal Cielo sulla Terra a suggellare le tacite promesse di due esseri umani amorosamente abbracciati sotto l’aura complice della Pianta della Luna.   

giovedì 27 dicembre 2012

Una celiaca d'altri tempi



Nel primo secolo a.C. ad Ansedonia viveva una donna ignara della fama che avrebbe avuto ai giorni nostri. La giovane, battezzata la ragazza di Cosa dal luogo che ha partorito il suo scheletro, rappresenta il primo caso noto di una delle malattie più diffuse oggi. I genetisti del Centro dell’Università di Tor Vergata di Roma, analizzando il Dna di alcuni suoi frammenti ossei, hanno diagnosticato infatti il cosiddetto morbo celiaco, più comunemente detto celiachia. L’intuizione è sorta dalla deduzione dell’aspetto fisico: la ragazza era rachitica, affetta da osteoporosi, ipoplasia, anemia e porosità ossea, tutte fragilità non riconducibili a un regime di vita povero poiché lo scheletro era ingioiellato e ben conservato. Conclusione: la malnutrizione della ragazza era presumibilmente dovuta a quella variante del gene HLA responsabile della celiachia.
Questa scoperta è di grande fascino, non solo perché è sempre emozionante ricostruire il passato attraverso i resti che il presente conserva. Ma anche perché dimostra che la celiachia è antica quanto l’uomo, o meglio, quanto il grano. Sì, perché oggi si sa che si tratta di una malattia autoimmune enteropatica dovuta a un’intolleranza al glutine, la proteina presente nella maggior parte dei cereali tra cui il grano. In genere compare durante lo svezzamento con l’assunzione dei farinacei e colpisce preferibilmente le donne. Nel celiaco l’introduzione del glutine attiva in maniera anomala il sistema immunitario il quale si ribella agli elementi che riceve: i villi intestinali si atrofizzano e frenano anche l’assorbimento dei nutrienti buoni espellendoli come nemici insieme al glutine. E’ come se l’intestino si trasformasse in un secondo cervello in grado di decidere autonomamente ciò che è buono e ciò che non lo è.
Lo spettro dei sintomi della celiachia è ampio e coinvolge dimensioni psicologiche che trascendono l’apparato gastrointestinale. In genere si distingue tra quattro forme di celiachia a seconda delle sue espressioni. Tipica: si manifesta con prepotente dissenteria, gonfiore addominale, perdita di peso, debolezza e turbe umorali. Atipica: somma ai sintomi della tipica anche anemia, malassorbimento del calcio, anoressia e dermatite erpetiforme. Silente: essendo priva di sintomi è difficilmente diagnosticabile ma eloquente alla sensibilità di chi ne soffre. Latente: individuabile in chi risulta positivo agli anticorpi anti-gliadina AGA e anti-endomisio EMA. 
Il caso della ragazza di Cosa, celiaca d’altri tempi e simbolo di una popolazione con abitudini nutrizionali diversissime dalle nostre, rivelerebbe che la malattia non dipende dalle condizioni alimentari moderne, né dalle manipolazioni genetiche dei cereali. Immaginando la vita della giovane, si può azzardare l’idea che l’eliminazione del glutine dalla dieta le avrebbe consentito un’esistenza più lunga e serena. Eliminare il glutine è ancora oggi l’unica soluzione alla malattia poiché non esistono farmaci specifici. Sono tuttavia moltissimi i casi di celiachia non diagnosticati, così come sono frequenti le confusioni tra intolleranze alimentari, disturbi psicologici della nutrizione e reali celiachie. Per questo una diagnosi accurata, a partire dall’esame del sangue, non solo è consigliabile ma spesso è indispensabile e predittiva poiché la celiachia registra un indice significativo di ereditarietà.
Oggi non è un sacrificio per i celiaci nutrirsi in maniera sana, allegra e fantasiosa: dalla pasta alla pizza, dai biscotti al cioccolato è possibile eliminare il glutine ma non il piacere. Gli alimenti gluten free, così come i ristoranti per celiaci, sono sempre più diffusi e apprezzati anche da chi celiaco non è, con la differenza che solo la malattia clinicamente certificata consente le agevolazioni economiche all’acquisto dei prodotti specifici. Bisognerà tuttavia attendere per vederli contemplati nel regolamento quadro delle diete speciali previste dal Parlamento Europeo che tuttora li esclude. In ogni caso, concepire la celiachia non solo come malattia ma anche come occasione per un’alimentazione alternativa al pari del vegetarianismo o del veganismo è già di per sé una cura, innanzitutto psicologica e di conseguenza organica. Perché si sa, mens sana in corpore sano, anche per i celiaci! 

lunedì 24 dicembre 2012

Incontri



Vorrei essere ancora capace di lasciarmi raggiungere dalle parole senza cercarle. 
Ormai capita sempre più raramente, il pensiero sgomita nel nulla, è stupidamente prepotente.
Ma succede, talvolta, di leggere righe altrui che risucchiano, avvolgono, ammantano come lenzuola calde. E allora ci si riconosce dentro quei pensieri di velluto come fossero nostri e ci si incontra.
E’ vero: ciò che si era resta maledettamente vivo in noi, vibra e ci preoccupa. 
Oppure ci salva…

mercoledì 19 dicembre 2012

Migranti



Quando si è piccoli, le persone sono come paesi.
Hanno confini e muri che li difendono e li separano l’uno dall’altro.
Il tempo è immobile e l’età non è una sfumatura lenta ma un balzo catastrofico tra noi piccoli e i grandi.
Mamma è sempre stata mamma, papà è sempre stato papà, gli adulti sono sempre stati adulti e noi bambini saremo sempre bambini.
Ma quando piano piano si cresce, che paese si diventa? 

Andata & Ritorno



Ultimamente non mi sto dedicando molto a questo mio bloggino, è vero. 
Colpa, o merito, dei miei nuovi impegni professionali. Finalmente si sta realizzando un sogno che ho sempre alimentato, quello di viaggiare non solo per piacere personale ma per scrivere reportage: raccontare emozioni, sensazioni, sapori, colori, odori di terre vicine e lontane, di gente sconosciuta e di idiomi mai sentiti.
Trasformare una passione in lavoro non è cosa da poco, per questo mi sento privilegiata soprattutto non avendo rincorso quest’opportunità di mia iniziativa ma essendone stata inaspettatamente abbracciata.
Vorrei dire, però, che ogni piccolo o grande traguardo raggiunto, ogni piccolo o grande sogno realizzato, non avrebbe lo stesso valore senza la partecipazione e il sostegno di chi ci ama. Solo quando torno a casa e posso finalmente raccontare con la voce, con gli occhi e con il cuore, ciò che ho assorbito lontano, capisco quanto sia straordinariamente infinito un viaggio. E capisco che per quanto il mio entusiasmo per la vita possa portarmi lontano, tornerò sempre fedele a me stessa e ai miei affetti più cari.
In fondo, è sempre il ritorno a casa che rende grande, unica e desiderabile ogni partenza!