mercoledì 30 marzo 2016

L’ANIMA DEL VINO: LA STORIA DI UN TERRITORIO, LA VITA DI UNA FAMIGLIA

Terredora Dipaolo è sinonimo di tradizione e innovazione, frutto dell’alleanza tra la generosità della Campania e l’operosità della sua gente



L’eleganza austera del Taurasi, la mineralità esotica del Fiano, la corposità floreale dell’Aglianico sono solo alcuni dei versi che compongono la poesia enologica di chi ha fatto della propria passione una missione


Dentro le bottiglie cantava una sera l'anima del vino:
So quanta pena, quanto sudore e quanto sole cocente servono, sulla collina ardente,
per mettermi al mondo e donarmi l'anima ...
Questi versi, ricamati da Baudelaire in una sua celebre poesia, si prestano a dar voce alle “creature” di una delle Aziende vinicole italiane più attraenti. Terredora, infatti, non è solo sinonimo di vini di ottima qualità ma è sintesi di passione, tradizione e innovazione. Un blend che si tramanda nel tempo, alimentato dalla tenacia di una famiglia che dalla vite ha saputo stillare tutto il valore del territorio che la partorisce.  
La Terra
Dal 1978 Terredora è sovrana del regno vitivinicolo della Campania. Affonda le radici in una terra dove l’alleanza tra vulcano, mare e sole imprime alle vigne un carattere sanguigno dalla tempra eroica, proprio come la sua gente.  Qui in Irpinia, infatti, zona collinare dell’entroterra carezzata dal vento del vicino Golfo di Napoli, l’audacia della natura s’intreccia col temperamento degli uomini. I vigneti si srotolano lungo i pendii, si nutrono di terreni di origine vulcanica e si abbeverano di un’ottima insolazione per la maggior parte dell’anno, restituendo all’uomo la massima espressione di sè. Ma sarà solo questo il segreto dei vini Terredora?
La Famiglia
Per quanto generosa, la Natura sarebbe arida senza la mano sapiente dell’Uomo. E’ durante il secondo dopoguerra che Walter Mastroberardino, timoniere di Terredora, sfrutta questa sapienza e comincia a far conoscere le bottiglie prodotte in azienda insieme ai suoi fratelli. Da questa tradizione ereditata con orgoglio si arriva al successo del presente: nel 1994 con i figli Daniela, Lucio e Paolo, e il prezioso sostegno dell’amata moglie Dora Di Paolo, Walter fa costruire la nuova cantina a Montefusco (provincia di Avellino), uno scrigno per la vinificazione delle uve, battezzata Terredora in onore di Dora. Grandi soddisfazioni si succedono in vent’anni di storia, anni in cui anche le pagine tristi, scritte dalla perdita prematura di insostituibili affetti, hanno contribuito a temprare il carattere di una Famiglia che ha fatto della vite la propria vita. Il vero segreto di Terredora è dunque racchiuso nell’anima del vino, un vino concepito dalla disponibilità della natura e cresciuto dall’amore delle donne e degli uomini che se ne prendono cura.
La celebrazione dei 70 anni dell’Azienda ha coinciso con l’ottantatreesimo compleanno di Walter Mastroberardino – lo scorso 25 gennaio - un doppio brindisi che corona i numerosi premi internazionali collezionati dai vini Terredora, tra cui Wine Spectator, Wine Advocate e Wine Challange. Un traguardo ambizioso che s’affaccia su un cammino seminato di nuove stimolanti sfide. 
I Vini
Campore a Lapio e Terre di Dora a Montefalcione offrono un’interpretazione moderna di un autoctono di grande tradizione come il Fiano di Avellino, dalla forte identità varietale e di estrema lunghezza e personalità.
Terre degli Angeli a Santa Paolina, Loggia della Serra e Pioppo del Cappuccino a Montefusco imprimono al Greco di Tufo una notevole intensità aromatica, fragranze minerali e i caratteri tipici dei vini bianchi di grande complessità.
I pendii scoscesi di Campore a Lapio partoriscono il simbolo per eccellenza di Terredora: il Taurasi Campore Riserva, potente, morbido ma dalla forte personalità.
Casali della Baronia a Montemiletto producono vini che si distinguono per freschezza e ricchezza dei profumi: il Principio, Aglianico di ispirazione moderna, dalle iniziali note dolci che evolvono positivamente nel tempo, e la Falanghina Irpinia, eccezionale esempio di stile, in cui spiccano l’intensità di frutta e la freschezza.
Sulle dolci colline di Pago dei Fusi a Pietradefusi, culla dell’Aglianico, nascono vini di grande impatto olfattivo con predominanza di note minerali e una spalla acida che ne valorizza la freschezza.
Corte di Giso a Gesualdo è l’ultima nata fra le tenute Terredora, dedicata a Falanghina e Aglianico. Anche i vigneti a Venticano sono coltivati ad Aglianico, un vino giovane, allegro, con vivaci note di pepe e frutti rossi che richiamano l’estate.

