Facile è amare la Natura quando si risveglia. Quando la
primavera sboccia d’inebrianti colori e l’estate schiude i suoi sensuali odori.
Ma si può altrettanto amare la Natura quando si assopisce. Quando
si ritira nel suo letargico sonno, piano piano, in punta di piedi, sottovoce.
Quasi chiedendo scusa alle creature viventi per sottrar loro colori e profumi,
ecco che mesta si avvia verso il suo obbligato regredire, al ritmo ossequioso di
una luce sempre più pallida, sempre più fredda. Fino a liquefarsi in una fragile penombra ai confini col mondo soffice dei sogni.
Così le piante finiscono per somigliare a immobili scheletri
abbozzati in uno sfumato leonardesco, il cielo sembra piovere dentro il lago e
le colline attorno paiono scivolare anch’esse dentro quell’enorme pozza
grigioazzurra che è l’inverno.
Il silenzio si fa forte. Tutto tace. Eppure da qui, tra
cedri e cipressi che come spavaldi scudieri sorvegliano il mio scrivere, sembra
quasi di avvertire un leggero suono, un rumore di sottofondo, denso, costante,
emanato da una sorgente invisibile, vicina o lontana non saprei dire. Sembra un filo teso tra la Natura e me. Che sia il
primo vagito dell’Universo? L’eco sordo del Big Bang? Quella inquietante radiazione cosmica di
fondo sfuggita di bocca alla Terra nell’istante del suo nascere, tanto
impalpabile quanto presente, testimone di immensa forza e precaria certezza?
Ecco che allora, cullata da questo ancestrale lamento mai spento,
sento che la Natura non muore mai per davvero. E che quel suo puntuale, lento e
progressivo sopirsi fino quasi a scomparire non è che un’altra splendente
manifestazione della sua eterna bellezza.
Un altro volto. Un altro vestito. Un altro trucco con cui
lei si mostra, si spiega, si lascia guardare e si lascia amare.
Da chi la sa vedere.