A volte bisogna cedere alle vertigini per trovare l'equilibrio. Tanto vale volare alto. Molto alto!
sabato 8 settembre 2012
venerdì 7 settembre 2012
Il giudice
Quando partoriamo un
figlio, automaticamente eleggiamo un giudice.
Un giudice più
implacabile e severo di quelli che siedono nei tribunali per condannare efferati
assassini.
Perché un figlio ci
osserva nell’intimità della nostra vita quotidiana e coglie la nuda verità di
ciò che noi siamo, quella verità nascosta sotto le maschere di turno.
Pur non capendola
pienamente nell’immediato sentire, giorno dopo giorno il figlio sedimenta
questa verità nel suo cuore, in attesa di elaborarla anche con la mente.
E
allora, arriverà il momento in cui, più o meno confusamente, quel figlio capirà
d’essere in ogni caso condannato, perché la sua infanzia lo perseguiterà per
tutta la sua futura vita.
Non so se, in quest’istante, stia parlando il
giudice o il condannato che c’è in me.
giovedì 6 settembre 2012
Il mistero del risveglio
“L’alba ha una sua misteriosa grandezza
che si compone d’un residuo di sogno e d’un principio di pensiero” ha scritto Victor Hugo. Chissà da quale
inafferrabile sogno e indicibile pensiero è stato ispirato il grande scrittore
che, con disarmante leggerezza, ha saputo cogliere il mistero del momento più
fuggente della nostra giornata: quello del risveglio.
Non
tutti si svegliano all’alba, è vero, ma chi ha avuto occasione almeno una volta
di sorprendere la notte farsi giorno, sa quale tenera emozione infonde
quest’effimero sciogliersi del tempo. Non è come il tramonto che, seppur
anch’esso breve, anticipa e prolunga la sua manifestazione attraverso le mille
sfumature del sole. E’ uno spettacolo che si dona a tutti, quello del tramonto,
sfacciato e prorompente. Mentre l’alba è per pochi e sopraggiunge in punta di
piedi, con la sua mistica verginale.
In
ogni caso, svegliarsi la mattina non è mai un atto da poco e ha una sua spiegazione
filosofica tanto profonda quanto sottovalutata. Lo stupore infantile che si
avverte nell’aprire gli occhi e scoprire che il mondo è ancora esattamente dove
lo avevamo lasciato la sera precedente, prima di abbandonarci all’oscuro
emissario del sonno, è la prova di essere di nuovo vivi, frementi, capaci di
pensare, sentire, desiderare, ricordare, amare e tornare a sognare.
Il
risveglio è la rinascita dei sensi dopo la morte del pensiero cosciente. E il
ponte che congiunge la letargia alla veglia è rappresentato dai sogni, quei
fantasmi alati che galleggiano nell’intercapedine tra consapevolezza e
inconsapevolezza. Così, il sollievo di riemergere ogni mattina a uno stato di
coscienza, evoca la sensazione dell’intervento di un invisibile angelo che, provvidenzialmente,
ci afferra dagli inferi per riportarci sulla terra, in attesa forse di
guadagnare il paradiso.
In
fin dei conti, basterebbe osservare dalla Natura per rendersi conto di questo
miracolo che puntualmente ogni giorno si rinnova. E i contadini, i primi veri
filosofi, lo sanno bene. A ogni alba, tutto il Creato si risveglia, non solo
quello umano ma anche quello vegetale: i tuberi si ergono dal terreno, i fiori
si schiudono al primo sole, le foglie leccano le gocce di rugiada, le spighe
s’allungano al vento e le piante stiracchiano radici e rami come fossero arti
intorpiditi assetati di luce e calore.
Ecco,
immaginiamo per un attimo d’essere anche noi esseri umani come tante piccole
piante, che ogni mattina contribuiscono a mettere in moto questo ineluttabile
movimento cosmico, tanto scontato e necessario quanto miracoloso e
inafferrabile.
Noi,
rispetto alle piante, abbiamo il dono di rifletterci su e di raccontarcelo,
anche se magari non sappiamo partorire parole belle come quelle di Victor Hugo.
Sta di fatto che gustare il risveglio con stupore e gratitudine può diventare
un’esperienza esistenziale profonda e gratificante, il primo semplice gesto per
apprezzare ogni giorno la vita.
mercoledì 5 settembre 2012
Sacro e profano
E’
l’alba e i fantasmi notturni ancora aleggiano sul lago immobile, mescolando la
malinconia della notte all’eccitazione del giorno.
Mi ero addormentata coperta
di sogni e mi sono risvegliata vestita di speranze. Ho carezzato ogni istante di
questa notte con la stessa ardente passione che un religioso adopera quando
sgrana le perle di un rosario. Non è, forse, anche il sogno una specie d’inconsapevole
preghiera? E la speranza non somiglia, forse, alla necessità di fede?
Che
sia rivolta a un Dio o a un Amore universale che trascenda ogni singolo fugace
amore, l’Anima silenziosamente chiede di trovare il suo sentiero dove,
finalmente, il corpo possa camminare allineato con la mente. Ma per far ciò, l’Anima
ha bisogno di una Guida, la stessa che l’ha amorevolmente condotta fin dove è
arrivata sinora. Altrimenti, si sentirebbe perduta.
