LA CASA DEL PIACERE
(racconto anonimo ritrovato in soffitta)
L’aveva capito da subito. Fin dai primi scambi di parole,
lei aveva capito come sarebbe andata a finire. Cioè a letto con lui.
Il piacere perverso di fingersi inconsapevolmente caduta nella
subdola trappola del maschio voglioso l’aveva sempre avuto, sin da
giovanissima. Del resto lasciar credere agli uomini di essere i registi, gli arditi
condottieri delle imprese erotiche, è sempre utile. Primo, per farli sentire sempre
potenti, virili, padroni di sé anche quando dentro vacillano. Secondo, per
evitare di sentirsi troppo peccatrici: l’apparente ingenuità femminile salva
sempre la cortigiana che alberga in ogni regina.
E così anche quella sera era andata secondo i melliflui
piani architettati da lui, tacitamente stimolati da lei.
Il ristorante giapponese doveva essere solo l’elegante anticipo
di un desiderio carnale che rasentava la depravazione più gretta. Il salottino
privato stile ryokan, dove erano stati fatti accomodare, era completamente buio:
la cameriera si era scusata per la mancanza della luce lì dentro, che invece guarda
caso, faceva proprio comodo ai loro sottaciuti scopi. Lui, infatti, ha prontamente
trasformato quell’involuta oscurità nella fortuita miccia di una bomba sensuale
che sarebbe esplosa di li a poco. L’ultima cosa che aveva in mente lui era
mangiare, ovvio. Ma sushi e sashimi tutto sommato rappresentavano l’adatto
preludio a bocconi ben più corposi. E poi vino, assolutamente tanto vino bianco.
Bacco era il pretesto indispensabile tanto a lui, per operare la lenta e
ineluttabile demolizione della volontà di lei, quanto a lei per giustificare
l’indecente disinibizione che già sentiva non riuscire più a contenere.
Un bacio sul collo, una mano tra le cosce… “Bimba, io ti spacco ...” La cena si svolse
prevalentemente sotto, e non sopra, il tavolino di legno, tra gemiti e sospiri
che hanno presto attirato l’attenzione dei commensali seduti nei salottini
accanto. Chi con sdegno chi con invidia, la gente attorno commentava
volutamente ad alta voce l’evidente sdilinquimento che stava prendendo il
sopravvento in quel quadrato buio di voglia e di bambù, appena velato da
inconsistenti tende ricamate di rosso.
Troppo distratti per fare caso a sguardi e commenti, i due erano
già un avido groviglio di mani e di piedi, bocche affamate non più di pesce
crudo ma di carne sanguigna, pulsante, turgida … lingue vogliose di assaporare
liquidi densi e intensi, odorosi di sensi.
Per poco non li hanno sbattuti fuori. Solo la maliziosa
complicità della cameriera li ha protetti e, forse, con un po’ più di tempo a
disposizione anche lei avrebbe gradito partecipare all’arte proibita dei due
perversi clienti.
Ma il tempo, appunto, era poco per essere consumato a tavola.
La notte li aspettava fuori. Così lei, falsamente inebriata dall’abbondante
vino, seguiva diligentemente il copione impaziente di assecondare le torbide brame
di lui. Fingere di sentirsi trainata dai fili di un burattinaio libidinoso la
faceva impazzire, le dava l’alibi perfetto per liberare ogni sua fantasia, per
dar vita a ogni sua ancestrale bestialità. Non ne avrebbe avuto responsabilità
agli occhi di lui, sarebbe stata tutta colpa dell’alcol, cui del resto poteva
sempre dire di non essere abituata. Altra femminea bugia.
Neanche si accorse del tragitto in auto dal ristorante alla
casa. Tutt’a un tratto, come per un incantesimo della mano della notte, il
cancello in ferro battuto si spalancò davanti ai suoi occhi. Proprio come
presto si sarebbe spalancata lei davanti agli occhi di lui.
