Quando
ero bambina, nella mia città c’era una sola libreria importante e si affacciava
proprio sulla piazza principale. Non era molto grande ma, si sa, gli occhi dei
piccoli vedono oltre i limiti della realtà. Quindi, per me, quella libreria
era, in verità, un regno infinito in cui addentrarsi per scoprire dietro ogni
angolo qualche segreto, qualcosa d’inatteso, impaziente d’essere scovato e
sfogliato.
Si
entrava salendo una scala di legno e ricordo che l’ultimo scalino scricchiolava
sempre, come per annunciare l’arrivo di un
nuovo cliente. Io ero piccola e leggera e mi divertivo a sfidarlo cercando di
non farlo cigolare troppo sotto il mio insignificante peso. Entravo con
eccitata curiosità ma anche con riverente rispetto, quasi trattenendo il fiato,
perché quella era la Casa dei Libri.
Una
volta dentro, venivo accolta da un buon odore familiare, dolciastro, che
emanava dal miscuglio di gomme, matite, pastelli a cera, penne e pennelli
esposti su uno scaffale. Sì, perché la libreria era anche il paradiso dei
colori e degli odori gommosi che a me facevano gola. Oltretutto stavano proprio
tutti lì, all’altezza del mio naso. Una tentazione bellissima, da cui però
venivo presto distratta, perché tutt’attorno c’erano loro, i padroni di casa,
che mi aspettavano: i libri!
Un
altro buon odore era quello del legno scuro
degli scaffali che si mescolava alla delicata morbidezza delle pagine bianche.
Ricordo che quando una copertina attirava la mia attenzione, afferravo il libro
e lo sfogliavo lasciando frusciare le pagine come lievi battiti d’ali davanti
al mio viso, in modo che l’odore della carta stampata mi parlasse senza bisogno
di leggere. Pensavo che ogni libro avesse il suo odore, proprio come le
persone.
I
libri respiravano, trasudavano sapienza e bellezza. Erano vivi e mi sembrava
che il tempo si fermasse in mezzo a loro, anche se, paradossalmente, non vedevo
l’ora di crescere per leggerli tutti. Quelli che mi sembravano più interessanti
stavano sempre troppo in alto per la mia portata. Proust, Kafka, Hesse, Joyce e
quello dall’impronunciabile nome, Dostoevskij, stavano lassù come misteriosi
microcosmi inafferrabili. Non avevo la più pallida idea di chi fossero quei
signori, eppure mi affascinavano. Pensavo che per essere arrivati tanto in alto
dovevano essere stati davvero dei grandissimi scrittori e mi sarebbe piaciuto
diventare brava e importante come uno di loro da grande. Non so perché ma immaginavo che su, nel cielo, quei magnifici maghi delle parole passassero
il tempo a giocare tra loro e ad inventare trame talmente sublimi da poter
essere lette solo dagli Angeli.
Con
gli anni, le mie visite alla libreria sono diventate un immancabile rituale e,
crescendo, tanti dei suoi misteriosi libri sono stati per me una preziosa
esperienza e una piacevole compagnia. A guidarmi nella scelta era quasi sempre lei, la mia dolce,
erudita libraia, che sapeva a memoria
titoli e autori e conosceva esattamente la collocazione di ogni opera sugli
scaffali. Amava i libri e riusciva a farli amare a me e
a tutti coloro che ad essa si affidavano . Bastava chiedere a lei e,
oplà, saltava fuori proprio quel libretto che sembrava non esistere e che invece sarebbe stato un delitto non leggere.
Invidiavo un po’ la brava libraia, perché credevo fosse la depositaria eletta
di tutto ciò che al mondo era stato scritto.
Oggi
quella libreria c’è ancora. Un po’ più grande, questo
sì, ma con lo stesso odoroso miscuglio di legno e carta che la
distingue da tutte le altre. L’amica libraia è tuttora la guida erudita che
accompagna discreta i clienti attraverso i labirinti della cultura, della
storia, della scienza, della fantasia e del divertimento. Ma la sopravvivenza è
dura, oggi, per chi vive questo mestiere con passione, entusiasmo e amore perché, intorno a loro, prepotenti e inarrestabili, sono
sorti i MEGA STORE del libro.
