C’era una volta una bambina che amava
raccontare le favole al suo migliore amico.
Lei aveva circa quattro anni, proprio come il
suo amico, un bel Setter inglese di nome Teddy.
Lui, occhi dolci da perdersi dentro, l’ascoltava
sempre, serio e attento, come un vero cane da caccia concentrato sulla preda. E
lei non si stancava mai di parlare, di raccontare, persino di domandare se
quella storia gli fosse piaciuta oppure no, se la trovasse divertente oppure
noiosa.
C’era una volta ma per davvero, perché questa
non è una favola. E’ una storia vera.
Oggi quella bambina è donna ormai e non ha
smesso di parlare con i suoi cani che negli anni si sono succeduti come le
stagioni nella vita, sommando ricordi indelebili, calcificando emozioni che si
sono via via impreziosite con la maturità.
Naturalmente, come per il primo amore, anche
il primo cane non si scorda mai e resta in qualche modo unico, fonte di un
imprinting emotivo speciale che in un certo senso sarà la misura per i successivi
amori. Impossibile quantificare per davvero l’affetto per una creatura, sia
umana sia animale, tutt’al più ripensandoci si avverte nel cuore una specie di vibrazione
più forte, più intensa, legata spesso a un ricordo particolarmente
significativo, un istante di gioia o di improvviso dolore.
Con Teddy i ricordi accumulati dalla bambina sono
tantissimi e ancora vivi, nonostante il tempo passato. Lui e lei hanno vissuto
insieme circa quattro anni, anni felici, fatti di estati calde trascorse in un
giardino rigoglioso di fiori e di piante da frutto e di lunghi inverni bui
dov’era bello coccolarsi insieme al caldo di una coperta di lana ai piedi delle
scale. Era lì soprattutto che lei gli raccontava le favole.
Favole e poesie. Perché con l’inizio della prima
elementare Teddy era diventato il maestro di ripetizione della bambina:
ascoltava le lezioni di storia, di geografia ma soprattutto ascoltava le poesie
che lei doveva imparare a memoria. Inutile dire che con tanto esercizio la
bambina collezionava ottimi voti a scuola!
Per premio, o almeno lei immaginava fosse tale
per Teddy, la bambina nei pomeriggi di sole invitava qualche compagna e metteva
in scena un “teatrino” in giardino. L’attore era lui, Teddy, che docile e
benevolo si prestava ad essere vestito e addobbato come un umano per lo stupore
dei bambini. Poveretto! Non s’è mai ribellato, neanche quando era costretto a
infilarsi magliette e calzoncini da cui la coda folta e rigida non sapeva proprio
dove uscire. Forse il vero premio per lui erano le carezze e i biscotti che
tutti gli offrivano finito il grottesco spettacolo, quando sbuffando se ne
andava via per conto suo scrollando il pelo bianco e nero, nudo, finalmente libero
di scodinzolare e di andare a riposare sotto l’albero di albicocche.
La bambina era inconsapevolmente grata a Teddy
per la sua generosa complicità e con gli anni questa gratitudine s’è
trasformata in consapevole affetto, fino a cucire tra i due un legame di
profonda amicizia, nient’affatto diverso da quello tra due esseri umani. Per
lei Teddy aveva un altro clamoroso pregio, oltre alla pazienza, un pregio che
in realtà per gli adulti rappresentava un difetto: lui, Setter inglese doc, a
caccia era una schiappa. Ogni volta che il padre della bambina lo portava con
sé nelle riserve a fiutare lepri e fagiani tornava col sacco vuoto e il fucile
intatto. Scrollava la testa, evidentemente deluso da un cane che sapeva andare
a caccia solo di farfalle, lamentandosi che era tutta colpa delle troppe
carezze e dei vizi che riceveva, che non era più un cane ma un bambino. Era
proprio vero! E lei ne era fiera, così quando lo vedeva rientrare dalla battuta
tutto ansante col pelo zeppo di erbacce e di spighe di grano sulle orecchie,
prima ringraziava il cielo che fosse tornato (perché aveva sempre l’angoscia
che si potesse perdere in una riserva) e poi lo spazzolava con amore fino a
fargli dimenticare la brutta esperienza di spari e di poveri animali braccati.
