Dire
che uomini e donne sono diversi è un’ovvietà. E in questo caso non alludo solo
a certe manifeste fattezze fisiche ma, innanzitutto, al cervello che fermenta
pensieri, sensazioni, emozioni per natura differenti. Altrettanto evidente è
che i due sessi sono destinati a completarsi, inevitabilmente spinti dal
desiderio di ripristinare un’originaria idillica unità.
Prima
della scienza, è stata la filosofia a cercare di spiegare quest’ineluttabile
motore che spinge uomini e donne a ricongiungersi attraverso l’amore e la
ricerca di un piacere fisico non circoscritto alla pura procreazione. Per
esempio, nel “Simposio”, Platone
abbozza con pensosa arguzia uno stuzzicante dialogo sull’origine della
sessualità, cercando di spiegare l’anima del piacere attraverso una metafora
ben nota. Lo fa tramite il commediografo Aristofane il quale, durante un
banchetto, racconta il mito secondo cui in origine, oltre all’uomo e alla
donna, esisteva anche una terza creatura: l’ermafrodita. Con eccitato coinvolgimento
di tutti i presenti, Aristofane spiega che:
“La figura di questo
essere umano era arrotondata, dorso e fianchi formavano un cerchio; aveva
quattro mani e quattro pure erano le gambe; aveva anche due facce, piantate su
un collo anch’esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto,
a un unico cranio.”
Tuttavia,
la potenza di queste ambigue creature deve aver alquanto allarmato gli dei, al
punto che Zeus decise di dividerle in due parti, ricucendo la pelle strappata
nel punto di mezzo con un nodo. Nodo che sarebbe diventato l’ombelico. Da quel
momento in poi, la vita degli esseri umani sarebbe stata dettata dalla costante
brama di ricongiungersi con la metà perduta. E il sesso sarebbe diventato il
collante necessario per ricucire i frammenti smembrati dalla volontà (o
dall’invidia) divina, trasformando così la ricongiunzione squisitamente
biologica in un ineguagliabile piacere fisico.
Questo,
come la maggior parte dei miti, sopperisce con la fantasia della metafora
all’incompiutezza scientifica, azzardando anche un’arguta analisi psicologica.
Il desiderio di fare sesso verrebbe così interpretato come una specie di
nostalgia, un atavico impulso a tornare all’originale paradiso perduto, fatto
di vigore ma soprattutto di equilibrio e completezza. In poche parole, meno
liriche di quelle di Aristofane, fare sesso con chi si ama nascerebbe dal
desiderio di far l’amore con se stessi per ritrovarsi finalmente completi.
Naturalmente
non è possibile ridurre l’anima del piacere sessuale a un nocciolo atavico così
lineare, perché i preamboli erotici che anticipano e seguono l’estasi sono
infiniti e imprevedibili. Se fosse così semplice, l’eccitazione scoccherebbe
dalla somiglianza e non dalla differenza, e l’attrazione sarebbe indotta da
quel pallido riflesso di noi stessi riprodotto e ricercato nella persona amata.
Non è sempre e solo così, appunto. E quell’inesprimibile richiamo tra le
braccia dell’amante, quello scioglimento dei lombi, quel dolce inturgidimento,
quel desiderio di fusione, di sperdimento e di ritrovamento che conduce
all’estasi resterà, probabilmente, un eterno argomento di disquisizione per
filosofi, scienziati, poeti e forse per gli stessi amanti.
Non
è, infatti, questo uno dei misteri più belli che unisce la missione di procreare
a quella di sperimentare il piacere più intenso mai conosciuto? Un piacere
talmente intenso e fulminante da essere paragonato al culmine estremo della
vita, ovvero la morte.
L’orgasmo,
in letteratura, è stato infatti spesso accostato al decesso, tanto che i
francesi, con la loro aristocratica raffinatezza, l’hanno battezzato petit mort. Non somiglia, infatti,
all’unione di due semicerchi carnali destinati a liquefarsi quella tra due
corpi? Due amanti, unendo le proprie membra e il proprio afflato, diventano
complici della loro stessa morte, perché se fossero immortali non avrebbero
bisogno di fondersi donandosi un reciproco piacere per creare una nuova vita.
Da
qui, l’impercettibile confine – o ponte d’unione - tra estasi sessuale ed
estasi mistica, o religiosa. Entrambi gli estatici deliqui, infatti, implicano
un donarsi totale all’altro – che sia Uomo o Dio – in un dissolvimento senza
possibilità di ritorno, in cui migliaia di particelle di piacere trasformano
momentaneamente il corpo in anima e viceversa. Quello dell’orgasmo diventa,
forse, l’attimo terreno più vicino al paradiso, in cui la coscienza è
paralizzata e l’identità confusa, in cui il dolore si fa dolce e la durezza si
scioglie in spasmi primordiali. E’ l’attimo in cui l’essere umano diventa al
tempo stesso angelo e animale, non una ma due volte contemporaneamente, perché
fuso nell’abbraccio complice dell’amante.
Se
la pittoresca metafora di Platone ha dato un sapore squisitamente terreno alla
natura del piacere sessuale come ricongiunzione con se stessi, nessuno come
Santa Teresa d’Avila ne ha offerto un’interpretazione tanto sublime e sensuale,
come comunione con Dio. La mistica spagnola del Cinquecento, infatti, con
disarmante semplicità, ha descritto spesso questa sensazione di estremo sdilinquimento
che fluttua tra anima e corpo, quest’estasi irrinunciabile che fa vibrare le
corde più intime, fino a ricongiungere il cielo con gli inferi, grazie ai sensi
terreni:
“Il dolore della ferita
era così vivo che mi faceva emettere gemiti, ma era così grande la dolcezza che
mi infondeva questo enorme dolore che non c’era da desiderarne la fine. E’ un
idillio così soave che io supplico la divina bontà di farlo provare a chiunque
pensasse che io mento …”
Insomma,
dal sacro al profano, le interpretazioni circa la natura del piacere sessuale
si sono affastellate nei secoli, facendo spesso accapigliare filosofi e
scienziati, psicologi e religiosi. Sarebbe bello poter credere a quest’impulso
di ricongiunzione cosmica di due metà separate ma, in realtà, l’argomento resta
un intricato mistero più facile da vivere che spiegare. Ad un’interpretazione
univoca, probabilmente, non si giungerà tanto facilmente ma, nel frattempo, il
piacere sessuale (quando non è fine a se stesso) continua ad essere ciò che di
più umano eleva l’anima di chi sa vivere con amore e passione, consolandola
delle inevitabili afflizioni dell’esistenza.
Non ultima, l’afflizione di non essere, ahimè, né dei, né santi, né
immortali ma semplicemente esseri umani.
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