La prima volta che mi sono trovata
davanti a un piatto di sushi è stato
undici anni fa.
Era la primavera del 2001 e stavo a New
York, in una ridente Manhattan che ancora faceva parlare di sé solo per la sua
vertiginosa bellezza e la sua vita frenetica. Dovendo concentrare in pochi
giorni una miriade di angoli imperdibili da esplorare, il momento del ristoro
non era fondamentale ma comunque necessario per recuperare l’energia spesa su e
giù per avenues e grattacieli. Fatto sta che mi son resa conto allora di quanto
non fosse facile la vita per una vegetariana in una città in cui regna Burger
King e dove la maggior parte dei ristoranti etnici offre principalmente piatti
di carne d’ogni tipo, drogati da un’incredibile varietà di spezie. Esclusi,
quindi, hamburger e kebab e preferendo eventualmente pinne di pescecane e alghe
al vapore alla pizza di Little Italy, mi son trovata una sera nel Theater
District, sulla quarantacinquesima strada, davanti a Kodama, un rinomato
ristorante giapponese. Ammetto d’essere una vegetariana anomala – o “in
evoluzione”, come qualcuno ama dire - poiché di fronte a pesce e crostacei mi
arrendo più che volentieri, perciò mi sono infilata nel locale, sperando in un
tavolo libero e curiosa di provare quel tipo di cucina.
Contrariamente alle nostre città, New
York pullula di ristoranti giapponesi mediamente a buon mercato, che niente
hanno a che vedere con gli eccessi di Nobu a Milano o dello Zen Sushi a
Roma. La qualità è normalmente più
che buona e l’atmosfera fa quasi dimenticare d’essere in America, se non fosse
per il menu stampato anche in caratteri occidentali. La preparazione dei piatti
avviene al momento, sopra un banco a vista, dove uno chef, con abile maestria e
matematica precisione, affetta, arrotola, infilza e impiatta il sashimi o il sushi scelto.
Nell’attesa leggo il retro della lunga
lista, fitta di nomi improponibili e imparo che non si sa esattamente quando
questi piatti siano stati inventati. Pare siano stati i monaci buddisti
provenienti dalla Cina ad averli introdotti in Giappone nel VII secolo. Ma si
sono diffusi solo nei primi dell’800, ad Edo, l’odierna Tokyo, dove un certo Hanaia Yonei sembra abbia inventato il
primo Nighirizushi, che veniva
venduto su bancarelle di legno lungo le strade. Fatto sta che questa tradizione
ha resistito fino a oggi, conquistando il gusto occidentale e diventando,
addirittura, una moda e un modo per differenziarsi anche a tavola.
Ma di cosa si tratta effettivamente?
Ebbene, il sashimi altro non è che
pesce crudo tagliato molto sottilmente, accompagnato da molluschi affettati, da
intingere in salsa di soia,
serviti con wasabi, ovvero il nostro rafano, gari, cioè zenzero, e ponzu. La salsa ponzu, a base di limone, è gentile e piuttosto innocua al palato
rispetto al wasabi, che al contrario è
un intingolo verde molto aggressivo, non per niente chiamato anche namida, ossia lacrime, tanto per mettere
in guardia sul suo potenziale effetto. Il gari
ha un sapore dolciastro e acre insieme, che a me ricorda il profumo di sapone e
viene alternato alle portate come sorbetto. Il sushi è invece una preparazione a base di riso cotto con aceto,
zucchero e sale e guarnito con pesce crudo, alghe, verdure, uova e talvolta
anche carne. Esistono molte versioni di sushi,
a seconda della combinazione dei ripieni e dei condimenti ma anche della
maniera in cui vengono presentati in tavola.
Il Makizushi
è forse il più diffuso da noi e consiste in deliziose polpettine cilindriche
avvolte in un foglio di alga essiccata, l’alga nori, che a guardarle sembrano gioielli in miniatura. Così come il Nigiri è piuttosto conosciuto e si
presenta come petali di pesce crudo, tonno, salmone o gamberi principalmente,
distesi su un letto di riso, che è quasi un delitto disfare.
Ma le versioni sono moltissime, dal Futomaki al Uramaki, dall’Oshizushi
al Nigirizushi, con una fantasia non
solo di nomi ma soprattutto di forme e colori da farne pregustare il sapore
solo alla vista. Niente è casuale nella combinazione degli ingredienti, persino
le dimensioni di ogni pezzo devono attenersi a regole precise, per far sì che
ogni piatto sia una piccola opera d’arte.
L’Hosomaki, per esempio, è una
polpettina di due centimetri, molto più abbordabile per chi non è avvezzo agli hashi, le bacchette, rispetto ad un Temaki, polpetta a forma di cono lunga
dieci centimetri, decisamente poco pratica da afferrare, per cui è concesso l’uso
delle mani. Varianti del pesce crudo sono i Tempura,
gamberi fritti in pastella, e i Noodles,
lunghi spaghetti molli, davvero non facili da raccogliere. Infine, il tofu, formaggio di soia, e il sakè, il tradizionale vino giapponese,
completano la tavola.
