Tempo fa mi era stato chiesto di raccontare quali fossero state le mie prime esperienze con ... l'olio. I primissimi ricordi sensoriali, olfattivi, gustativi e affettivi legati a questo alimento.
Ebbene, frugare nella memoria per
recuperare queste remote sensazioni, mi ha riempito di
tenerezza e nostalgia. L’immagine più antica che ricordo, infatti, è
squisitamente biblica: una capanna e due figure dai nomi evocativi, Giuseppe e
Maria!
Sembra un gioco di fantasia,
invece è realtà.
La prima volta che ho assaggiato
dell’olio, infatti, avevo circa tre o quattro anni e non mi trovavo nella mia casa,
bensì in una capanna piuttosto semplice, arredata con qualche tavolo e delle
panche di legno, appollaiata su una spiaggia praticamente deserta. Soltanto mare, sole e cielo. Mi trovavo nel nord-est della
Sardegna, in quella che oggi è la costa più mondana e frequentata dell’isola.
Tuttavia, allora (parlo di quarant’anni fa, ahimè!) non c’era nulla, solo il
sibilo del vento, qualche villetta e tanti nuraghi sparsi qua e là tra le
brulle colline a ridosso di un mare ancora vergine. Mio padre nutriva un amore
sconfinato per quella natura nuda, un amore che ha poi trasmesso a me, tanto
che per diversi anni ha scelto quel paradiso per le vacanze estive che, a quei
tempi, duravano tre lunghi mesi. Per questo, colloco, tra i miei più bei ricordi,
quel primo incontro con il mare e con i sapori
di quella terra, tra cui l’olio.
Giuseppe e Maria erano cari amici
di mio padre e la capanna sulla spiaggia, che rivedo ancora in ogni suo
dettaglio, era un rifugio per pescatori, fatto di travi e paglia, affacciato
sull’isola della Tavolara, dove si andava a pescare. Ma all’occorrenza, quel
presepe pagano s’improvvisava in un’ottima trattoria gestita dalla coppia che
consacrava il proprio talento agli avventori, offrendo il pesce appena pescato
da lui, il formaggio di pecora prodotto da lei, quel pane croccante che canta,
un vino color rubino e un olio pregno di vita, anch’esso frutto prezioso
dell’amore per la terra di Sardegna. I miei ricordi aleggiano, così, tra
profumi di aglio, triglie, agrumi, pomodori, rosmarino, mirto e alloro. Mi
piaceva tutto, perché tutto sapeva di mare. Su ogni pietanza si versava poi
quest’olio denso e dorato, stillato da una grande bottiglia in vetro, senza
etichetta, chiusa semplicemente con un robusto tappo di sughero. Appena levato
il tappo, dalla bottiglia fuoriusciva un profumo tanto intenso che sembrava di
poterlo bere e, ricordo che Giuseppe con candido
orgoglio ci invitava ad annusare prima di assaggiare, per non perderci niente
di quel piacere. Naturalmente, è passato troppo tempo perché io possa raccontare
con precisione le sensazioni gustative e olfattive di allora. Ma se oggi
associo l’olio a quelle situazioni conviviali così piene di calore umano, di
genuinità, della semplice bellezza di stare insieme, posso dire con certezza di
avere ricevuto quello che oggi chiameremmo un
raro “imprinting” sensoriale, affettivo e umano. Con un po’ di sforzo, potrei
forse descrivere il sapore di quell’olio, tuttavia mi sembrerebbe di profanare
la verginità di un ricordo condendolo di artifici, perché la partecipazione
consapevole del gusto è venuta negli anni successivi, con un’educazione del
palato attenta e progressiva.
Appartiene, invece, a quell’epoca
ingenuamente felice un’altra impronta gustativa che ho ricevuto, stavolta, dal
mare. Si usava, infatti, raccogliere molluschi d’ogni genere proprio sotto le
rocce accanto alla spiaggia. Ce n’erano tantissimi allora e anch’io, insieme ai
figli di Giuseppe e Maria, avevo imparato a scovarli, così per gioco, facendo a
gara con loro a chi ne trovasse di più. Portavamo poi il cospicuo bottino sulla
spiaggia, ai grandi. Lasciavamo che il calore del sole schiudesse lentamente i
gusci serrati e poi, appena qualche mollusco faceva capolino con la sua lingua
rosea, lo rubavamo al suo scrigno e con un vigoroso schizzo di limone lo
gustavamo con una perversa soddisfazione dal sapore primitivo. Il resto del
malloppo finiva, ovviamente, nelle pentole generosamente oliate di Maria.
Tutto questo non c’è più. La
spiaggia oggi è un susseguirsi di lettini e ombrelloni colorati, sempre più
rubata al mare e violentata da ville, villaggi e hotel. Il mare cristallino
nemmeno si vede più, tappezzato com’è di motoscafi, yacht e panfili che hanno
spodestato pesci, crostacei e molluschi. L’ultima volta che sono stata là in
cerca della capanna, ho trovato al suo posto un vero ristorante, uno di quelli
belli ma senz’anima, senza più il profumo d’aglio, di triglie, di mirto e
alloro. Amaramente delusa, ho preferito non cercare Giuseppe e Maria, volendo
custodire nella mia memoria l’immagine intatta di lui sulla sua barca di legno
traboccante di pesce ancora vivo e quella di lei con il grembiule bianco e le
mani odorose di buono.
Anche quell’olio di Sardegna non
c’è più. Ce n’è forse di migliore, imbottigliato con tanto di etichetta ricamata
e con tutte quelle indicazioni necessarie a sedare ogni eventuale diffidenza.
Allora, era più semplice: bastava la fiducia in chi lo produceva. Mi viene in
mente, a proposito di semplicità, una delle metafore più antiche e comuni che,
guarda caso, ben si sposa con questi miei ricordi fanciulleschi. “Oggi il mare è liscio come l’olio”, si
dice spesso, per suggerire l’immagine di quiete, di accoglienza e di buon
auspicio, quella stessa mite accoglienza che ricevevo anch’io da piccola in
quella capanna in riva al mare.
Oggi, quel sapore antico di olio resta scolpito solo nella memoria dei
miei sensi, insieme all’amore per la natura e per le cose buone. Cose semplici,
appunto, che sento ancora scorrere dentro di me, quasi fossi irrimediabilmente
la tenera bambina di allora.