Un giorno, tornata da scuola, Teddy non era al
cancello ad aspettarla come al solito. Lei aveva capito immediatamente che
qualcosa di brutto era successo. Del resto erano giorni che aleggiava
un’atmosfera strana in casa: i silenzi dei genitori dicono più delle parole. In
quel periodo, infatti, Teddy aveva cominciato a soffrire di crisi epilettiche,
convulsioni improvvise che lo lasciavano stremato per lunghi minuti. Non si
sapeva perché, solo succedeva e quando capitava bisognava intervenire subito
con uno zuccherino imbevuto di valium, più altre medicine a lei sconosciute.
Capirlo era facile ma accettarlo no. Da quel momento le sue mattine a scuola
sembravano lunghissime, pesanti, immobili, non vedeva l’ora di scappare a casa
per vedere se Teddy stesse bene, e imparare poesie non le piaceva più. E’ stata
una mattina di tardo ottobre che, tornando a casa con la solita ansia, il
dubbio era diventato certezza. L’amarezza del vuoto, il peso del silenzio,
l’impotenza dei genitori. Sopraffatta da un nodo in gola, la bambina non aveva
nemmeno dovuto chiedere. Solo voleva sapere se c’era qualcuno vicino a lui in
quel momento, se aveva avuto il suo ultimo zuccherino al valium, se aveva
sofferto … Ma per paura di sapere se n’era stata zitta e con le lacrime agli
occhi, chiusa in un dolore ingiusto ancora troppo grande da capire, stringeva
col pensiero forte a sé il suo più caro amico: Teddy, il Setter inglese che non
sapeva cacciare e che ancora oggi, lei ne è certa, sarà da qualche parte,
libero di correre dietro alle farfalle.
La promessa a se stessa di non desiderare mai
più un cane in vita sua è durata meno di un anno. Ogni lutto, si sa, ha una sua
evoluzione e l’elaborazione aiuta a crescere.
Ricky è capitato per caso. Un pomeriggio di
piena estate, durante un’uscita in auto, un buffo cagnolino a metà tra un
biondo Yorkshire e un bruno volpino s’era messo in testa di voler a tutti i
costi salire in macchina con lei e la madre. Abbaiava proprio a lei, alla sua
portiera, e con slancio d’istintivo soccorso verso chi implora aiuto, la
bambina ha aperto la portiera, è scesa dall’auto e lo sconosciuto le è letteralmente
saltato tra le braccia. “Ti prego, ti
prego, si chiama Ricky e vuole assolutamente venire a casa con noi!”
supplicava alla madre già rassegnata. E così Ricky, non si sa poi il perché di
quell’improvvisato battesimo, se n’è andato con loro, godendo degli stravizi
della bambina per qualche mese. Sembrava felice, lei anche, compatibilmente con
il ricordo ancora caldo di Teddy. Eppure, nonostante le effusioni quotidiane e
i giocosi scambi di tenerezze, tra i due non si è mai allacciato un dialogo emotivo
completo. Forse perché non ce n’è stato il tempo: Ricky evidentemente era uno
spirito libero, un avventuriero, un vagabondo e forse non per sua volontà. Probabilmente,
era rimasto fedele a qualcun altro e la sua lealtà lo portava ogni volta via,
lontano. Fatto sta che ripetutamente aveva tentato di scappare, magari alla
ricerca della sua prima casa, della sua vera famiglia, chissà. Fino a quando
non è più tornato. Questa volta la bambina, nonostante la delusione, non aveva
pianto ma le era servita la lezione: un cane non si affeziona a chiunque, può
mostrarsi obbediente e grato ma l’amore è qualcos’altro. E Ricky forse era
andato via proprio con la speranza di ritrovarlo.
