Che cos’hanno in comune Edmondo De Amicis e Cesare Lombroso?
Apparentemente nulla, a parte il periodo storico in cui vissero,
la metà dell’Ottocento. Romantico scrittore, celebre autore del libro
strappalacrime forse più letto in assoluto, “Cuore”, il primo; psichiatra e
antropologo dalle discusse convinzioni materialistiche in materia di psicologia
criminale, il secondo.
Eppure, qualcosa di estraneo alle loro personali sfere d’indagine
creativa, la letteratura e la criminologia, li accomuna: il Vino!
Sì, perché nell’inverno del 1880, alla Società Filotecnica
di Torino, si tenne un curioso seminario articolato di undici conferenze aventi
come tema “Il Vino”. Ognuno degli undici relatori fu invitato ad affrontare
l’argomento rapportando di volta in volta il nettare di Bacco a: leggenda,
letteratura, patologia, fisiologia, chimica, botanica, commercio, delitto,
poesia e storia naturale. Undici ‘stelle’ in cattedra, un po’ come una squadra
di calcio …del resto il football approdava a Torino proprio in quegli anni,
essendo del 1887 la fondazione calcistica del primo club cittadino!).
Due di questi luminari invitati a proferire furono proprio
De Amicis e Lombroso. Il primo titolò l’intervento “Gli effetti psicologici del Vino”, il secondo “Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia”.
I due discorsi, orchestrati insieme agli altri dal poeta e
critico Arturo Graf, suonarono come veri e propri saggi di scrittura, specchio
della cultura e delle inclinazioni di quel tempo rispetto alla concezione del Vino
nella società. Pertanto sono stati recuperati e raccolti in un saggio edito da
Loescher, recentemente riedito, per il piacere di chi, con gioiosa curiosità sa
spiluccare qua e là tra gli scaffali di librerie sopravvissute alla superficiale
commercializzazione di parolai. Questo libro s’intitola “Il Vino, Anima e Psiche”.
Decisamente “bozzettista”, De Amicis affronta il tema con
l’esperienza del bevitore che si dice fosse, raccontando in maniera divertita e
divertente il sottile sconfinare dalla leggera ebbrezza alla “ciucca triste”,
perché l’ebbrezza cresce a ondate e porta alla deriva. Una sorta di
autoritratto, il suo, quello di un bevitore ideale alla rovescia, bonariamenete
eccessivo, sempre alla ricerca di sollecitare, attraverso un sorso in più, il
sentimento amoroso, galvanizzando il sistema dei sensi ma finendo puntualmente
col risultare ridicolo, persino a se stesso. “L’ebbrezza non è che malattia di poche ore, e di guarigione sicura, …”
scrive “prima farfalla che spicca quasi
all’improvviso nella mente … piccolo sfogo di giovialità e di spensieratezza,
ove la conversazione procede mirabilmente e i dispiaceri retrocedono nell’ombra
come in uno spettacolo teatrale … Ma improvvisamente – e prima o poi segue
sempre – il vetro rosato a traverso al quale vedevamo il mondo, scompare: tutte
le cose ripigliano l’aspetto reale, tutti i pensieri molesti ritornano in
folla, e siamo quasi sopraffatti da un sentimento di sgomento.” Leggendo
attraverso il suo “faccione incorporato
dal Barbera”, De Amicis tocca tutte le sfumature umorali dell’ebbrezza,
dall’eccitazione, alla commozione, alla malinconia, all’ira, di cui il bevitore
è nello stesso tempo reo, vittima e ludibrio. Ma lo fa sempre con ironica
benevolenza, consapevole dell’umana fallacia e della duplice anima del vino.
“Ecco le due opposte
potenze del vino, o meglio i due vini: l’uno è il veleno che trascina all’ozio,
all’instupidimento, alla prigione, alla tomba, e questo fuggiamolo ….; l’altro
è quello che fa alzare il calice, la fronte e il pensiero, che mette all’operaio
la forza nel braccio e il canto sulle labbra … che riscalda le vene dei nostri
vecchi, aggiunge un sorriso all’amicizia e una scintilla all’amore …E questo
onoriamolo benedicendo le due grandi forze benefiche a cui andiamo debitori: la
fecondità della Terra e il lavoro dell’Uomo.”
Più crudamente “scientifico”, com’è nel suo stile, Lombroso si
mostra implacabile nel ritrarre con dati matematici e gelidi grafici
antropologici la “malattia” del bere presso i vari popoli. Solo qua e là tra le
righe semina una pallida velatura di filantropismo e di compassione sociale su
quello che secondo lui è un mappamondo devastante, uno scenario orrorifico
degli effetti brutali del vino sulla fragile natura umana. Parte da lontano,
molto lontano, Lombroso, scomodando Adamo, Eva e il Pomo del peccato, cogliendo
la prima somiglianza tra il sidro ricavato dalla mela e quell’altro estratto
naturale peccaminoso: il Vino, appunto! Da allora nei secoli, ecco che il Vino
s’è fatto complice del lato oscuro della storia umana: subdolo alleato di
efferatezze, violenze, pauperismi, crimini e delitti d’ogni sorta, fino al
suicidio. “L’ubriachezza acuta, isolata, dà luogo per sé sola al delitto perché
arma il braccio, accende le passioni, annebbia la mente e la coscienza e
disarma il pudore – scrive – V’hanno
alcuni bevoni che sono il terrore delle loro famiglie, poiché l’effetto del
vino, del vino triste come lo chiamano i Francesi, non parlano che di ferire,
sgozzare le persone che poco prima erano loro carissime …Quello che nei sobri,
infatti, è una pensata bizzarra e fugace, si muta in costoro rapidamente in
azione, inconscia è vero ma non per questo meno fatale. L’alcol dopo aver
eccitato, indirizzato nella via del delitto la sciagurata vittima con atti
istantanei, ve la mantiene e la inchioda per sempre rendendola un bevitore
abituale, narcotizza i sentimenti più nobili e trasforma in morbosa anche la
compagine cerebrale più sana. … E omicidio e suicidio spesso non sono che una
ultima manifestazione di quella più grave fra le conseguenze dell’alcol: la pazzia.”
Delizioso! Sia le riflessioni di De Amicis, argute e
autoironiche di chi nel Vino sentiva comunque un amico, sia quelle di Lombroso,
cinicamente noir da quello speleologo dei cunicoli cavernosi della psiche quale
egli era, questo volumetto è una chicca di letteratura e di stile.
Al lettore scegliere, in fine, se il Vino è il secondo sangue della razza umana …oppure
una mortale potenza occulta!