C’ERA UNA VOLTA …
Storia e tradizioni
dei cibi di strada
C’erano una volta i libri viventi, quelli per bambini. Erano
quei libri di fiabe, di racconti, di leggende, in cui da ogni pagina aperta
fuoriusciva una scena narrata, ritagliata e colorata di personaggi e situazioni
che rendevano il libro parlante, animato, “vivo”, appunto.
E sfogliare il libro scritto da Carlo Giuseppe Valli, titolato guarda caso “C’erano una volta i Cibi di Strada”, trasmette quella stessa emozione
fanciullesca ormai perduta: quella di veder comparire davanti agli occhi i
personaggi di cui si sta leggendo, di sentire gli odori delle scene ritratte e
di toccare, anzi meglio, assaporare le fragranze, gli effluvi e gli aromi
sapientemente evocati dalle righe stampate.
Valli, ancora una volta, ha saputo mettere in scena la
cultura del mangiare popolare di un tempo, un tempo non troppo lontano perché
molti dei nostri nonni ancora l’hanno a cuore, scolpita nelle rughe della
fronte e nelle pieghe dell’anima. Certo è che rivivendo le storie di cibi e di
ambulanti, di voci e di parole, di strade e di piazze, anche il tempo della
cultura della fame diventa nostalgico, fatato, e l’amaro sapore della povertà
acquista un piacevole retrogusto d’orgoglio. Da queste pagine emerge, infatti,
un popolo incredibilmente abile a inventare cibi stuzzicanti ed energetici a
partire da una manciata di ingredienti messi insieme, cotti e venduti per le
strade e nelle piazze. Cibi che obbedivano rigorosamente alle leggi delle
stagioni e all’impronta della territorialità, con assoluto rispetto per
l’appartenenza regionale.
Il trippaio, il
porchettaio, il poliparo, la mistucchinaia, la zucca barucca, la polenta o
cara, il mellonaro,il brustolinaio, il venditore di castagnaccio, l’ambulante
della sete … erano tutte figure popolari sgorgate dagli strati più umili
della società che animavano la vita quotidiana delle nostre città, con qualche
colorita variante d’appellativi da regione a regione. Questi girovaghi del
cibo, questi cuochi improvvisati, collocavano ogni giorno negli angoli delle
piazze, dei carrobbi o nelle viuzze dei rioni più frequentati, i propri
trabiccoli di cuocitura coi modesti attrezzi di lavoro. Era una vetrina
itinerante fatta di una caldaia annerita, una fornacetta, un banchetto,
pentolame vario, vasi, catini, cesti e poi le vivande da preparare. “Mestiere individuale, ramingo, solitario,
precario, in qualche modo specializzato poiché ciascuno si basava su un unico
prodotto, singolo e diversificato o al più su una categoria, su una gamma
ristretta, ed aveva il suo andito, la sua demarcazione senza invasioni,
sconfinamenti ed eccessive concorrenze. Tutto al contrario dell’universalismo
odierno, come nei supermercati, dove si tende a vendere di tutto a tutti.”
In verità, i venditori di cibo per strada ci sono sempre
stati, sin dall’antica Roma, e sempre ci saranno, tanto che oggi lo street food è diventato trendy. Ma quelli
là, quegli inconsapevoli attori di un’epoca che pare uscita da un affresco,
erano ignari artefici e artisti di una piccola, geniale commedia culinaria,
svolgendo un ruolo tanto necessario quanto marginale, umile, faticoso. In quel
caleidoscopico universo sociale che era la cultura della fame, gli ambulanti
del cibo rappresentavano una presenza rassicurante e consolante e le recite
alimentari quotidiane non erano solo un’occasione per un assaggio veloce o per
svagare la gola, come oggi a passeggio. Quegli appuntamenti con lo stesso buon
odore che anticipava l’atteso sapore, con lo stesso volto grato proteso dal
banchetto, rappresentavano “una parvenza
d’abbondanza, da paese di Bengodi … un baleno di sogno, un momento di delizia
senza attese e senza pretese”. Persino le autorità cittadine ben
sopportavano questi cuochi ambulanti, da Milano a Venezia, da Roma a Napoli, riconoscendoli
come veri e propri “portatori di
sollievo”.
Ecco cos’era in verità questo leggendario “cibo da strada” raccontato da Valli
attraverso i suoi pittoreschi teatranti di vita vissuta: sentimento, emozione,
gusto di mangiare con gusto, piacere della scoperta, della conquista, del
soddisfacimento d’aver potuto fare la spesa, gioia d’esser vivi e in compagnia
d’altri vivi, gratificazione per quell’aria di festa che, alla faccia della
povertà, aleggiava tutt’intorno e nell’intimo dell’animo.
C’era una volta, oggi forse
non c’è più.