Sperando di rallegrare la bambina, ormai
ragazzina a dire il vero, suo padre le regalò per un suo compleanno una
cucciola di Breton. Era l’età della prima adolescenza, la più controversa, e
una compagnia pelosa poteva essere senz’altro una valvola di sfogo per lei,
solitaria e introversa per natura. Certo che quella cucciola - l’aveva
battezzata Lady - era proprio buffa. Sembrava isterica, irrefrenabile, sempre di
corsa, in perpetuo movimento come fosse stata caricata a molla. Dal pelo
rossiccio e bianco sparavano due occhietti azzurrissimi, accesi come lampi di
ghiaccio, e a studiarla bene la ragazzina ci mise poco a capire che le femmine
sono molto più furbe dei maschi. Anche tra i cani! Lady era disobbediente,
testarda, irriverente eppure divertente e affabile con lei: forse l’aggettivo
giusto è “ruffiana”. Inutile dire che il padre aveva scelto proprio un Breton
perché in cuor suo sperava di allevare un alleato di caccia questa volta. In
realtà il fallimento è stato ancora più clamoroso: Lady sembrava non avere
“tartufo” che per torte e biscotti, nessun istinto di predatore, sempre
distratta e indifferente al richiamo. Ma come si faceva a non volerle bene
quando, dopo mille rimproveri, veniva vicino col muso basso e si sottometteva
con le zampe in aria, mendicante perdono. Aveva una pancia rosa e tenera come
quella di un maialino da latte, dello stesso colore del tartufo ma più
delicata.
La sua vera natura si manifestò quando, un
paio d’anni dopo, le fu presentato un bel Breton maschio e fu amore a prima
vista. La ragazzina era cresciuta abbastanza ormai e aveva imparato a rispettare
la volontà degli altri, anche (e soprattutto) quella degli animali. Lady aveva
preferito trasferirsi nella famiglia del suo nuovo compagno, una famiglia di
bravi allevatori, dove negli anni a venire avrebbe dato alla luce diverse
cucciolate, tutte promettenti a caccia. Nel frattempo il padre della bambina
aveva deciso di appendere il fucile al chiodo o, per lo meno, di dedicarsi solo
al tiro al piattello, e in quello era un vero campione. Da quel momento, niente
più caccia, né cani frustrati, né bambine straziate.
Semplicemente io e i cani che avrebbero
accompagnato il resto della mia vita.
Né Ricky né Lady hanno lasciato un’impronta
tanto profonda come Teddy nel mio cuore. E devo dire che altri tentativi di
adottare trovatelli, o di farmi scegliere io da loro, non hanno costruito un
rapporto d’amicizia tanto intenso come il primo. Tuttavia, ogni cane con il suo
modo d’essere, il suo temperamento e le sue esigenze ha aggiunto qualcosa alla
mia esistenza. Ognuno a suo modo mi ha aiutato a capire la natura non solo
animale ma anche umana. Perché le reazioni emotive che i cani muovono in noi implicano
reciprocità: insegnano a capirsi, a correggersi e a migliorarsi.
Avrei dovuto aspettare fino ai diciotto anni
prima di innamorarmi nuovamente di un cane e guarda caso si trattava ancora una
volta di un cacciatore. Lei si chiamava Tris ed era uno spettacolo di Setter
irlandese. Il suo manto da cucciola era una promessa di rosso vivo ma non aveva
ancora la lucentezza che avrebbe acquistato crescendo. A sette mesi Tris era già
tutto un guizzo di energia, sembrava un cavallo purosangue tanto era regale e col
suo portamento altezzoso pareva essere consapevole di tanta bellezza. Dicono
che i padroni finiscono con il somigliare ai propri cani. Ebbene mi sentivo
fiera di somigliare a lei quando insieme passeggiavamo per la città: tutti ci
guardavano e la mia vanità di giovane donna era addolcita proprio dalla
tenerezza che provavo per Tris. Anche lei non ci ha messo molto a dimostrarmi
quanto siano più sveglie le femmine rispetto ai maschi. Sembrava calcolare,
studiare, immaginare e prevedere. Sapeva quando sarebbe potuta entrare in
cucina senza essere vista e rubare l’arrosto, senza fare il minimo rumore,
senza sporcare. E sapeva quando sarebbe stato il momento di nascondersi sotto l’acero
per sottrarsi al bagno che non poteva sopportare. Così come sapeva quando
l’avrei portata a passeggio, cosa che adorava, bastava io la guardassi in un
certo modo e sussurrassi canticchiando “Triiiis
…” e lei cominciava a correre per tutto il giardino come per annunciare a
tutti l’evento. Poi, dopo almeno tre giri di forsennata corsa, s’accucciava
docile per farsi infilare collare e guinzaglio, e via … fuori a farsi ammirare.