Ecco,
l’alba si sta dissolvendo per lasciare lentamente il passo alla mattina.
Insieme
a lei, si dissolvono anche i miei sogni. Sopravvivono, invece, le speranze.
martedì 4 settembre 2012
Un metodo molto pericoloso
Molti di voi hanno probabilmente
visto al cinema “A Dangerous method”,
l’ultimo capolavoro di David Cronenberg. Forse, però, pochi hanno letto il
libro di John Kerr, “Un metodo molto
pericoloso”, cui il regista canadese s’è ispirato per la sua sceneggiatura.
La storia si basa su fatti
realmente accaduti agli inizi del secolo scorso e ruota attorno a tre
personaggi coinvolti in un denso intreccio intellettuale e umano: Sigmund
Freud, il padre della psicoanalisi, Carl Gustav Jung, suo intimo collaboratore,
e Sabina Spielrein, giovane ebrea russa, paziente di Jung e poi allieva di
Freud. Fu lo psicanalista Aldo Carotenuto a rendere pubblico per la prima volta
il carteggio privato tra i tre, rinvenuto in uno scantinato ginevrino negli
anni Settanta. Il manoscritto fu pubblicato nel 1980 come il “Diario di una segreta simmetria” e,
forse, allora nessuno immaginava che quel prezioso documento sarebbe un giorno
diventato un film di successo. Anzi, due, perché una prima sceneggiatura fu
proposta nel 2002, da Roberto Faenza, con il film Prendimi l’anima, destinato tuttavia a non destare lo stesso
clamore di quella di Cronenberg.
La storia, dunque, è nota.
Tuttavia, là dove il film spegne i riflettori accendendo il piacere delle
emozioni, il libro prosegue alimentando la voglia di sapere di più.
Il film.
La grida di rabbia di Sabina
Spielrein (interpretata da Keira Knightley) irrompono nella sala buia alla
prima inquadratura. La giovane donna, vestita di verginale bianco, viene
strascinata a forza fuori dalla carrozza fin dentro l’ospedale Burghölzli di Zurigo, per essere curata dalla sua grave forma di isteria
psicotica. E’ il 17 agosto 1904 e la ragazza è affidata al dottor Jung (Michael
Fassbender), appena trentenne, da poco sposato con la ricca ma insipida Emma
Rauschenbach, in attesa della loro prima figlia. Jung appare verosimilmente
intelligente e ambizioso, tuttavia ancora acerbo e impreparato ad affrontare
sia una malattia psichica di cui ancora poco si sa, sia una paziente così
coinvolgente. L’analisi comincia nel rigore del setting: Jung siede su una
sedia alle spalle della ragazza, accompagnando la fuga associativa dei suoi
pensieri. Affiorano ricordi di un padre-padrone e di un’infanzia disturbata da
una sessualità confusa, ricordi tanto torbidi e sporchi da stravolgere la
gentile bellezza della donna in grottesche smorfie di dolore. Tuttavia, presto
i confini del setting si sgretolano sotto la pressione di una partecipation mistyque che attiverà in
entrambe nuclei affettivi pericolosi e inesplorati. E’ l’inizio del delirio.
Quei due intensi mesi d’analisi avviano da un lato la donna verso una lunga e
sofferta abreazione che, nonostante tutto, la condurrà alla guarigione e al
riscatto di sé; dall’altro precipitano Jung in una tormentata malattia
interiore, agitata dal crescente coinvolgimento analitico-amoroso con questa
paziente dall’irresistibile carica psichica. Jung si sentirà talmente disarmato
da chiedere aiuto a Freud (Viggo Mortensen), più anziano ed esperto: è questo
il primo caso noto di supervisione in analisi. Acuto e impeccabile, Freud
contribuirà a districare la matassa relazionale non senza traumi, avviando la
storia di tutti e tre verso un epilogo conflittuale ma inevitabile e, al
contempo, indirizzando la storia della Psicoanalisi verso l’evoluzione
storicamente nota.
A spingere verso
il baratro il giovane Jung contribuisce Otto Gross (interpretato da un
intrigante Vincent Cassel), eccentrico medico e figlio di un noto criminologo.
In quei mesi Otto viene affidato a Jung perché argini i suoi comportamenti
trasgressivi in un’epoca impregnata di perbenismo e moralismo: è un altro caso di lotta contro il padre,
come la Spielrein, in più è un erotomane, cocainomane, assertore del
diritto alla poligamia e del suicidio. Quanto basta perché Otto e Jung vadano
subito d’accordo. Sono due gemelli psichici, risucchiati nel vortice di una
reciproca analisi, da cui Otto uscirà sconfitto, bruciando precocemente la sua
romanzesca vita al fuoco dei suoi stessi archetipi, mentre Jung, corrotto dai
suoi mefistofelici consigli, si fermerà a quell’oasi
sospirata. Busserà, cioè, all’ipnotica porta di Sabina, cedendo
definitivamente al suo abbraccio, tanto casto quanto mortifero. A volte devi fare qualcosa d’imperdonabile
per continuare a vivere ed è ciò che sta per fare Jung.
