E’ l’ora della siesta. Cullata dall’amaca
guardo l’oceano e ascolto il rifrangersi delle onde sul reef che accompagna una
carezza di azzurri, verdi e blu fin sulla spiaggia.
Mi trovo a Roatan, a cinquantasei
chilometri al largo della costa dell’Honduras, una piccola isola che appartiene
all’arcipelago della Bahia, prolungamento naturale della barriera corallina del
Belize. Insieme a Utila e Guanaja è la maggiore delle isole della Bahia, la più
popolata e anche la più tecnologicamente avanzata, tanto che vanta addirittura
qualche strada asfaltata, particolare che quasi stona in tanta selvaggia
natura. Tutto attorno altri sessantacinque atolli, tra cui i Cayos Cochinos,
coronano l’arcipelago e pare quasi siano lì a proteggere un incanto in gran
parte ancora vergine.
Affascinata da tanta bellezza mi rendo
conto del perché un pirata della portata di Henry Morgan avesse scelto proprio
queste terre come quartier generale delle sue prodezze. L’intraprendente
giovane arrivò dal Galles nel 1655 circa come manovale di contratto, ovvero
come schiavo bianco ma grazie alle sue intrepide imprese divenne ben presto
bucaniere e in seguito corsaro,
fino ad essere nominato Governatore di Giamaica. Insomma, una carriera degna di
merito e ancora oggi si parla di lui come il leggendario Re dei Pirati.
Gli abitanti di Roatan, gli islenos, hanno voluto dedicare proprio
ai pirati la capitale dell’isola, battezzandola Coxen Hole, da Coxen, altro
famoso brigante dei mari, anche se il centro commerciale e vitale resta West
End, col suo susseguirsi di negozi di souvenirs, ristoranti, pulperias,
spesso costruiti su palafitte di legno bagnate dalle onde. Pare che i pirati
abbiano tenuto qui a lungo le loro basi e ancora oggi si narra di tesori
sommersi che il mare tuttora custodisce e che il fato, o meglio la suerte, potrebbe un giorno decidere di
restituire a qualche fortunato. L’ultima cassa piena d’oro è stata rinvenuta
alla fine degli anni ’50, da allora più nulla ma la leggenda vuole che il più
ricco tesoro di Henry Morgan sia ancora nascosto qui e non necessariamente
negli abissi.
Mi guardo attorno e penso che
fortunatamente siano davvero pochi a conoscere o a credere a questa leggenda,
perché quest’isola gode del privilegio di non essere ancora infestata dai
turisti (al contrario dei mosquitos
purtroppo). Gli stessi islenos vivono
pigramente, incuranti di ricchezze da scoprire e forse proprio per questo
motivo sempre gentili e sorridenti, nonostante spesso manchi l’acqua potabile o
l’energia elettrica, paiono sempre invidiabilmente sereni. Gli abitanti di
Roatan discendono dai Garifuna, tribù originaria di Saint Vincent, nata da una
mescolanza non sempre pacifica tra neri africani e caribi. Il popolo dei Garifuna nel 1797 viene in parte deportato
dagli Inglesi a Roatan e ancora
oggi convivono sull’isola aspetti culturali e linguistici tipici dei Caraibi
britannici assieme a quelli più marcatamente ispanici. E’ così che spesso gli islenos comunicano tra loro in una sorta
di spanglish assolutamente incomprensibile
ai turisti. Anche i tratti somatici rivelano questa dualità e all’esuberanza
della pelle nera e di una corporatura forte e atletica si contrappone la
dolcezza mulatta e mite tipica della sensualità latina.
A questo mix culturale fa da scenario un
panorama naturale altrettanto ricco di contrasti, un concentrato di colori e
profumi davvero unico. Eccolo, io penso, questo è il vero tesoro di Roatan. Non
oro e preziosi nascosti negli abissi o seppelliti sulle montagne, bensì una
natura prepotente, mozzafiato, esuberante come i pirati che ha ospitato. Sulle
spiagge si alternano palme da cocco e pini marittimi che affondano le radici
fin quasi nel mare, lasciando qua e là respiro a rigogliose piante di papaya.
Anche l’interno dell’isola è un groviglio fitto di vegetazione capace di
scoraggiare qualsiasi umana penetrazione.
Quel che più mi colpisce rispetto ad
altre isole caraibiche è il silenzio che qui domina, o meglio l’assenza dei
ritmi musicali, frenetici e sensuali che lascia rispettosamente la parola alla
natura. Strani gorgheggi, veri e propri dialoghi, si elevano dalle piante,
pappagalli e tucani, gabbiani e avvoltoi si scambiano voci in un tam-tam
continuo mentre anatre e pavoni fanno bella mostra di sé fin sulla spiaggia,
tra ombrelloni di paglia scomposti dal vento, per un bagno al tramonto.
Sgranocchiano giorno e notte le guatusas,
piccoli simpatici roditori simili al tapiro, che si uniscono così alla
sinfonia. A dire il vero spesso capita anche di sentire grida di spavento di
qualche gringo impreparato agli assalti delle scimmie, piccole curiose scimmie
dispettose, golose e ladre che sorprendono alle spalle, si arrampicano su gambe
e braccia, non demordono, anzi spesso mordono, finchè non viene offerto loro
qualche cosa di ghiotto. Molto meno invadenti le iguana, lente e silenziose,
che osservano immobili quasi pensierose, veri e propri draghi, a ricordare che
i dinosauri sono davvero esistiti.
Unica nota dolente nel panorama
faunistico di Roatan sono le sunflies, instancabili, impercettibili, insopportabili
insetti dalle minuscole ali bianche, le cui punture sono inversamente
proporzionali alle loro dimensioni. Non c’è repellente che tenga ma, penso, se
la loro presenza può fungere da deterrente ad una rovinosa invasione turistica,
allora tutto sommato provo simpatia anche per loro.
Il linguaggio della natura che colma il
silenzio dell’isola proviene anche dal mare. Sono i delfini a parlare questa
volta, pare ridano e mi piace credere che davvero sia così, che si prendano
gioco di quei tipi mascherati con tubi di gomma, occhiali e pinne, tutti
intenti a corromperli con qualche sardina per rubare loro una fotografia, una
carezza e magari, perché no, un bacio.
E’ così che ripenso a Roatan, ora che
sono rientrata nei confini della civiltà. Rivivo i colori dell’oceano e il
silenzio delle montagne, il profumo dolce di sigaro e rhum al tramonto, la
sabbia docile sotto i piedi e il vento tiepido tra i capelli … rivedo il bacio
che il delfino mi ha regalato, le conchiglie di madreperla accarezzate e restituite
al blu, le stelle cadenti che la notte mi hanno suggerito desideri proibiti, …
ripenso al sorriso e ai volti gentili che hanno stupito i miei occhi e che non
scorderò mai …
Cullata dall’amaca, questa volta nel mio
giardino, mi vengono in mente le parole di una ballata gallese, lette su una
scatola di rhum prima di partire :
“Eri un grand’uomo Henry
Morgan, un re senza corona, quando alzavi le tue vele, eccoti ora essere tutt’uno
con questa tua meravigliosa terra.”
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