Forse, se Baudelaire potesse idealmente sorseggiarlo, gli dedicherebbe la sua poesia più bella.

venerdì 25 marzo 2016

Pelle


Vorrei essere nuda pelle.
Vestita solo delle tue mani
coperta solo dei tuoi baci
scaldata solo dalle tue parole
avvolta solo dal tuo ardore.
Sola, la mia pelle trema
cercando su di sé
il ricordo ancora acceso di te.

martedì 22 marzo 2016

L'anima del piacere


Dire che uomini e donne sono diversi è un’ovvietà. E in questo caso non alludo solo a certe manifeste fattezze fisiche ma, innanzitutto, al cervello che fermenta pensieri, sensazioni, emozioni per natura differenti. Altrettanto evidente è che i due sessi sono destinati a completarsi, inevitabilmente spinti dal desiderio di ripristinare un’originaria idillica unità.
Prima della scienza, è stata la filosofia a cercare di spiegare quest’ineluttabile motore che spinge uomini e donne a ricongiungersi attraverso l’amore e la ricerca di un piacere fisico non circoscritto alla pura procreazione. Per esempio, nel “Simposio”, Platone abbozza con pensosa arguzia uno stuzzicante dialogo sull’origine della sessualità, cercando di spiegare l’anima del piacere attraverso una metafora ben nota. Lo fa tramite il commediografo Aristofane il quale, durante un banchetto, racconta il mito secondo cui in origine, oltre all’uomo e alla donna, esisteva anche una terza creatura: l’ermafrodita. Con eccitato coinvolgimento di tutti i presenti, Aristofane spiega che:
“La figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi formavano un cerchio; aveva quattro mani e quattro pure erano le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo anch’esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio.”
Tuttavia, la potenza di queste ambigue creature deve aver alquanto allarmato gli dei, al punto che Zeus decise di dividerle in due parti, ricucendo la pelle strappata nel punto di mezzo con un nodo. Nodo che sarebbe diventato l’ombelico. Da quel momento in poi, la vita degli esseri umani sarebbe stata dettata dalla costante brama di ricongiungersi con la metà perduta. E il sesso sarebbe diventato il collante necessario per ricucire i frammenti smembrati dalla volontà (o dall’invidia) divina, trasformando così la ricongiunzione squisitamente biologica in un ineguagliabile piacere fisico.
Questo, come la maggior parte dei miti, sopperisce con la fantasia della metafora all’incompiutezza scientifica, azzardando anche un’arguta analisi psicologica. Il desiderio di fare sesso verrebbe così interpretato come una specie di nostalgia, un atavico impulso a tornare all’originale paradiso perduto, fatto di vigore ma soprattutto di equilibrio e completezza. In poche parole, meno liriche di quelle di Aristofane, fare sesso con chi si ama nascerebbe dal desiderio di far l’amore con se stessi per ritrovarsi finalmente completi.
Naturalmente non è possibile ridurre l’anima del piacere sessuale a un nocciolo atavico così lineare, perché i preamboli erotici che anticipano e seguono l’estasi sono infiniti e imprevedibili. Se fosse così semplice, l’eccitazione scoccherebbe dalla somiglianza e non dalla differenza, e l’attrazione sarebbe indotta da quel pallido riflesso di noi stessi riprodotto e ricercato nella persona amata. Non è sempre e solo così, appunto. E quell’inesprimibile richiamo tra le braccia dell’amante, quello scioglimento dei lombi, quel dolce inturgidimento, quel desiderio di fusione, di sperdimento e di ritrovamento che conduce all’estasi resterà, probabilmente, un eterno argomento di disquisizione per filosofi, scienziati, poeti e forse per gli stessi amanti.