Il film non è,
dunque, solo la storia di tre personaggi. E non è nemmeno la storia d’amore tra
Jung e Sabina, perché un’altra relazione profonda si pone in primo piano:
quella tra Jung e Freud. L’anima di tutta vicenda trascende i singoli attori,
perché, la vera protagonista è la Psicoanalisi: è la storia del pensiero di
Jung, di quello di Freud e delle patologie con cui essi vengono giornalmente in
contatto attraverso i loro pazienti. Perché è indubbio che il pensiero di
ognuno è sempre debitore di coloro con cui si entra in risonanza. Il film lo
racconta bene, in maniera molto suggestiva e coinvolgente, focalizzando la
psicoanalisi non solo attraverso le sue teorie ma soprattutto puntando sul suo metodo,
centrato sulla parola e sull’ascolto. Tutto ruota, dunque, attorno a
quell’alchemica coinfettazione tra terapeuta e paziente da cui entrambe escono
inevitabilmente modificati.
Il film riesce a
dialogare a più livelli, catturando anche lo spettatore a digiuno di
psicoanalisi e non a conoscenza della storia, come ho potuto constatare poi. Il
susseguirsi delle scene è cadenzato con un ritmo perfetto, soppesato come il
respiro di un atleta, preciso come il ticchettio di un orologio, grazie alla
raffinatezza dei dettagli, alle ambientazioni realistiche e alla fedeltà dei
dialoghi. Si assapora l’aroma di sigari e pipe, sfoggiati da mani inguantate e
allusivi d’altre viziose dipendenze; si respira la brezza marina durante il
viaggio di Freud e Jung verso l’America mentre i due duellano con pungenti
battute; e si palpa il misterioso cigolio della libreria di Freud, anticipato
da quel significativo calore nel diaframma di Jung durante uno dei loro
colloqui. Che sia un puro caso o sincronicità non vien detto ma è
deliziosamente lasciato alla sensibilità di ogni spettatore. Mai una sbavatura,
dunque, mai una forzatura. Nemmeno durante le scene d’intimità tra una Sabina
masochisticamente profferta alle sculacciate di Jung, che è sì amorevole
complice ma solo parzialmente partecipe. La narrazione è così velata da
convincere che il taciuto sia monumentale rispetto all’esplicito, come
nell’attimo in cui s’allude alla perduta verginità di lei tra le braccia di
lui, dettaglio clamorosamente sfuggito all’attenzione di un fanciullesco Jung.
Le allusioni
erotiche e i sottintesi concettuali riempiono lo schermo fino all’ultimo e la
partecipazione è tale che si approda con rammarico alla fine. Si arriva insieme
a Jung – più malato dell’anziano Freud – con lo sguardo rovesciato su un lago
apparentemente calmo. Un lago che diventa specchio della sua anima, su cui
incombe l’angoscia di un sogno premonitore di sangue e sciagure. Il suo delirio
è forse il prezzo necessario alla rinascita, perché solo il medico ferito può guarire. Accanto a Jung, la vita sboccia
in grembo a una Sabina forte della sua conquistata femminilità, a sua volta
rinata e sposata con un medico che presto la lascerà per sempre, a conferma che
la crescita è un susseguirsi di vita e morte, di fusione e separazione.
L’immagine del figlio che porta con sé dona un brivido d’illusorio sollievo del
tutto fugace, perché il destino di Sabina, pur premiato dal successo come
psichiatra, sarà troncato dalla falce nazista cui lei stessa si consegnerà
ingenuamente insieme alle figlie.
All’orizzonte,
poco prima che sullo schermo scorrano i titoli di coda, compare lo spettro
della prima guerra mondiale e l’imminente separazione delle strade dei due
grandi psicoanalisti.
Il resto è silenzio.
Il Libro.
John Kerr,
l’autore di questo bel libro edito in Italia da Frassinelli, si è formato come
psicologo clinico alla New York University. Con quest’ultimo saggio, ha voluto
ripercorrere la nascita della psicoanalisi, interpretandola come la profonda
interazione tra le idee del suo padre simbolico e quelle dell’allievo
dissidente. In questa lettura storica, Sabina Splielrein diventa il ‘giro di
vite’ nel percorso evolutivo di Jung, in parte responsabile del suo distacco da
Freud. La separazione tra i due uomini rappresenta per entrambi la fine di
un’avventura umana e intellettuale che nessuno dei due riuscirà mai a colmare.
Insieme, Freud e Jung, hanno aperto un immenso orizzonte su un nuovo modo di
affrontare il paziente: attraverso l’ascolto, la parola, dove persino il
silenzio diventa una modalità di dialogo e di reciproca comprensione. La vera
tragedia è, invece, quella di non essere riusciti a fare del metodo
psicoanalitico uno strumento scientifico. Questo dramma è ben riassunto nel
libro di Kerr che comincia molto prima della trama del film e, dove questo
finisce, apre una seconda sceneggiatura, centrata sul delirio e sui sogni di
Jung, ferito ma fermo nella volontà di ritrovare se stesso.