Era tanto bella quanto schiva e non le piaceva
farsi fotografare. Non so perché ma appena mi vedeva comparire armata di
macchina fotografica assumeva un’espressione timida, vergognosa e con le
orecchie basse sembrava chiedermi “no ti
prego, le foto no!”. Nonostante le tacite proteste ho rubato scatti
bellissimi a Tris e oggi sono tra i ricordi più intensi che ho di quegli anni,
anni ancora felici. Al contrario di Lady, Tris non aveva gusti facili in fatto
di maschi e tutti i tentativi per farla accoppiare con aitanti Setter irlandesi
sono andati a vuoto. Solo un amante ha accettato: un goffo cagnetto nero che
veniva a trovarla di tanto in tanto davanti al cancello di casa. Basso, tarchiato
e spelacchiato arrivava appena all’altezza di annusare e leccare ciò che più
gli piaceva ed io, spiandoli da lontano, intuivo il segreto godimento che lei
provava a quel contatto, perché il pelo lungo la schiena le si rizzava in modo spudorato.
Beati gli animali che non conoscono
vergogna! pensavo tra me e me facendomi in disparte per lasciarli al loro
legittimo piacere.
Abbiamo vissuto nove anni insieme. Tris ha
condiviso con me alcuni momenti fondamentali della mia vita: i miei studi
universitari, il mio matrimonio e la morte di mio padre al quale è stata
inspiegabilmente vicino nel lungo istante in cui si è spento. Gli è stata
accovacciata ai piedi del letto tutto il tempo quella notte: evidentemente lei
aveva sentito in anticipo il momento in cui la morte sarebbe arrivata.
Anche Tris se n’è andata precocemente dopo una
brutta malattia all’utero per cui non ci sarebbe stata soluzione ma solo un
sofferto accanimento. Nonostante il verdetto del veterinario, infatti, ho
tentato di tutto per tenerla in forze, per stimolarla a mangiare, a bere, a
camminare. Fino a che, me lo ricordo benissimo come fosse oggi, al mio ennesimo
tentativo di farla alzare dal lettino, s’è buttata senza forze su un fianco e
mi ha guardato dritto negli occhi. Dignitosa e riconoscente insieme, sembrava
chiedermi di lasciarla andare, di darle la sua pace, svuotata ormai di quel
guizzo d’energia che l’aveva animata per tanti anni. Bella, intelligente e
fiera Tris ha lasciato un grande vuoto in me, un vuoto riempito dai ricordi e
da quelle rare fotografie che ero riuscita a rubare alla sua anima schiva.
Tris aveva fatto appena in tempo a conoscere
Gabriele, mio figlio, il quale subito aveva suscitato grande gelosia in lei. Lo
notavo dalla posizione delle orecchie spostate all’indietro, in un misto di
timore e diffidenza, quando si trovava al cospetto di quel fagottino morbido e
profumato. Si capiva, un bambino per casa avrebbe significato meno tempo e meno
attenzioni per lei. Ma quando se n’è andata mi son chiesta come fosse possibile
far crescere un figlio senza cani attorno? Non potevo non dare a Gabriele la
possibilità di vivere le stesse emozioni che avevo provato io durante
l’infanzia, nel bene e nel male. Così circa due anni dopo è arrivato Oscar!
L’occasione era troppo golosa: una cucciolata
di otto Boxer aspettava famiglie amorevoli che si prendessero cura di loro. E
chi meglio di noi? Oscar era il più grande, il più robusto e il più prepotente
tra i piccoli e non ho resistito. L’ho scelto forse per esorcizzare la
fragilità che Tris, con la sua femminilità ferita, aveva mostrato negli ultimi
mesi di vita. E l’avevo chiamato Oscar per via di una vaga somiglianza con il
mio affezionato medico: ampio torace, vita snella, muscolatura da atleta. Oscar
cane era così grazie alla generosità della natura; Oscar dottore, grazie
all’abilità del suo personal trainer!