Non è, infatti, questo uno dei misteri più belli che unisce la missione di procreare a quella di sperimentare il piacere più intenso mai conosciuto? Un piacere talmente intenso e fulminante da essere paragonato al culmine estremo della vita, ovvero la morte.
L’orgasmo, in letteratura, è stato infatti spesso accostato al decesso, tanto che i francesi, con la loro aristocratica raffinatezza, l’hanno battezzato petit mort. Non somiglia, infatti, all’unione di due semicerchi carnali destinati a liquefarsi quella tra due corpi? Due amanti, unendo le proprie membra e il proprio afflato, diventano complici della loro stessa morte, perché se fossero immortali non avrebbero bisogno di fondersi donandosi un reciproco piacere per creare una nuova vita.
Da qui, l’impercettibile confine – o ponte d’unione – tra estasi sessuale ed estasi mistica, o religiosa. Entrambi gli estatici deliqui, infatti, implicano un donarsi totale all’altro – che sia Uomo o Dio – in un dissolvimento senza possibilità di ritorno, in cui migliaia di particelle di piacere trasformano momentaneamente il corpo in anima e viceversa. Quello dell’orgasmo diventa, forse, l’attimo terreno più vicino al paradiso, in cui la coscienza è paralizzata e l’identità confusa, in cui il dolore si fa dolce e la durezza si scioglie in spasmi primordiali. E’ l’attimo in cui l’essere umano diventa al tempo stesso angelo e animale, non una ma due volte contemporaneamente, perché fuso nell’abbraccio complice dell’amante.
Se la pittoresca metafora di Platone ha dato un sapore squisitamente terreno alla natura del piacere sessuale come ricongiunzione con se stessi, nessuno come Santa Teresa d’Avila ne ha offerto un’interpretazione tanto sublime e sensuale, come comunione con Dio. La mistica spagnola del Cinquecento, infatti, con disarmante semplicità, ha descritto spesso questa sensazione di estremo sdilinquimento che fluttua tra anima e corpo, quest’estasi irrinunciabile che fa vibrare le corde più intime, fino a ricongiungere il cielo con gli inferi, grazie ai sensi terreni:
“Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore che non c’era da desiderarne la fine. E’ un idillio così soave che io supplico la divina bontà di farlo provare a chiunque pensasse che io mento …”
Insomma, dal sacro al profano, le interpretazioni circa la natura del piacere sessuale si sono affastellate nei secoli, facendo spesso accapigliare filosofi e scienziati, psicologi e religiosi. Sarebbe bello poter credere a quest’impulso di ricongiunzione cosmica di due metà separate ma, in realtà, l’argomento resta un intricato mistero più facile da vivere che spiegare. Ad un’interpretazione univoca, probabilmente, non si giungerà tanto facilmente ma, nel frattempo, il piacere sessuale (quando non è fine a se stesso) continua ad essere ciò che di più umano eleva l’anima di chi sa vivere con amore e passione, consolandola delle inevitabili afflizioni dell’esistenza.
Non ultima, l’afflizione di non essere, ahimè, né dei, né santi, né immortali ma semplicemente esseri umani.