L’epilogo del rapporto tra i due
psicoanalisti è simbolicamente segnato da una data precisa: il 7 settembre
1913, quando si apre il IV Congresso Psicoanalitico Internazionale. All’Hotel
Beyerischer Hof di Monaco si riuniscono ottantasette illustri medici, tra cui
naturalmente Freud e Jung, quale Presidente del convegno. Lo scisma tra i due
geni è aspro e ormai insanabile. Sabina Spielrein non è presente. La sua
gravidanza, del resto, non avrebbe giovato ai due uomini, poiché avrebbe
evocato dolorosamente le origini del loro divorzio. Una notte, per autodifesa
psichica, Sabina sogna persino di uccidere Jung, nell’inconscio tentativo di
liberarsi dal bambino spirituale ancora conflittualmente vivo in lei: Sigfrido,
l’eroe martire, il bambino senza padre, ovvero l’amato Jung. Poche settimane
dopo, Sabina partorirà Renate, una femmina, una bambina forte e sana,
battezzata simbolicamente con il nome della rinascita, ad allontanare
definitivamente lo spettro della morte.
Tutto ciò è devastante per Jung:
la rottura con Freud, la vendetta di Sabina, l’incerto futuro della
psicoanalisi. Tuttavia, la cruda realtà sembra impallidire di fronte alle turbe
interiori che lo devastano. Jung è alle prese, da tempo ormai, con i suoi
crescenti deliri. Non ha scampo, sente di dover affrontare le sue fantasie e
risolverle, per poter rinascere. E’ nell’ottobre dello stesso anno, durante un
viaggio in treno, che ha per la prima volta una terrificante allucinazione.
Jung vede chiaramente l’intera Europa sommersa dalle acque. Un’alluvione
catastrofica sommerge ogni nazione, ogni città, solo la Svizzera resta salva: “ … vedo i flutti giallastri, le fluttuanti
macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli morti, e infine il mare
divenuto sangue ...”. Qualche settimana dopo, l’allucinazione si ripresenta
ancor più lacerante. E al drammatico scenario di sangue s’aggiunge una voce
mortifera che sprofonda Jung in un più grave tormento: “Guarda bene, è tutto vero, sarà proprio così, non c’è motivo di
dubitarne.”
Stravolto dalla crescente
inquietudine, il 27 ottobre del 1913, Jung scrive a Freud una lettera di
dimissioni, rinunciando categoricamente all’incarico di curatore del Jahrbuch,
la rivista psicoanalitica che, da quel momento in poi, si sarebbe ribattezzata
Jahrbuch der Psychoanalyse. Jung si ritira da tutto, definitivamente, per
dedicarsi a se stesso, alle sue paure e ai suoi fantasmi, confinandosi nella
solitudine più completa. Non è mai stato nella sua indole chiedere aiuto e
probabilmente non ci sarebbe stato nemmeno qualcuno in grado di aiutarlo in
questa sua eroica impresa.
Per un lungo periodo, Jung
s’abbandona in preda alle allucinazioni, sfruttando la sua solitudine per fare
esperimenti con sogni e fantasie e smantellare con coraggio le incalzanti
accuse della sua coscienza. Jung sprofonda talmente negli abissi di sé, da
ritrovarsi spesso come atterrato sulla
luna, o su una terra di morti, in cui immagini simboliche sembrano
risucchiarlo in una dimensione mistico-religiosa molto più vicina alla morte
che alla rinascita.
Una mattina, si sveglia nel suo
letto a Küsnacht in preda al
panico. Nel cassetto del comodino giace il revolver di servizio, carico e
pronto. Jung sente che se non fosse riuscito a decifrare le sue visioni, si
sarebbe certamente sparato. Paradossalmente, abbandonarsi senza difese alle
proprie allucinazioni diventa la sua arma vincente. Jung conia in questo
travagliato periodo l‘espressione ‘immaginazione
attiva’, riferendosi proprio a quest’arrendevole darsi alle fantasie: solo
così facendo lo psicoanalista sembra poter conquistare il pieno controllo su di
esse e uscirne vittorioso. Affrontandole, infatti, riesce a separarsi dai suoi
fantasmi, ridotti a ‘personaggi’ confinati in una dimensione propria, temibili
certo, ma sempre preferibili rispetto all’immedesimarsi in loro.
Il 20 aprile 1914, Jung si
dimette anche dalla presidenza dell’Associazione Internazionale Psicoanalitica.
Invierà una lettera a Freud informandolo della decisione, siglando la fine del
foglio con il contrassegno + + +, il simbolo con cui per tradizione si
allontanava simbolicamente il diavolo. Poche settimane dopo, sarebbe scoppiata la
prima guerra mondiale … i flutti
giallastri, le fluttuanti macerie delle opere della civiltà, gli innumerevoli
morti e il mare di sangue sarebbero divenuti realtà. Freud e Jung, i
due geni sofferenti, esploratori di demoni e sogni, si separeranno per sempre,
dunque, dopo il primo incontro avvenuto il 3 marzo 1907 che li serrò in un
colloquio durato tredici ore. Si divideranno in un amaro silenzio, dopo aver
condiviso un intenso cammino: Freud, con la sua razionalità e il suo
pansessualismo, e Jung, con la sua esigenza mistica di esplorare l’invisibile,
resteranno tuttavia i protagonisti di uno dei più affascinanti e fecondi
movimenti culturali di tutti i tempi.