Pratico e materiale, Oscar aveva un manto
morbido color del miele ma era un pochino rude. Sembrava dare poca importanza
ai sentimenti e badava piuttosto ai fatti concreti: pappa, ossa, passeggiate e anche
coccole naturalmente. Ma sembrava che le carezze si fermassero alle sensazioni
tattili più superficiali, più esterne. Mentre Teddy, per esempio, rivelava una
sensibilità più vibrante guardandomi negli occhi con una riconoscenza
squisitamente umana, Oscar se la godeva, punto e basta. Ma forse ero io a
proiettare su di lui (e su Teddy prima di lui) sensazioni mie e in realtà non è
mai giusto antropomorfizzare gli animali attribuendo loro sfumature emotive
nostre. Dovremmo imparare ad ascoltarli, non interpretarli. Comunque sia, Oscar
s’è rivelato un degno compagno di giochi per un bambino sveglio e con la
vocazione al comando come il mio: robusto ma rispettoso, lo buttava
regolarmente a terra col suo pesante slancio ma non gli ha mai fatto male. Così
Gabriele ha imparato la reciprocità del rispetto, senza mai abusare della
pazienza di Oscar che, dietro quel muso apparentemente truce, nascondeva in
verità tanta bontà.
E’ proprio vero che non ci si abitua mai al
dolore di separarsi da un affetto. Così quando Oscar s’è ammalato ai polmoni mi
son trovata del tutto impreparata ad affrontare un’altra volta la perdita di un
cane. E nonostante mi fossi ripromessa di non usare più accanimenti terapeutici
dopo l’esperienza con Tris, non ce l’ho fatta e per diversi giorni, fino
all’ultimo, si è tentato di tenerlo in vita con medicine e cure in realtà vane.
L’unica consolazione è stata averlo riportato a casa in tempo perché posasse il
suo muso non più truce sul cuscino e si addormentasse sul suo divano preferito,
una sera di un freddo inverno, lungo e piovoso. Un inverno da dimenticare.
Ma come dicevo all’inizio, ad ogni stagione ne
succede un’altra. E’ inevitabile, è la natura. E anche i sentimenti sono fatti
per essere continuamente alimentati, non sostituiti ma rinnovati in una
ciclicità che insegue l’infinito.
Così, il vuoto che aveva lasciato Oscar è
stato colmato da un nuovo arrivo. Questa volta è stato Gabriele a sentire il
desiderio di avere un cane, evidentemente il sentimento d’affetto che speravo
imparasse a nutrire per gli animali aveva attecchito. Combattuta, tentata e
subito conquistata dalle sue convincenti insistenze, ho lasciato che facesse la
sua scelta.
Rocky vive ancora con noi. E’ un Cane còrso un
po’ particolare, perché pur essendo un molosso – quindi possente, robusto e dal
temperamento potenzialmente grintoso – è in assoluto il cane più docile, pacato
e remissivo che abbia mai conosciuto.
Avremmo dovuto capirlo subito quando sette
anni fa, arrivati all’allevamento, ci sono venuti incontro due cuccioli, gli
ultimi rimasti da una folta cucciolata di còrsi. Una era una femmina, l’altro
un maschio, entrambi col manto tigrato su fondo fulvo e gli occhi languidi. E’
bastato un attimo: la femmina è arrivata per prima e quando è sopraggiunto il
fratellino, lei lo ha scaraventato da parte con le zampe costringendolo a
sottomettersi, sdraiato sulla pancia, piatto piatto come uno zerbino. E’ li che
abbiamo deciso: Rocky, il fratellino, avrebbe fatto parte della nostra
famiglia!
