Una cena ufficiale in un tipico
ristorante cinese nel cuore di Pechino è un’avventura assolutamente unica,
istruttiva e divertente. Un’esperienza memorabile del mio breve soggiorno in
Cina.
L’appuntamento era per le 18.30, perché
si cena piuttosto presto laggiù. Sinceramente ne ero contenta, dato che
camminavo dalla mattina presto, con un break di soli tre caffè a ricaricarmi
dell’energia spesa durante il mio vagabondare per l’immensa città. Quella sera
sarei stata ospite di un importante rappresentante del mondo imprenditoriale
cinese, Mr. W., e dei suoi collaboratori, assieme ad altri uomini d’affari
giapponesi e americani, ognuno con il suo solerte seguito di segretarie e
traduttrici.
Sapevo già in partenza che non si sarebbe
trattato di una semplice cena conviviale. I Cinesi, infatti, danno molta
importanza ai rituali anche in quelle situazioni, apparentemente informali, che
si rivelano spesso cruciali per l’esito di un affare. La condivisione del pasto
è, quindi, un vero e proprio rito, al quale è bene per uno straniero non
giungere impreparato, se non altro per evitare qualche imperdonabile gaffe e
mandare in fumo, con un gesto fuori luogo o una frase stonata, gli accordi
raggiunti magari dopo lunghe trattative.
Affidandomi un po’ alla mia
sensibilità, un po’ a ciò che mi era stato raccomandato da Zhuohua Chen, una
simpatica segretaria cinese e, perché no, un po’ al mio sorriso, mi accingevo
ad affrontare la serata con entusiasmo e senza tante preoccupazioni. Confesso
che credevo di essere pronta a tutto ma … all’anatra proprio no! Già, perché il
piatto tradizionale a Pechino è l’anatra arrosto, la beijing kao ya, un vero suicidio per una fedele vegetariana come
me. Oltretutto i nostri ospiti erano talmente orgogliosi di intrattenerci in
uno dei più rinomati ristoranti dell’intera Cina, il Quanjude Roast Duck, che mai avrei osato creare imbarazzo e
disarmonia a causa di … un uccello.
Così, messi da parte all’istante i miei
gusti e i miei fragili principi, mi sono lasciata sedurre, conquistata dalla
bellezza del locale e soprattutto dall’accoglienza calda e al contempo solenne
che mi attendeva. La sala era un’esplosione di rosso e oro, di focosi draghi e
leggiadre fenici intarsiate su imponenti colonne, alleggerite da drappeggi e
ricami lungo tutte le pareti. Due grandi tavoli rotondi, riccamente imbanditi,
aspettavano che tutti noi prendessimo posto, rispettando le indicazioni
assolutamente imprescindibili di Mr. W. Un tavolo era riservato a noi, l’altro
alle segretarie e ai funzionari.
Ero onorata di essere stata ammessa a
sedere al tavolo degli uomini, eccezione gentilmente concessami in quanto
ospite straniera, poiché là, tradizionalmente, le donne non prendono parte ai
banchetti ufficiali degli uomini d’affari. Al centro un gran piatto rotante
colorava la tavola di un’infinità di misteriosi assaggi, dall’aspetto
incantevole e devo dire tutti gustosi, anche se non immediatamente decifrabili.
Quelle delizie dal nome impronunciabile non erano che il contorno, in attesa
che l’ospite d’onore, la famosa roast
duck, fosse introdotta nella sala, sopra un carrello fumante e venisse
affettata con arte sopraffina davanti a noi da un abile chef. Devo ammettere
che era talmente bella da sembrare finta, tutta rossa e gonfia, come fosse una
scultura dipinta di ceralacca.
Mr. W. ci ha spiegato, fiero, che
questo piatto è stato introdotto dall’imperatore Yuan nel 1300 ed è stato
tramandato da tutte le dinastie successive fino a diventare uno dei piatti
nazionali. Ancora oggi la sua preparazione rispetta la tradizione: l’anatra
viene riempita di aria attraverso il collo, per separare la pelle dal grasso,
per questo si presenta gonfia. Dopo di che viene fatta bollire in acqua e
appesa ad asciugare. Il colore rosso le è dato da una spennellatura di sciroppo
di maltosio che, dopo ventiquattro ore di riposo e una lunga cottura in forno,
le dà l’aspetto finale. Mr. W. ci ha tenuto a fornirci tutti i dettagli della
cottura, dal tipo di legno usato, alla sistemazione nel forno ma a quel punto
ero talmente concentrata a non pensare alla povera duck imbottita d’aria che mi son persa il resto del discorso, vagabondando
con la mente nella fiabesca Città Proibita che mi aveva incantata quella
mattina.
Ma il rito vero e proprio ha avuto
inizio quando Mr. W. ci ha invitato ad alzarci per il primo ganbei della serata, il primo brindisi.
In un piccolo bicchiere di cristallo ci era stato offerto un liquore incolore
derivato dai cereali (shaojiu),
terribilmente alcolico, simile alla nostra grappa, con cui è tradizione
brindare. Era minaccioso già solo nel nome, dato che shaojiu significa letteralmente “liquore di fuoco” o “liquore
bollente”. Ma la cosa peggiore è che il ganbei
doveva essere fatto svuotando fino all’ultima goccia e tutto d’un fiato il
bicchiere, in segno di sincero apprezzamento della bevuta e soprattutto della
compagnia. Se ne dava prova, alla fine, capovolgendo il bicchiere vuoto sulla
testa: nemmeno una goccia sarebbe dovuta cadere.