Una delle ultime
immagini contenute nel libro è quella di un dottor Jung sempre più solitario, ritiratosi
nella sua casa rurale di Bollingen, alla fine della sanguinosa guerra. Nella
casa che ha costruito da sé, Jung passerà il tempo strappato al lavoro di
analista dedicandosi al suo hobby preferito: l’intaglio della pietra. E,
paradossalmente, resta proprio scolpita nella pietra la testimonianza di una
delle ossessioni che lo accompagnerà fino alla vecchiaia. Tra i suoi ultimi
lavori, infatti, vi è un trittico in sasso il cui soggetto è l’Anima. La prima tavola del trittico,
mostra un orso curvo che spinge con il naso una pallina. Sotto, reca la scritta
“E’ la Russia che manda avanti le cose.”
Quest’immagine sembra voler evocare l’amara, eppur preziosa, eredità
lasciatagli dalla giovane Sabina, scolpita per sempre nella tormentata
coscienza di Jung.
Qui finisce
anche il libro, purtroppo. Ma non la Psicoanalisi che tuttora vive e che, senza
il rigore di Sigmund Freud, le intuizioni di Carl Gustav Jung e la sensibilità
di Sabina Spielrein, non sarebbe certamente diventata ciò che oggi è.
Io.
Il film mi è piaciuto moltissimo. Visto senza aver
letto prima la storia, può essere vissuto come un appassionante sogno,
sganciato dalla realtà e dall’identità dei personaggi. Mentre vedere il film
dopo avere letto il libro, consente di mescolare quel sogno alla realtà,
arricchendola di dettagli inespressi e retroscena taciuti. Proprio quello che è
successo a me. E se ciò che separa la realtà dalla fantasia è la ragione,
mentre ciò che le unisce è il sogno, io quella sera al cinema, ho sognato una
storia vera!
Il Discorso del Re
La sala della libreria era quasi
colma quando sono arrivata. Sul palco c’erano già gli ospiti e la mia emozione
era più viva che mai, come sempre in queste occasioni.
Peter Conradi, giornalista del Sunday Times, e Mark Logue, nipote di Lionel Logue - i due autori del libro “Il discorso del Re” - erano a Milano,
per raccontare con la loro voce una storia che sta riscuotendo molto successo
ma, soprattutto, per testimoniare la vicenda di un uomo che la storia l’ha
fatta: Re Giorgio VI d’Inghilterra.
Accanto ai due autori sedevano il
Dottor Caruso, psicoterapeuta e logopedista, un giovane traduttore e il
direttore di Tecniche Nuove, la casa
editrice che con grande intuito ha scommesso su questa pubblicazione,
traducendola e diffondendola anche in Italia.
L’atmosfera s’è rivelata
immediatamente sciolta e amichevole e si è protratta per quasi due ore in un
clima piacevole e salottiero. Alla domanda a bruciapelo di Peter Conradi –
espressa in un perfetto e vivace italiano - su chi del pubblico avesse già
visto il film, s’è levato un coro praticamente unanime di mani alzate. Ben
superiore rispetto a chi ha poi ammesso d’aver già letto il libro. Nessuna
sorpresa, né da parte degli autori, né da parte mia. Spesso, infatti, è il
cinema a trascinare sull’onda del successo un libro, anche se, in realtà, la
storia stampata risulta ben più ricca e coinvolgente di quella messa in scena.
E’ proprio questo il caso. Il
libro, infatti, non è solo un bel romanzo ma è innanzitutto un documento
storico: è la trascrizione fedele degli appunti e delle riflessioni di Lionel
Logue, il logopedista (diremmo oggi) del Principe Albert, Duca di York, in
seguito Re Giorgio VI d’Inghilterra.
La trama è nota ma per chi fosse
a digiuno di Storia, o non avesse visto il film né letto il libro, la riassumo
brevemente. L’Inghilterra degli anni Trenta deve affrontare contemporaneamente
due monumentali eventi, uno sul fronte internazionale, l’altro tra le mura di Corte.
Innanzitutto, una guerra sofferta e impegnativa che s’affaccia sull’Europa e
che coinvolgerà tristemente il mondo intero; poi, la morte di Re Giorgio V,
avvenuta nel 1936, morte che pone urgente il problema di successione al trono
in un momento storico particolarmente caldo. L’abdicazione del primogenito
Edoardo VIII, dovuta a ragioni sentimentali incompatibili con il ruolo di
futuro re, crea infatti un imbarazzante vuoto a Corte. Destinato al trono
risulta, per discendenza, il secondogenito Albert, Principe e Duca di York,
votato non solo a personificare l’impegnativo simbolo di una Nazione ma anche,
e soprattutto, ad affrontare difficoltà psicologiche, trascinate sin
dall’infanzia, apparentemente insormontabili. La prima vera grande battaglia
che il giovane Principe dovrà vincere, quindi, è quella contro i suoi stessi
limiti.
Albert, infatti,
confidenzialmente chiamato Bertie, soffre sin da piccolo di balbuzie e, dopo
aver inutilmente sperimentato terapie e consultato specialisti, sembra
arrendersi all’idea di non poter affrontare il pubblico parlando con disinvolta
scioltezza. L’amore e l’intuito della moglie Elizabeth, lo portano, però, ad
accettare le cure di Lionel Logue, una sorta di guaritore d’origini
australiane, esperto in terapie del
linguaggio - come diplomaticamente si fa chiamare - il quale accoglie
Albert come qualsiasi altro paziente, conquistando la sua riluttanza con una
semplice prova. Gli chiede di leggere a voce alta un passo dell’Amleto mentre
ascolta musica attraverso una cuffia e quando successivamente il Principe
sentirà la registrazione della propria voce, scoprirà d’essere riuscito nella
lettura in maniera sorprendentemente fluida. Lionel, con i suoi metodi poco
ortodossi e la sua straordinaria empatia, intreccia così con Bertie un rapporto
umano intenso e costruttivo, che va ben oltre l’asettica relazione tra dottore
e paziente, e saprà anche farsi perdonare d’aver taciuto il fatto di non essere
un vero medico. Con la sua sensibilità, dimostra al futuro Re - e non solo -
che la terapia non ha etichette: sono il rapporto umano, la collaborazione e la
forza di volontà congiunte di paziente e dottore, che determinano il successo
di ogni cura.