Da quella prima volta mi sono
innamorata della cucina giapponese e dell’atmosfera che l’accompagna, anche se
onestamente non è stato immediatamente naturale per me gestire tanto piacere
con gli hashi. Eppure, con un po’ di
pazienza e tanta curiosità, ho capito come anch’essi contribuiscano al rito:
maneggiarli con sapienza è un’arte che suggerisce lentezza e aiuta ad
apprezzare il momento del pasto come puro godimento. Ma occorre imparare alcune
regole di bon ton nipponico: innanzitutto gli hashi, quando non utilizzati, vanno appoggiati su un apposito
sostegno, l’hashioki, non devono mai
essere infilati nel riso, poiché questo è un gesto ammesso solo durante i
funerali, non devono essere utilizzati per indicare qualcuno o qualcosa e non
devono mai essere incrociati, perché porta sfortuna. Infine, per servirsi da un
piatto di portata, occorre usare la parte estrema che non si è avvicinata alla
bocca. Portare la ciotola del riso
all’altezza del mento non è affatto disdicevole, così come sottolineare il
gusto con apprezzamenti sonori, risucchi e gorgoglii, cosa poco fine per noi
occidentali ma esplicito segno di gradimento per i Giapponesi.
Mangiare giapponese non è semplicemente
accontentare il palato. E’ un mondo si sensazioni, una vera e propria
esperienza mistica che coinvolge più livelli sensoriali. Innanzitutto è un
piacere da guardare. Il piatto deve essere innanzitutto bello, preludio di un’armonia
perfetta che comincia dall’arte della sua preparazione. Non per niente per
diventare cuoco di sushi occorre
dimostrare forte volontà e disciplina. Tradizionalmente, l’apprendista si
doveva limitare ad osservare il suo maestro fintanto che non avesse imparato
alla perfezione la tecnica di cottura del riso e più avanti l’arte del taglio
del pesce. Addirittura, un tempo, questa era una professione esclusivamente
maschile, poiché si pensava che le mani femminili, possedendo una temperatura
mediamente più alta, alterassero la freschezza degli ingredienti.
L’unico senso non fortemente coinvolto è,
forse, l’olfatto, non essendo previste spezie e trattandosi principalmente di
cibi crudi e freschi. Ma con un po’ di fantasia, da un bocconcino intinto in
soia e rafano, si riesce ad immaginare il profumo salmastro di conchiglie e di
mare. Al piacere estatico segue quello del gusto. Ogni boccone invita ad una
masticazione lenta e flessuosa, che mescola la fluidità della materia con la
scioglievolezza della lingua. E’ estasi allo stato puro, quasi da gustare ad
occhi chiusi per assorbire meglio ogni sfumatura di sapore e di colore. E’ un
po’ come se la piacevolezza al palato diventasse bella e la bellezza diventasse
buona, in una contaminazione dei sensi davvero stimolante.
Quando mi trovo alle prese con un
piatto di sushi, è impossibile per me
trattenere mugolii di apprezzamento vagamente equivoci, che di solito
solleticano o imbarazzano chi mi accompagna, a seconda della sensibilità, ma
che sicuramente non lasciano indifferente. In situazioni simili somiglio un po’
a Mag Ryan nel film “Harry ti presento Sally”, tanto per intenderci, quando,
seduta al ristorante, di fronte al suo compagno, simula il piacere orgasmico
che il cibo le dà, contagiando tutti i presenti con esagerati gemiti. Se poi il
piatto in questione avesse anche un aspetto allusivo e particolarmente
invitante, beh, ancora meglio …
Forse in Giappone non scandalizzerebbe
quest’esternazione di godimento, dato che alla fine di ogni pasto è usanza
tirare un lungo sospiro di sollievo, per sottolineare la propria soddisfazione.
Sospiro che fa capire come un cibo possa diventare alimento non solo del corpo
ma anche dell’anima.
Da quella prima volta a Kodama sono
diventata una frequentatrice affezionata di sushi-bar.
Ho anche imparato a preparare da me alcune ricette con meticolosa precisione e
libertà di fantasia. E devo dire che è un vero piacere anche lo stesso
manipolare riso, alghe e pesci. Arrotolarli con cura nel bambù, aggiustarne la
rotondità nell’incavo della mano, dare la giusta lunghezza con le dita,
ponderare con delicatezza lo spessore, infilare ogni ingrediente al suo posto
rifinendo per bene il contorno e sistemare infine il tutto in modo che il
piatto trabocchi di desiderio. Insomma, è un’esperienza che mette davvero l’acquolina
in bocca.
A questo punto, se siete stati
contagiati anche voi dall’irresistibile voglia di sushi, non mi resta che dirvi “itadakimasu”
e “kanpai”, ovvero buon appetito e
cin cin a tutti.
Il piacere è servito!
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