Culebra, l’sola che
non c’è … forse!
Sono ormai pochi gli angoli di mondo sopravissuti alla
barbarie della colonizzazione turistica. Soprattutto frugando tra le Isole
delle Antille, contaminate dall’artificialità della mondanità e del lusso, è
difficile ritrovare la bellezza semplice della verginità. Eppure è ancora
possibile.
Svelare il nome dell’Isola che mi ha innamorato per la sua disarmante
esuberanza, nuda di artifici e ancora sufficientemente refrattaria alla
conquista, mi turba un po’. Ne sono gelosa, provo un senso di pudore e vorrei
proteggere anziché esibire agli appetiti dei turisti d’assalto questa piccola
perla del Caribe. Tuttavia mi è irresistibile il desiderio di raccontarla con
velata discrezione, come fosse un languido sogno da interpretare, o un’invenzione
inafferrabile della mia fantasia.
Il nome di quest’isola grande appena sette miglia (isola che
forse non c’è) è Culebra, una porzione di terra silente e selvaggia lambita
dalle acque turbolente del Caribe, in fronte a S.Thomas e Virgin Gorda. La si
può raggiungere da Puerto Rico in due modi: con il traghetto da Fajardo in
un’ora scarsa di navigazione, oppure in aereo in una ventina di minuti, su
charter Highlander che offrono una panoramica privilegiata Cayo Luis Peña, su Vieques (altro gioiello naturale fino a poco
tempo fa occupata dall’esercito americano per le esercitazioni militari) e sui
cayos corallini disseminati nel blu. Vista così, dal cielo, Culebra pare
davvero un miraggio, un’emersione terrestre dal profondo cristallino, e dalle
poche case presenti si può intuire quanto l’isola sia ancora intatta e fedele
alla natura.
Con Puerto Rico condivide le radici indigene e la recente
colonizzazione americana, il suo nome racconta infatti il suo passato poiché
deriva da San Ildefonso de la Culebra, che era il titolo nobiliare del Ministro
di Ultramar, pueblo dell’isola, tra il 1876 e il 1886. Oggi quest’isola conta
circa due mila abitanti stabili ed è meta di villeggiatura per gli Americani
desiderosi di fuggire per un po’ dal frastuono della civiltà. Molti hanno case
proprie qui, anche perché l’ospitalità di hotel, B&B e posadas è fortunatamente
limitata rispetto ad altre isole delle Antille, pur non mancando. Il modo
migliore per vivere l’isola è affittare una casa e le possibilità sono molte,
godendo così dell’indipendenza e della libertà di spazi e tempi del dolce far
niente. La bellezza di Culebra sta anche in questo: nel suo desiderio di
restare fedele a se stessa senza ostentare lusso e mondanità, con le sue case
in legno dipinte in colori pastello, i piccoli negozi di souvenir, i mini
market in “città” necessari alle esigenze quotidiane, i pochi bar dove godersi
un roncito la sera … e poi le strade
tortuose oggi asfaltate ma puntualmente correlate dalle carretere sterrate che
s’inerpicano fin sulle colline e poi giù verso le spiagge.
Le spiagge … ecco il sortilegio che scatena l’innamoramento
definitivo per Culebra! Sopraggiungere dalla carretera soffocata da mangrovie e
fare i primi passi sulla sabbia bianca di Playa Flamenco è un’emozione che leva
il respiro. Questa è la spiaggia più famosa di Culebra per la sua morbida
bellezza, caratterizzata da un vecchio carro armato americano che, come una
balena piaggiata, sembra paradossalmente fuori luogo qui ma nello stesso tempo
appartiene al paesaggio, sorprendendo il turchese del mare e il candore della
sabbia col suo groviglio di memorie arrugginite. Ma la cosa più straordinaria
di questa lunga spiaggia è la dispersione di gente, perché anche nei giorni di
festa e di massima frequenza la concentrazione di persone è sempre minima,
tanto da lasciare a ognuno la propria intima solitudine. Qua e là, ogni tanto,
il vento porta con sé i ritmi di un reggaethon o di un merengue, sgusciati
fuori da qualche radio dei puertoricani che qui vengono a crogiolarsi al sole
senza rinunciare ai ritmi criolli. Ma per lo più è la voce del mare a vincere,
talvolta increspato ma spesso amabile e invitante col suo quieto tepore.