“Io posso guarirVi – dice Lionel al Principe dopo il primo incontro
– ma senza il Vostro impegno non
otterremo nulla.” Lionel, da quel giorno, accoglie nel suo studio
semplicemente un uomo, svestendo il futuro Re d’ogni corona e scettro, per
relazionarsi direttamente con il piccolo Bertie, ovvero con le radici stesse
delle sue sofferenze.
E’ a questo punto che s’accende
l’anima del libro, laddove invece il film – a detta dei due autori - sembra
spegnersi. Come in un gioco di specchi, le prospettive nel romanzo si
ribaltano, pur restando armoniosamente intrecciate. Mentre il panorama storico
e culturale, fatto di maschere, intrighi e guerre, sfuma impercettibilmente dai
riflettori verso un affascinante controluce, in primo piano si dipana una
vicenda umana delicata, conflittuale e pressoché sconosciuta, fatta di
amicizia, rispetto e gratitudine.
“Balbuzie, pensateci un attimo …” ci hanno, a un certo punto,
invitato a riflettere i due autori sul palco, uscendo così dalla trama del
libro per dialogare con la sensibilità di tutti noi. Sembra un difetto
apparentemente sciocco, quasi buffo. In realtà, quest’involontario inciampare
nelle parole è invalidante per qualsiasi persona, nel momento in cui deve
confrontarsi con il mondo e con la disinvoltura altrui. Un fardello
ingombrante, a maggior ragione, per un bambino, un qualsiasi bambino, mira di facili
derisioni spesso crudeli che possono innescare insicurezze e sofferenze emotive
profonde e durature. Una malattia – perché la balbuzie è una malattia - ancora
più gravosa per un giovane destinato a diventare quello che un’intera Nazione
si aspetta d’avere: un Re. Un Re dev’essere forte, autorevole, sicuro di sé,
dimostrare al mondo intero di poter guidare con fierezza il popolo alla
vittoria, alla sicurezza e al benessere, perché Lui rappresenta le fondamenta e
le aspirazioni di quella Nazione. Un Re deve saper comunicare tutto questo,
attraverso i fatti ma anche attraverso la sua stessa presenza e i suoi discorsi
e non può certo permettersi di tentennare ogni qualvolta apre bocca davanti ai
sudditi riverenti e ai cinici nemici.
“La balbuzie, negli anni Trenta – ha spiegato il Dottor Caruso – è un difetto tanto eclatante quanto
sfuggente, dalle cause ancora ignote e la logopedia non è riconosciuta come
disciplina medica”. Tanto che il piccolo Bertie cresce avvolto da un
pesante guscio di apparente riservatezza, o meglio di vergogna, da parte della
famiglia e, soprattutto, di un padre severo, autoritario e inflessibile di
fronte alle manifeste ‘deficienze’ di un figlio che non si sa come trattare.
Bertie non è amato, né capito. “Allevato
ed educato – ha continuato a raccontare il simpaticissimo Peter Conradi - in assenza d’affetto e d’incoraggiamento
paterno, si convince presto che la sua esasperata timidezza sia dovuta a vere e
proprie insufficienze intellettive, sprofondando ancor di più nell’insicurezza.”
Così, mentre nel suo animo si affastellano ansie, dubbi e frustrazioni, fuori
Bertie deve continuamente affrontare le pressioni sociali che gli vengono
imposte. E’ costretto sin da piccolo a imparare tre idiomi contemporaneamente –
il francese e il tedesco, oltre la madrelingua – impegno che certamente
contribuisce non poco alla confusione interiore del Principe. Viene, inoltre,
forzato a correggere il naturale approccio alla scrittura, essendo mancino,
istinto evidentemente non gradito alla famiglia. Infine, deve sopportare il
senso d’inferiorità rispetto al fratello di poco più grande, molto più agile e
intraprendente rispetto a lui. Tutto questo scolpisce nell’animo sensibile del
Principe profonde ferite, accentuando il suo difetto di pronuncia.
Oggi si sa che la balbuzie è
dovuta a fattori genetici e che il tessuto familiare e il clima psicologico
possono essere scintille scatenanti ma non determinanti della malattia. Oggi si
sa anche come intervenire e, nonostante i molti ciarlatani, affabulatori di magiche
ricette, esistono associazioni mediche serie che offrono cure certe e
professionali. Il Principe Albert, invece, ha potuto contare esclusivamente
sull’amore della moglie, la propria forza di volontà e la straordinaria guida
di Lionel Logue. L’unico che ha saputo trattare la malattia come un problema
fisico e non mentale, curabile quindi attraverso complesse tecniche di
rilassamento muscolare, controllo del respiro ed esercizi di pronuncia, insieme
a un intenso affiatamento emotivo e affettivo con il suo paziente.