“Ben arrivata. Questa
è la Casa del Piacere” le sussurrò lui all’orecchio leccandola con voce
così suadente che si sentì lambita fin nelle viscere da un misto di saliva e
parole oscene. Tutto quello che usciva dalla bocca di lui la penetrava, fino a
farla vibrare, perché la sua voce non era solo suono, era contatto. Neanche il
tempo di varcare la soglia, tra piante lussureggianti che parevano animare una
giungla attorno alla villa, che il corpo di lei sembrava avere perso consistenza.
Non aveva più contorni, era solo liquidi e scosse, onde di desiderio che
scivolavano fuori dalla carne per riversarsi ovunque…sul pavimento, sulle
pareti, sul letto, sulle mani di lui. Un lui sempre più determinato a ‘spaccarla’
, a impossessarsi di ogni brandello di quel burattino di burro sciolto sotto la
sua volontà…com’era stato facile,
pensava lui, due bottiglie di vino, un
po’ di quel Giappone che a lei tanto piace, briciole di banali romanticherie, ed
eccola qui finalmente nella mia trappola carnale. La trappola che stavo tessendo
da giorni, da settimane, da anni forse, quando l’avevo incontrata la prima
volta.
Sì, perché lui sentiva che in fondo erano uguali, loro due. Creature
da letto. Animali selvatici vestiti da persone per bene. Ma adesso, lì nella
Casa del Piacere non c’era posto per il perbenismo e nemmeno per i vestiti.
“Vieni, ti porto dal
mio amico, sta dormendo…” Durante la cena le aveva parlato dei suoi due coinquilini, un
giovane nero e un vecchio bianco, sollecitando volutamente in
lei una depravata golosità. E uno di loro, il vecchio bianco, era lì quella
notte, nella camera accanto. In balìa dell’eccitazione che montava sempre più morbosa,
lei s’è lasciata prendere docile per mano, come fosse in trance: i vestiti a
terra, lei avanzava come un fiume che lentamente sgorgava da se stesso, e lui come
una spada rovente pronta ad affondare senza pietà in quelle morbide curve.
L’amico nell’altra stanza, ardito capitano di focose battaglie
da materasso, era un’appetitosa statua di carne, solida e calda, appena avvolta
da un inutile lenzuolo. Era già pronto, altro che dormire. Li stava aspettando
da ore e la sua ferma erezione, degna dell’esperienza che solo un vecchio lupo
può vantare, tradiva l’apparente casualità della situazione. “Ecco lui è il mio amico. Ti presento la mia
amica.” Presentazioni sbrigate in maniera alquanto disinvolta data la
nudità e soprattutto l’appetito reciproco … i tre parevano conoscersi da sempre:
lingua in bocca, mani dappertutto e voglia di precipitarsi con urgenza uno
dentro l’altra.
A lei pareva di riuscire a vedersi dall’alto, sempre più in
trance, di uscire dal proprio corpo e di assistere a quel teatro pornografico come
una guardona rapita in maniacali masturbazioni. I due uomini la prendevano
senza tregua in un continuo abbraccio orgasmico: distingueva l’uno dall’altro
solo per la diversa statura e vaghi indizi sull’età, ma in quell’ansimante
andirivieni di piacere erano due dettagli senza alcuna importanza. Solo i due falli
enormi contavano, tutti presi a conquistarsi ogni spazio libero di lei, a
turno, tra leccate e parole sporche che come una frusta le procuravano gli amplessi
mentali più prepotenti. Le piaceva essere chiamata come a loro piaceva
chiamarla, si sentiva spaccata, eviscerata, persino i lembi di coscienza più recondita
soccombevano ai colpi di quelle parole così sudice e così sublimi.
Tanto quella non era davvero lei: la vera ‘lei’ era là
sopra, in alto sul soffitto a guardare giù, quei due animali che immolavano un
altro animale. Quanti orgasmi…non si contavano, la perdizione aveva calpestato
ogni forma di ragione e dei tre corpi s’era fatto un solo cumulo di saliva,
sudore e umori.
Solo un attimo di respiro, reciproca concessione rubata alla
malata passione, prima di ricominciare. Stavolta fuori, in giardino, mentre il
temporale bussava sopra i loro copri nudi, con tuoni e lampi surreali, forse
anche il temporale voleva guardare. Cullati da quella soffice alcova sotto le
stelle, che evocava le imprese erotiche di un harem occidentale, i tre hanno
riacceso la notte.
