“Più erba se magna,
più bestie se diventa”.
Così mi dicono i miei amici romani quando a tavola, mentre
loro si godono un’amatriciana ben condita o una truculenta pajata, mi struggo
davanti a un piatto di tenere, gioviali puntarelle.
In effetti, vista la proverbiale passione dei romani doc per
la carne e in generale per le pietanze robuste e sostanziose, parrebbe un
paradosso che possano nutrire lo stesso amore per erbe, verdure e ortaggi.
Invece, andando a frugare tra antichi ricettari e colorite testimonianze
storiche, scopro che anche i vegetali hanno sempre avuto un posto d’onore sulle
tavole romane, forse proprio per bilanciare una dieta altrimenti eccessivamente
proteica. O forse, solo per temperare le papille gustative con sfumature più
delicate ma altrettanto sfiziose, rispetto ai toni più aggressivi di certi
intingoli carnivori normalmente consumati.
Aldo Fabrizi, per esempio, paladino della cucina romana,
amava le erbe, al punto da esprimere un bizzarro desiderio: che ai suoi funerali,
oltre ai soliti fiori, venissero profusi anche tanti fiori di zucca…allegri,
solari, gioiosi! Se ciò sia poi accaduto non si sa, ma si sa che l’attore si
dilettava con guizzo estroso in cucina e non mancava mai di aggiungere erbe
aromatiche e verdure a ogni suo piatto.
Non credo, tuttavia, che i romani, amici miei, impieghino le
erbe in cucina in virtù dei loro effetti medicamentosi, sò troppo golosi loro!
Quindi dev’esserci del buono riconosciuto anche in tutte quelle verdure che,
dall’Ottocento a oggi, arricchiscono i primi piatti e i secondi di carne della
cucina romanesca. Gli antichi orti romani sono leggendari tanto quanto certe
ricette: cicoria, spinaci, fave, fagiolini, zucchini, broccoletti, carciofi,
cavolfiore, melanzane, peperoni, invidia, asparagi, la lattuga romana
crescevano tutt’attorno la città con un’abbondanza divina e, insieme a erbe e
fiori, ammantavano di colore tutta l’area del Foro romano, accanto al convento
di S. Adriano. Pare che il primo forte stimolo a impiegare ortaggi in cucina
derivi dall’antica Roma: nel I sec. d.C. un certo Antonio Musa, medico, divenne
famoso per aver restituito la salute all’imperatore Ottaviano Augusto
semplicemente prescrivendogli dosi massicce di lattuga da consumare ogni sera.
La portentosa cura valse al medico uno stipendio invidiabile e all’imperatore
la guarigione. Ovviamente, con ogni probabilità la lattuga non ebbe alcun
merito nella cura, tuttavia da allora l’insalata diventò di moda e i Romani ne cominciarono
a consumare un po’ ogni giorno convinti, foglia dopo foglia, di conquistare la
longevità.
Le qualità più pregiate erano la cipria, così detta perché tenerissima, e la cecilia, dalla nobildonna Cecilia Metella che notoriamente la
prediligeva.
Una specie di verdura che ancora oggi rallegra le tavole
romane, soprattutto nei mesi a cavallo tra l’autunno e l’inverno, è
rappresentata dalle puntarelle, appunto, quelle che io tanto amo. Sono i
germogli, piccoli teneri turgidi e carnosi, di una particolare cicoria
coltivata negli orti romani. Una cicoria più lunga, affusolata e meno amara di
quella selvatica: è la cicoria dolce della catalogna. Coltivata già duemila anni
fa, si distingue dalle altre per quegli steli floreali, le puntarelle appunto,
che sporgendo dal cespo conferiscono al mazzo la classica forma allungata.
Molti conosceranno la piacevole croccantezza sotto i denti, la freschezza al
palato e quel sapore intrigante dato dal condimento delle puntarelle; ma non
tutti, forse, sanno quanta paziente manualità occorre per estirpare le puntarelle
dal ceppo di catalogna e per renderle così sottili e ricciolute. Esistono
attrezzi ad hoc ovviamente, eppure andare al mercato coperto di Via Cola di
Rienzo o a quelli rionali dei dintorni e osservare le mani nude delle donne e
degli uomini danzare sui ceppi di verdura, beh è un’esperienza affascinante e
rende davvero l’idea della sapienza tramandata negli anni per preparare questi
germogli al meglio.
Germogli che, anche una volta estorti al ceppo, non si concedono
così ben sottili e arricciati come li si vede nel piatto ma abbisognano
ulteriori trattamenti: importante è avere un tagliapuntarelle (arnese
brevettato da un artigiano romano!) e poi gettare i germogli per almeno
mezz’ora in acqua fredda, altrimenti non s’arricciano (per la cronaca, a me non
s’arricciano neanche in acqua ghiacciata, non so perché!). E senza quel ricciolo
capriccioso, le puntarelle perderebbero parte del loro giocoso impatto, piacevole allo
sguardo e irresistibile al palato.
I Romani veraci, come gli amici miei, le amano così:
Puntarelle in salsa d’alici
Lavare bene le puntarelle scartando con un coltellino le
foglie verdi e parti più coriacee. Tuffare i germogli in acqua gelata, magari
con qualche goccia di limone, e lasciarli immersi per una buona mezz’ora. Dopo
di che, scolarli, asciugarli e metterli in un’insalatiera in cui s’è preparata
una salsina ottenuta pestando acciughe, spicchi d’aglio, poco d’aceto, olio
extravergine d’oliva, sale e pepe. Mescolare le puntarelle ben vestite di questa salsina,
lasciarle riposare per qualche minuto e, finalmente, buon appetito!
Le varianti a questa ricetta classica sono diverse … con
capperi, limone, aceto di mele, pomodorini, peperoncino, uova sode … ognuno può giocare con fantasia condendo
le puntarelle a piacere. Ma l’anima di questo vegetale dal ricciolo sfizioso
resterà sempre un’esclusiva tutta romana!
Amici miei: “Più erbe
se magna, più bboni se diventa!”
Grazie Paola, ho imparato tutto quello che hai descritto, e finalmente trovo un raconto interamente convincente... So già che non imparerò mai, ma almeno saprò cosa chiedere nelle prossime occasioni! Conoscevo e preparavo solo la semplice edizione con le alici..., ma dei ceppi di catalogna...
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