A proposito di Lionel, quando
Mark Logue, suo nipote, ha ripreso la parola, ci ha spiegato di non aver mai
conosciuto il nonno, se non attraverso le lettere rinvenute, utilizzate poi per
la stesura del libro e la messa in scena del film. “E’ stato emozionante, una vera avventura – ha raccontato – assistere alla ‘rinascita’ del nonno dopo
tanti anni, oltretutto con una risonanza mediatica così straordinaria e
inattesa. Le lettere sono tutte scritte a matita e ben tenute ...” Da esse
trapela tutta l’intensità del profondo legame tra Lionel e il futuro Re, legame
che li ha uniti oltre la terapia, fino alla morte stessa di Re Giorgio VI,
avvenuta nel ’52. L’amicizia e il rispetto reciproco tra i due uomini ha creato
anche un collante affettivo a Corte, tanto che la Regina Madre, dopo la
scomparsa prematura del figlio, scriverà una lettera a Lionel per ringraziarlo
personalmente per l’aiuto prezioso offerto al Re, uomo giusto e generoso. Del resto, durante il cammino terapeutico,
Lionel è entrato a far parte della vita quotidiana della famiglia reale,
trascorrendo le feste di Natale a Corte e affiancando Bertie in ogni occasione
pubblica, prima come Duca di York, poi come Re Giorgio VI. Lionel è diventato
un padre per lui e l’ha accompagnato nel suo cammino esistenziale, consapevole
del fatto che, prima o poi, questo ‘figlio’ avrebbe imparato a camminare da
solo.
E così è stato: il bambino
insicuro è diventato, piano piano, uomo. E di quel ragazzo paralizzato davanti
alle persone, ammutolito di fronte alla radio e fagocitato da qualsiasi platea,
incapace di pronunciare quella parola così difficile “King” … quella “K”
insormontabile come un macigno impossibile per lui da dire … ecco, di quel
ragazzo non è rimasto che un pallido ricordo.
Re Giorgio VI è ricordato oggi
per le sue riforme e la sua politica ed è ammirato per aver saputo condurre e
rappresentare con orgoglio la sua Nazione. Il suo successo è coronato da un
memorabile discorso rivolto ai suoi sudditi, pronunciato con dignità in piedi,
dall’alto del suo potere, sostenuto dall’affetto sincero della moglie, delle
figlie e, naturalmente, di Lionel Logue. E ora, grazie al libro “Il discorso del Re”, anche il piccolo
Bertie è entrato a far parte della Storia, esempio di forza di volontà, di
tenacia e di onestà d’animo, virtù senza le quali anche l’abile Lionel, forse,
non avrebbe potuto essere d’alcun aiuto, né lasciare nel tempo un segno di sé.
“Mio nonno Lionel è sempre stato molto riservato nel suo lavoro e non
ha mai confidato segreti professionali ad alcuno … - ha concluso Mark
Logue, custode tra l’altro dell’Archivio dedicato al nonno - Non ha mai cercato di vendere la sua storia
e quando già negli anni ’80 si parlava di mettere in scena un pezzo teatrale
sulla vita di Lionel Logue, la Regina Madre s’oppose. Finché lei sarebbe stata in vita – questa è stata la volontà della
Regina – nessuna messa in scena sarebbe stata concessa.” Infatti, sono
trascorsi trent’anni prima di poter rendere pubblica la storia e farne un film.
Film che è stato fortemente voluto dai registi, convinti, leggendo le carte di
Logue, del fascino storico e scientifico di questa vicenda, tanto che molti
diritti di esclusiva alla proiezione sostengono alcune comunità mediche inglesi
e americane che si occupano di balbuzie. Ora, sull’onda di questo successo (il
film è tradotto in 25 lingue) si stanno moltiplicando altri racconti più o meno
romanzati attorno alla vita di Lionel Logue che, da pseudo medico, si sta
trasformando in vero e proprio mito storico e mediatico.
Quella narrata ne “Il discorso del re” è, tuttavia,
l’unica storia autentica. Ha sorriso, infine, quasi imbarazzato Mark Logue,
raccontando tutto questo, incredulo forse di fronte a tanto clamore ma
certamente fiero di un nonno che ha contribuito a far conoscere un inedito Re
Giorgio VI al mondo.
La serata, animata da molte
domande e simpatiche battute - nonostante la serietà dell’argomento – s’è
conclusa con un’ultima provocazione da parte degli autori, curiosi di sapere se
tra il pubblico ci fosse qualche logopedista desideroso di esprimere una sua
testimonianza. Con mia sorpresa, un omone alto dai capelli folti e bianchi, s’è
alzato proprio davanti a me e ha preso la parola, ringraziando profusamente gli
ospiti e protraendosi in complimenti sinceri. Dopo di che si è presentato: “Non sono un logopedista – ha detto - bensì un balbuziente o, meglio, un ex
balbuziente”. Mi ha colpito la disinvoltura delle sue parole, testimonianza
viva della sua personale vittoria sulla malattia. Ascoltare il breve intervento
di quest’uomo è stata l’ulteriore conferma di quanto questo libro racchiuda in
sé molto più di una vicenda storica e di come gli autori siano riusciti a dare
respiro a una dimensione psicologica sommersa, con una sensibilità e un
rispetto rari, intrecciandola magistralmente al denso contesto storico.