La specialità di Rocky si è manifestata da
subito, già in macchina durante il viaggio verso casa: era, ed è tutt’oggi,
quella di dormire. E di russare sonoramente. Ovunque si posi s’addormenta, di
un sonno istantaneo, beato, limpido, di chi è in pace con il mondo. Tra lui e
me s’è stretto un legame profondo in questi anni, un legame disarmante che mi
riporta a quello con Teddy anche se i due sono completamente opposti.
Inutile dire che Rocky non ha mai dimostrato
di avere la stoffa per comportarsi da cane da guardia o da difesa, come le
potenzialità della sua razza suggeriscono. Lui gongola in un mondo tutto suo in
cui esistiamo solo noi, agli estranei non presta grande attenzione, qualche
pigro abbaio ai passanti, un accenno di scodinzolamento ai bambini che vengono
a salutarlo. Ma essenzialmente lui vive per la famiglia. Nemmeno la pappa è
tanto importante quanto la vicinanza con noi: ogni volta che gliela servo,
prima di cominciare a mangiare resta qualche istante fermo a guardarmi, fisso
immobile, senza neanche sbavare. E’ come se mi ringraziasse o, per assurdo, mi
invitasse a condividere il pasto con lui, tanto sembra benevola la sua
espressione. Tra i suoi occhi e i miei si svolgono sempre lunghe conversazioni
e quando gli prendo la testa tra le mani sprofondando dentro il suo sguardo mi
domando chi ci sia in realtà lì dentro … Chi
sei Rocky? Chi sei veramente, tu che sembri più umano di tanti esseri umani?
Ed e’ sempre uno strazio lasciarlo: le mie
frequenti partenze e le mie lunghe assenze sono una sofferenza, per lui e per
me. Lo mandano in depressione, e anch’io lo avverto. Quando sente le ruote del
trolley sulla ghiaia del giardino, emerge d’un lampo dal suo profondo sonno e
mi viene incontro piano, quasi in punta di zampe, guardandomi storto con la
testa piegata da un lato. “Ma come, vai
via ancora? Ma se sei appena tornata …”. Il suo sguardo interrogativo è un
rimprovero più tagliente di qualunque parola e non posso che dargli ragione:
lui è leale con me, io invece lo abbandono. Il resto della famiglia lo coccola
e ne ha cura tanto quanto me, eppure è indiscutibile l’esclusività che il
nostro rapporto ha assunto in questi sette anni di vita insieme. E così quando
ci si lascia per un po’, inevitabilmente si soffre. Ma l’emozione del ritorno …
la gioia del rivedersi … la festa di riabbracciarsi! Ecco, è proprio il momento
del ritorno da un viaggio che mi ha fatto scoprire l’altra specialità di Rocky,
oltre a quella di dormire: è quella di ridere! Sì, quando mi sente arrivare e
mi vede entrare dal cancello, comincia a correre da lontano e io lo osservo con
l’occhio di un regista, srotolando la scena alla moviola per non perderne un
solo fotogramma. Lui corre, corre e la soffice pelle del muso sobbalza molle in
su e in giù, in un buffo ondeggiare al ritmo della possente cavalcata,
scoprendo i denti candidi e le gengive sanguigne. E mentre avanza così
impetuoso, ecco che la bocca gli si allarga sempre più, si dilata in un
movimento volontario e gli angoli si tirano fino alle orecchie. E a quel punto
Rocky comincia ad emettere dei mugolii umani che somigliano a un canto allegro,
prolungato e acuto: è il suo modo di ridere! E non ridete voi che leggete, è
cosa seria questa, perché dovreste vederlo e ascoltarlo per capire davvero
l’emozione, la profonda gioia che anche un cane può manifestare in momenti
intensi come questo.
Non gli restituirò mai abbastanza amore
rispetto a quello che lui manifesta per me. E così, forse, questo è stato vero
per tutti gli altri cani della mia vita che tanto mi hanno dato senza chiedere
niente in cambio se non affetto e rispetto.
C’era una volta una bambina e forse c’è
ancora.
Non voglio pensare alle
prossime stagioni ora, è troppo bella questa. Vorrei fermarmi qui, con i miei
ricordi, con il mio presente e con la speranza di continuare a far ridere Rocky
il più a lungo possibile.