I Mega Store sono negozi enormi, lucidi e freddi, che sorgono
senza carattere, tutti uguali tra loro, in tutte le città. Anche nella mia. Non sembrano più le
accoglienti dimore dei libri e dei pensieri ma asettici ospedali, ricoveri
plastificati, senza calore e né anima. Lì dentro non c’è rischio di sorprendersi né di ammaliarsi. Tutti gli autori sono
rigidamente inscaffalati in ordine alfabetico nella zona di loro pertinenza e
non ci si può sbagliare nella ricerca. Ciò nonostante, pur trovando quasi
tutto, qualcosa lì manca. Manca la magia. Lì i libri non respirano, sono muti e
spenti. Persino il contatto umano con il commesso o
la commessa di turno, seduto davanti ad un video, mi sembra
irrimediabilmente contagiato dall’atmosfera indifferente. Al posto della
libraia erudita mi è capitato di trovare una giovane donna che mi ha guardato
stralunata alla mia richiesta di un libro fuori moda. “Henry and June”? mi ha chiesto sforzandosi di digitare il nome di Anaïs
Nin in maniera corretta, per affidare la ricerca dello strano testo al
computer. Il libro non c’era, ovviamente, ma l’espressione smarrita della ragazza mi fece recedere
dal tentativo di chiedere anche “Opus pistorum”
di Henry Miller o il “Diario di uno scrittore” di Dostoevskij,
opere e autori il cui spelling, e la relativa digitazione sulla tastiera,
avrebbero potuto portarci ad un conflitto ideologico-generazionale all’ultimo
sangue! Certamente avrebbe dato risultati assolutamente immediati ripiegare su
un libro compreso tra le top ten di oggi, magari scritto da un noto calciatore,
o da un comico qualsiasi della scuderia di Zelig, in vena di più moderne e
popolari analisi sociologiche.
Molto meglio sarebbe stato, tuttavia, tornare alla vecchia cara libreria, dove
l’amica libraia avrebbe certamente saputo suggerirmi un volume poco conosciuto, uno di quelli
che parlano al cuore e alla mente. Sicuramente, con un sorriso, avrebbe trovato
anche il tempo di scambiare due chiacchiere su com’è bello leggere, riscoprire
antiche emozioni nelle letture del passato o
lasciarsi sorprendere dalla piacevolezza e dall’inventiva di qualche piccolo
autore d’oggi che, ahimé, nessuno di quei commessi conosce e, dunque, pochi
lettori leggeranno. Forse avremmo ricordato con tenerezza, Guillaume
Apollinaire, il suo “Il flaneur di Parigi”
e, in particolare, un racconto intitolato “La
libreria del signor Lehec”, senza doverne sillabare più volte e lentamente
il nome e i titoli. Se non ricordo male, il racconto inizia così: Il signor Lehec, il libraio, amava i suoi
libri al punto di venderli solo alle rare persone che giudicava degne di
acquistarli … Al tempo in cui aveva
la libreria in rue Saint-André-des-Arts andavo spesso a chiacchierare con lui
…diventato quasi cieco si è messo in disparte … nessuno può far più ricorso
ormai alla sua cortese erudizione.
Ebbene, se di questo avessi parlato e chiesto a quella commessa
del Mega Store, mi avrebbe preso definitivamente per
una bizzarra lettrice demodè e, probabilmente, mi avrebbe consigliato di
leggere l’ultimo trattato di Francesco Totti, tanto per spaziare un po’ negli
abissi della cultura moderna.
Io
sono ottimista e spero che in mezzo a questi supermercati all’ingrosso di
parole possano continuare a sopravvivere fieri quei piccoli regni del pensiero,
della fantasia e della curiosità. Quelle librerie, cioè, con un’anima, fatta
dalle libraie e dai librai appassionati come il signor Lehec.
Ma
mi chiedo: come riconoscere a prima vista i
preziosi depositari del sapere del mondo da quelli invece fasulli, costretti ad
affidare il proprio sapere alla memoria di un computer? Mi viene in mente
quello che si fa per molti prodotti, in particolare quelli alimentari, in cui
il consumatore può valutare la qualità di ognuno di essi attraverso
sigle, come per esempio DOC, DOP e DOCG. Perché non utilizzare lo stesso criterio
per valutare le qualità delle librerie e dei librai cui rivolgersi per le
nostre scelte letterarie?
Immaginiamo,
ad esempio, una libreria dove campeggiasse la sigla LET e poniamo che questa significhi che ad accogliermi ci sarà un
gentile, e probabilmente attempato, “Libraio
Erudito Tradizionale”, come
certamente era il signor Lehec. Oppure, una libreria LEM, dove potremmo
incontrare un piacevole e spiritoso “Libraio
Esperto Moderno”, come la cara libraia della mia città. Infine, tutte le
altre librerie, quasi sempre enormi, in cui sicuramente incontreremo quegli addetti
per i quali i libri sono soltanto titoli o nomi di autori da digitare su una tastiera, spesso
non senza difficoltà. Lì, a chiunque chiedessimo, ci troveremmo di sicuro di
fronte ad un “Commesso Acculturato Zero”,
inevitabilmente e sinteticamente identificato con la sigla: CAZ!
Con
questo metodo, entrando in una libreria che espone l’insegna LET o LEM, avrei
la certezza di potermi ritrovare, come da bambina, a vagabondare nel sapere, in
compagnia di una guida all’altezza, senza perdere tempo ad entrare nelle altre
librerie. A meno che, spiando casualmente attraverso le loro vetrine, non
vedessi davanti ad un computer un bell’esemplare di CAZ somigliante, magari, a
George Clooney!
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