Altre spiagge imperdibili di Culebra sono quelle di Carlos
Rosario, raggiungibile a piedi da Playa Flamenco, e quella di Tamarindo, poco
prima. C’è poi la Playa del ultimo dìa (questo è il suo soprannome), una
piccola lingua di sabbia dalla parte opposta dell’isola, dove si racconta che
un importante avventuriero (di cui non si dà il nome) venisse puntualmente a
fare l’ultimo bagno prima di ripartire per l’Europa, rito sacrale in virtù del
prossimo ritorno. Da qui i tramonti sono struggenti e non è raro riuscire a
sentire, nella solitudine dei propri pensieri, il suono acuto del cocquì. Sembrerebbe il canto insistente
di un uccello tropicale, in realtà si tratta del verso di un sapito – un ranocchio piccolissimo –
talmente diffuso ma al contempo invisibile per le sue minime dimensioni da
essere diventato il simbolo di Culebra. Oltre al cocquì, pochi altri animali
abitano l’isola: iguane, serpenti, galli e galline ovunque, cervi che nuotano
persino da un cayo all’altro in cerca di cibo, e poi pellicani, fregate,
boogies e colibrì. Il resto della fauna locale appartiene alle profonde acque
dell’Atlantico e alla barriera corallina.
Se Culebra con le sue spiagge scioglie il cuore, Culebrita
sconvolge l’anima, come fosse davvero il paradiso in terra. E’ un’isoletta
raggiungibile in pochi minuti di barca veloce ed è nota per il suo faro in
pietra e mattoni, costruito sulla sommità della collina nel 1874, per
monitorare le navigazioni da e verso S. Thomas e le Isole Vergini. Scendendo
dal faro si attraversa una fitta foresta di mangrovie, punteggiata qua e là da
enormi cactus che infondono al paesaggio un’atmosfera vagamente dantesca. Ma
una volta espugnata la foresta, ecco che dalle mangrovie si sbuca su una delle
spiagge più belle che io abbia mai visto in vita mia. La chiamano Playa Kennedy
per essere stata meta privilegiata del Presidente, eppure sembra essere quanto
mai lontana da ogni definizione e più vicina al romanzo di Defoe, Robinson
Crusoe, per la sua selvaggia natura. Giunta qui, ho avuto la sensazione di
essere l’ultimo, o il primo, essere umano sulla terra, e tutt’a un tratto mi è
tornato alla mente un altro romanzo della mia vita: Dissipatio Humani Generis,
di Morselli. Sì, il dramma di scoprire d’essere sola al mondo capovolto in
estasi! L’esaltazione di sentirmi ricca senza niente nella pienezza del
silenzio, il desiderio di fermare il tempo in quest’eternità di solitudine, la
preghiera che nessuno osi interferire in questo dialogo estatico tra me e
l’universo. Annullarmi nell’acqua tiepida, abbandonarmi alla brezza sotto lo
sguardo di soffici nuvole che corrono veloci per non farsi catturare dal mio
sguardo che gioca a dar loro nomi e forme … dimenticare chi sono e ritrovare me
stessa. Qui, nella semplicità del nulla.
Sopraffatta da quest’emozione che si ripercuote in me anche
ora, raccontandola, ho capito d’aver lasciato a Culebrita un pezzetto del mio
cuore. O forse, in verità, è Culebrita ad essere entrata tutta nel mio cuore. E
così, languidamente, conserverò per sempre il suo dolce ricordo come fosse un
dono divino, un dono d’amore, fino al mio prossimo ritorno in questo insperato
paradiso.