Sottrarsi al rito del ganbei sarebbe stato un imperdonabile
segno di maleducazione, perciò ho dedicato silenziosamente il mio primo
brindisi alla fortuna di non essere astemia e di sopportare dignitosamente,
almeno fino a quel momento, gli effluvi dell’alcol. Non immaginavo, però, che
durante la cena mi sarebbero toccati così tanti ganbei! Già, perché ogni brindisi va onorato ma soprattutto
ricambiato e alla fine pareva si fosse ingaggiata tacitamente una vera e
propria gara a chi riuscisse bere di più. Credo di aver contato almeno venti ganbei in tutta la serata, senza
considerare i fiumi di vino rosso, rigorosamente made in China, dato il nome
sull’etichetta, “The Great Wall”, con
cui i bicchieri venivano puntualmente rabboccati dalle premurose cameriere.
La cosa divertente è che ogni ganbei doveva esser fatto in piedi,
finché si era in grado di starci, naturalmente. Fatto sta che abbiamo passato
tutti più tempo alzati a scambiarci ossequi, inchini, complimenti e auguri di
prosperità e buona fortuna che non seduti a tavola. E se Mr. W. e la squadra
cinese hanno dimostrato di essere ben allenati a reggere l’alcol (questione di
enzimi, pare), a metà sera Giapponesi e Americani hanno dato i primi segni di
cedimento, sbarazzandosi di giacca, cravatta e di quell’aria formale iniziale e
si sono alternati in battute colorite rese ancora più divertenti dalle
espressioni paonazze dei loro volti. Non dimenticherò mai due di loro, un
Giapponese e un Cinese, simpaticissimi come i loro nomi: Ma Ki Kazu … Sun!
La mia salvezza è stata sedere accanto
a Mr. Bill, un vero gentleman, che più di una volta ha accettato, con tacita
gratitudine, lo scambio tra il mio bicchierino pieno e il suo regolarmente
vuoto, senza che nessuno se ne accorgesse, ovviamente. Evidentemente doveva
essere avvezzo a trattare con i Cinesi, perché alla fine ha bevuto più di loro,
pur mantenendo una straordinaria lucidità, vincendo così sorprendentemente la
sfida del ganbei e guadagnandosi la
stima e il rispetto di tutti. Ho saputo poi che spesso, in simili occasioni,
gli stranieri ben istruiti deleghino uno tra loro, quello con gli enzimi più
allenati, al ruolo di bevitore, per evitare di finire tutti quanti brilli
compromettendo l’andamento della serata e il buon esito di un affare.
La nostra cena ha proceduto decisamente
alla grande in un crescendo di allegria: non si è mai parlato di lavoro, né di
Taiwan, né tanto meno del Dalai Lama, tutti argomenti tabù per i Cinesi. La
conversazione non ha mai languito e ha coinvolto tutti, alimentando un clima di
armonia e di equilibrio degno dell’apprezzamento del più saggio maestro Zen.
Oltretutto l’atmosfera rilassata ha
contribuito a rendere meno sofferta la mia conversione all’anatra, che fra
l’altro era camuffata un po’ ovunque in ogni assaggio. Non sapevo, però, che
anche il modo di consumarla avesse un suo rituale da rispettare: dal gran
piatto centrale si doveva prendere una frittella cotta al vapore (“foglia di
loto”) per deporla sul proprio piatto; con le bacchette si doveva poi intingere
dello scalogno in una salsa di fagioli rossi e pennellare per bene l’interno
della frittella che, a quel punto, era pronta per essere rimpinzata di petto
d’anatra, cetrioli e carote. Così ben chiusa, doveva essere presa con le mani e
addentata.
La segretaria personale di Mr. W. ha
pensato bene di riverire l’unica presenza femminile al tavolo iniziando proprio
me al laborioso rituale. Così, più imbarazzata che lusingata, mi son ritrovata
con quella bella foglia di loto calda e traboccante in mano, sospesa a
mezz’aria davanti alla bocca schiusa, con ventidue occhi puntati su di me, in
attesa del primo morso e di qualche mio segno di gradimento, prima che tutti si
mettessero a fare altrettanto. L’espressione compiaciuta e fiera dipinta sul
viso di Mr. W. nel vedere il mio apprezzamento per quel boccone è stata sufficiente
a farmi dimenticare per qualche istante l’anatra e alla sua domanda “Do you like chinese food, Miss. Cerana?”
ho potuto rispondergli con sincera gratitudine “Oh, yes I do, really good!”, conquistandomi definitivamente tutta
la sua simpatia.
Al termine di una lunga sfilata di
fantasiose portate, Mr. W. ha proposto l’ultimo solenne ganbei della sera. Alzandosi in piedi, ha espresso a tutti i suoi
ringraziamenti e i suoi auguri di felicità, salute e successo, per noi, per le
nostre famiglie, per le nostre aziende, per i nostri Paesi e per il mondo
intero! Dopo di che, come la tradizione impone, ha lasciato per primo la tavola
e tutti noi ancora intenti in un corale inchino.
Quell’ultimo bicchiere, confesso, l’ho
bevuto anch’io, tutto d’un fiato e fino all’ultima goccia, sperando di annegare
il pensiero della povera anatra laccata di rosso di cui, per fortuna, non c’era
più traccia ma che, ne ero certa, sarebbe presto riaffiorata nella mia mente,
costringendomi a fare i conti, prima o poi, con la mia coscienza!
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