Come poteva avere ancora fame di pezzi di carne così grossi,
lei così piccola…l’aveva sempre detto di essere particolarmente inadatta alle
grandi dimensioni e ora nemmeno un tentennamento ad accogliere ancora e ancora quei
muscoli frementi. I due uomini l’hanno adagiata su un soffice divano ricoperto
di bianche lenzuola, sicuramente pregne di promiscui piaceri a lei ancora ignoti.
Sopra le loro teste, un velo trasparente creava un confine psichedelico tra
dentro e fuori, tra notte e giorno, tra paradiso e inferno, tra coscienza e
incoscienza. Lucciole incandescenti piovevano dall’alto di quel velo formando armoniose
curve di colore…una delicatezza artistica che lei trovava stonata dentro quel
marasma di cruda animalità. Ma le piaceva. Le piaceva il contrasto, il
paradosso, l’orrendo e il magnifico, l’odio e l’amore. Le piaceva essere presa
ancora. Vedere i due amici eccitarsi insieme, freneticamente, sopra il suo
corpo ancora implorante, completamente aperto, totalmente devoto al dio Maschio.
Gli occhi dei due fissi su di lei… guardatemi,
vi prego, guardatemi. Adorate la mia carne perché io adoro la vostra. E
così ancora per ore, lingue e mani hanno annichilito anche l’ultimo brandello
di autocontrollo che lei avesse ancora, semmai ne avesse avuto un briciolo quella
notte.
L’orgia dei sensi sfumò sotto colpi sempre più flebili,
quasi senza che nessuno dei tre se ne rendesse ben conto…sprofondando tra le
lenzuola del divano disfatto, evaporando dal velo bianco di lucciole che
parevano schegge di stelle, mentre la pioggia fresca della notte si mescolava
al sudore caldo dei corpi ancora madidi di piacere.
Chissà perché i maschi recuperano sempre in fretta il
proprio autocontrollo dopo una notte di sesso spensierato. Dev’essere qualcosa
di ancestrale, di primordiale, legato alla riproduzione, alla sopravvivenza,
alla fuga: inutile stare lì a perdere tempo con le membra molli quando tutto
ormai è finito e privo di scopo. Come guidati da un invisibile telecomando,
come risvegliati dalla parola chiave di un ipnotista, ecco che normalmente i maschi
si rialzano, si rivestono e si ritrovano anni e anni luce lontani dalle
lenzuola ancora vive di sospiri. Per una donna è diverso. Il torpore fatica a
sfumare e i ragionamenti vengono a galla piano piano, con garbo, con cautela, forse
per non urtare un risveglio che potrebbe rivelarsi inaspettatamente doloroso
per chi ancora vorrebbe sognare.
Di fatti, quella notte l’indolenza nel riprendere possesso
di ogni parte del proprio corpo esorcizzava l’affiorare dei primi pensieri
lucidi nella mente di lei. In quell’aura di confuso languore, dove ogni
dettaglio cominciava a riprendere uno scomodo ordine, solo una cosa le era
chiara: che di quel diabolico intreccio, dove tre corpi erano diventati uno
solo, ora non c’era quasi più traccia. Niente, sparito, nessuna complicità,
nessun dialogo, nessuna attinenza tra i tre Esseri, uniti solo da labili tracce
di un presente che si faceva già ricordo. Tre meteoriti destinate a cadere
lontano l’una dall’altra: due mosse dalla leggerezza dell’abitudine, una dal
peso della trasgressione.
Dio, cos’è successo. Ho
bisogno di guardarmi allo specchio… lo specchio della verità. Meglio far con calma,
piano … c’è tempo per pensare, non sono ancora pronta per capire. Tutta colpa
del vino bianco, del Giappone, di banali romanticherie… Tutta colpa di una magnifica
trappola, di due animali selvatici travestiti da uomini perbene.
Bimba … io ti spacco.
Tutta colpa sua.
Macchè. Solo tutta
colpa mia!