Sarà la voglia di dolcezza che in questa mite sera
lacustre mi riporta con la mente alla mia amata Sicilia. In particolare a
Erice.
Mi si perdoni la nuda materialità ma in quest’istante
non sto rievocando la magnificenza di questo piccolo borgo sopravvissuto
intatto al tempo. Sto immaginando, piuttosto, di affondare le labbra nella morbida
cremosità di un dolce nato qui, anch’esso sopravvissuto al tempo, simbolo della
sicilianità gastronomica.
Mi riferisco alle “genovesi” di Erice: dolci di
pasta frolla con un cuore di delicata crema pasticcera cosparsi da una carezza
di zucchero a velo. La prima cosa che mi son chiesta, dopo il primo assaggio di
dolcezza in un pomeriggio assolato di luglio trascorso là, è stato il perché di
quel nome. Perché chiamare “genovesi” delle creature partorite dalla
pasticceria artigianale squisitamente siciliana? Raccogliendo qua e là qualche curiosità
ho scoperto che, pur restando l’etimologia incerta, una suggestiva ipotesi riguarderebbe
la forma del dolce che ricalca la sagoma del cappello dei marinai genovesi. Infatti,
in passato i commerci tra Trapani e Genova erano molto intensi, il che
renderebbe plausibile un’associazione tra le genovesi ericine e l’aspetto dei
marinai liguri.
Storicamente, in realtà, tra il 1300 ed il 1500
alcune famiglie nobili dedicarono a Erice oltre trenta chiese, per coronare la
carica di prete di un primogenito maschio, come voleva la tradizione. Con il trascorrere
degli anni, molte chiese passarono alle suore e alle monache di clausura, abili
pasticcere ricche di tempo e di inventiva. Dalle loro mani nascevano i
“mustazzoli”, dolci di marzapane con confettura di cedro, e le mie amate
“genovesi”, appunto. Nella seconda metà dell’Ottocento una apposita legge dettò
la chiusura dei conventi e il rischio di perdere questo patrimonio di arte pasticcera
fu scongiurato grazie all’iniziativa di una signora molto speciale: Maria
Grammatico.
Maria, durante un’infanzia particolarmente
difficile, aveva vissuto nel monastero e da “grande” cercò di imitare l’arte
culinaria delle monache, giocando con ingredienti, dosi e fantasia. Grazie alla
sua perseveranza oggi non solo si possono gustare le genovesi ericine in tutta
la loro bontà ma è anche possibile visitare il goloso laboratorio che Maria
conduce per la gioia di turisti e soprattutto dei Siciliani, fieri delle
proprie tradizioni anche gastronomiche.
La pasticceria di
Maria Grammatico anima la Via Vittorio Emanuele, nel cuore di Erice: i dolci colorano
le antiche vetrine dai profili in legno invitando i passanti all’assaggio. Imbarazzante
la scelta fra mostaccioli delle monache e frutta di Martorana, tra le minne e i
cannoli, fra le cassatine e ... le genovesi!
Gli abitanti di
Erice dicono che Maria è sempre lì, nel suo laboratorio, a prendersi cura delle
sue dolci creature, oggi come tanti anni fa. Un buon esempio di come la
passione possa trasformarsi in imprenditorialità e la storia in un presente da
tramandare alle generazioni future.
Per chi fosse
curioso, la storia di Maria Grammatico è ben raccontata da Mary Taylor Simeti, nel
libro Mandorle amare (Palermo 2004). E per chi volesse cimentarsi nella
preparazione delle genovesi ericine può pescare una delle tante ricette in
rete, anche se l’originalità è garantita solo ed esclusivamente andando a Erice,
direttamente nella bottega di Maria Grammatico.
Un’occasione in
più per innamorarsi della Sicilia e della sua infinita dolcezza.
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