Il vento della notte ha lasciato solo l’eco di sé.
Una manciata di ricordi sparpagliati alla rinfusa dentro di
me.
E uscendo in giardino, questa mattina prima del sole, l’aria
frizzante sulle gambe nude mi ha rimandato lontano, lontano nel tempo eppure vicino
nella mente.
Mi sono ritrovata bambina, cinque o sei anni, quando
l’estate era lunghissima. Era lunghissima davvero, sia perché ai bambini tutto
sembra essere grande, molto più grande della realtà, sia perché allora la
scuola lasciava più spazio ai mesi estivi.
Li vivevo in Sardegna, io. Una
Sardegna dove Porto Cervo non aveva ancora violato l’animo della costa. Esisteva
solo un mare di smeraldo, rocce nude, spiagge caste, qualche ulivo, aranci, tanto tanto
sole, sempre sempre vento, e la casa bianca affacciata sulla spiaggia. Quella
di mio papà.
E l’immagine di me che la mattina, all’alba, volo fuori casa
con i piedi nudi per raggiungere il mare lì di fronte mi si è incollata dentro
come un francobollo su una vecchia cartolina immutata nel tempo.
Non c’era nessuno! Solo i gabbiani che ridevano e piangevano
in una stridula gara di voci e quel vento frizzante del primo mattino che
invogliava ad aprire le ali per planare in mare insieme a loro. Ricordo che
appena sfioravo con le dita dei minuscoli piedi l’onda quieta sulla spiaggia, mi chinavo con la testa tutta avanti, per fare una capriola e rotolare nell’acqua insieme alla sua
spuma. Era irresistibile il desiderio, anzi il bisogno, di tornare in contatto
con l'universo liquido da cui provenivo e che lì ritrovavo ogni mattino.
Regolarmente venivo strappata a questo istinto, per me tanto
naturale quanto gioioso, dalle mani di qualche adulto comparso lì per sbaglio,
a mio modo di sentire.
Eppure, quel richiamo di vento frizzante, di mare
accogliente, quella voce della Natura indifferente agli altri esseri umani,
resta vivo in me. E ancora oggi mi rende complice privilegiata di un modo di
sentire tutto mio, anzi, tutto nostro. Mio, dei gabbiani, dell’acqua e del
vento …
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