“Mi raccomando – hanno concluso gli ospiti prima di salutare e
lasciare il palco tra gli applausi – leggete
il libro, perché se il film è bello, il libro lo è molto di più!”
Uscendo dalla sala con il libro
sottobraccio, rimescolavo mentalmente pensieri e sensazioni e tra tutte vinceva
la parlata spigliata di Peter Conradi che aveva fatto quasi da contraltare alla
presenza più discreta e riservata di Mark Logue. Non so perché ma Conradi mi
aveva trasmesso una spontanea simpatia con quel suo humor vagamente
mediterraneo e mi son domandata, sorridendo, se sapesse dell’esistenza di un
vecchio giornalino, famoso in Italia negli anni Quaranta. S’intitolava “Il
Balilla” – qualche lettore non più giovanissimo lo ricorderà - e propagandava
un’ostentata antipatia verso gli Inglesi in favore della stima per i Tedeschi. Ebbene, una vignetta per niente
ossequiosa nei confronti di Re Giorgio VI, che appariva tutte le settimane in
prima pagina, esordiva così: “Re Giorgetto d’Inghilterra, per paura della
Guerra, chiede aiuto e protezione al Ministro Churchillone …” Poi, seguiva, di volta in volta, un episodio
di fantasia, in cui gli Inglesi risultavano immancabilmente degli sfigati, mentre
gli Italiani erano sempre gli strafottenti vincitori, grazie naturalmente all’aiuto
dei camerati tedeschi.
Ora, preferisco pensare che né Peter Conradi, né Mark Logue conoscano
quello strambo giornaletto dei tempi che furono. Ciò che conta è che il loro
bel libro ha dato nuova vita a un coraggioso sovrano, riscattandolo
definitivamente da pittoresche leggende e irriverenti fumetti, restituendo così
la sua regale dignità umana e il suo reale valore simbolico alla Storia.
Yoku mireba
E' probabile che Matsuo Bashō, poeta giapponese del Seicento, stesse vagando per una delle sue usuali passeggiate nella Natura senza una meta precisa, quando, d’improvviso, notò qualcosa che se ne stava trascurato dietro una siepe. Si fece lentamente più vicino, guardò meglio e scoprì che si trattava semplicemente di una piantina selvatica, insignificante, a dire il vero poco attraente, che di certo sarebbe passata inosservata a qualsiasi altro viandante. A Bashō, tuttavia, quella misera piantina arruffata suscitò un improvviso sentimento di ammirazione e di profonda commozione, tanto che le dedicò d’istinto una poesia, uno dei suoi tanti, bellissimi haiku, dal titolo “Yoku mireba” ovvero “Quando guardo attentamente”:
Yoku mireba
Nazuna hana saku
Kakine kana.
Che
in italiano si traduce così:
Quando io guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe.
Non
è per tutti facile cogliere il sentimento che queste diciassette sillabe
trasmettono, soprattutto se non si è particolarmente sensibili alla Natura e
alle cose semplici, nude, pure. Immagino che per riuscire a vibrare e ad
animarsi di tanta commozione di fronte a una pianticella nascosta, quasi
disprezzabile, occorra tanta genuinità e altrettanta umiltà.
Non
somiglia forse a un bambino, in questo, il poeta che coglie con occhi stupiti
la bellezza della semplicità?
La
routine e le abitudini finiscono per spegnere lo slancio delle emozioni e dei
sentimenti buoni, inaridendo così anche il piacere della condivisione e della
comunicazione empatica con gli altri. Se ci pensiamo bene, infatti, le emozioni
non solo ci fanno sprofondare dentro noi stessi, implodendo ed esplodendo al
tempo stesso, ma ci permettono anche di uscire dai confini del nostro ‘io’,
mettendoci in contatto, in risonanza con gli altri e con tutta la Natura.
Qualunque sia lo stato d’animo in cui si naviga, il sentimento in cui si nuota,
è sempre lo stupore quella preziosa fiammella che accende la creatività, lo
spirito poetico e, dunque, il trasferimento delle vibrazioni intime a chi ci
legge, ci guarda o ci ascolta.
La
catena dell'Himalaya può suscitare in noi un senso di sublime, le onde del
Pacifico possono evocarci l'infinità. Ma quando la mente si schiude alla
poesia, al misticismo o alla religione, riusciamo a sentire - forse quasi come Bashō - che persino dentro ogni filo d'erba incolta si nasconde
qualcosa d’immenso che trascende ogni abbietta, venale, superficiale passione
umana. Qualcosa di divino, che ci eleva verso una dimensione il cui splendore
somiglia a quello del Paradiso Terrestre.
Non
abbiamo bisogno di ali artificiali per raggiungere certe vette emotive. Non è
questione di grandezza, di statura, d’imponenza, anzi, è nell’immensamente
piccolo che si celano spesso le vibrazioni più potenti. E’ dentro il nostro
cuore che guardiamo attentamente, in verità, quando ci emozioniamo ... dentro
la nostra Anima che, come una piantina arruffata, dev’essere coltivata con
amore per poter sbocciare e fiorire di colori così stupefacenti da incantare
persino i poeti.
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