lunedì 21 marzo 2016

L'Amore liquido


Ti voglio bene.
Ti amo.
Tu sei fatta apposta per me.
Quante volte nella vita ci siamo sentiti dire queste parole! Quante volte persone tanto diverse tra loro hanno manifestato lo stesso sentimento, lo stesso trasporto, lo stesso bisogno di amare noi.
Noi, proprio noi. Scelti tra centinaia di altri esseri umani a portata di mano, magari più interessanti, più attraenti, più intelligenti, più eccitanti. Insomma migliori di noi!
Com’è possibile che persone tanto diverse possano tutte trovarci “fatti apposta per loro”? e amarci indistintamente allo stesso modo?
E viceversa, com’è possibile innamorarsi più volte nella vita di individui spesso agli antipodi tra loro, per aspetto, carattere, abitudini?
Forse, quel sentimento che ci ostiniamo a chiamare “amore” o “bene”, cercando inconsapevolmente di scolpire in una certezza qualcosa di assolutamente evanescente, non è affatto qualcosa di solido, di cristallino, di definitivo, cui poter dare un nome preciso.
Ma è, piuttosto, un po’ come l’acqua.
Un liquido, un flusso, un fluido che di volta in volta prende la forma del contenitore che lo ospita e lo alimenta. Così come l’acqua si adatta al profilo del letto che accoglie un fiume, allo stesso modo il sentimento amoroso sgorga ineluttabile e s’incanala verso quella persona che in quel preciso momento della vita risponde ai nostri desideri, appaga le nostre aspettative, sollecita i nostri sensori epidermici, chimici, feromonali e intellettuali.
Forse, allora, tanti sono i moti di quel sentimento chiamato “amore” quante sono le persone al mondo che lo coltivano. Ogni volta diverso, eppure sempre uguale e indispensabile.

Come l’acqua. Perché senza si muore.

domenica 13 marzo 2016

Invisibili presenze


Nella vita di ognuno ci sono delle invisibili presenze.
Persone significative che circolano dentro di noi, nel cuore, nel cervello, sottopelle. Persone che, anche se lontane, ci prendono sottobraccio condividendo con noi un percorso importante, seminato di pensieri, di emozioni, di sensazioni.
Vibrazioni che uniscono a dispetto della distanza. Desideri che allacciano nonostante la lontananza. Affinità che attraggono oltre la conoscenza.
Basta allungare la mano per carezzare il calore, basta chiudere gli occhi per sentire la voce, basta inspirare per assaporare l’odore di quell’invisibile presenza che si diverte a portare scompiglio nei nostri sogni circolando continuamente dentro di noi.
Nel cuore, nel cervello, sottopelle. Oltre.
Ovunque, tracce della tua invisibile presenza si sciolgono in me.

mercoledì 9 marzo 2016

La Pallina magica


Oggi in un istante mi son sentita improvvisamente vecchia!
Tutta colpa di una pallina. Una pallina di gomma, di quelle coloratissime che rimbalzavano pazzamente sul pavimento, sulle pareti, fin sul soffitto. Capricciose, irriverenti, senza riguardo per niente e nessuno, sembravano non volersi fermare mai, come fossero caricate di un’energia autonoma ineluttabile, accesa dal semplice lancio di una mano. Di una piccola mano. Perché quelle palline matte piacevano tanto ai bambini di tanti anni fa, tra cui me, appunto.
E oggi, dopo quei “tanti anni”, parlando per caso con un amico quasi coetaneo, mi sono tornate in mente come fossero ancora presenti, palpabili, vive. "Te le ricordi anche tu?" Oh si... L’odore buono di gomma, il calore nella mano, i colori colati nella trasparenza della sfera che invitavano ad essere mangiati, o a immergersi dentro fino a perdere i sensi. E se da un lato mi sono vista con dolore passare davanti agli occhi una vita, o quasi, intera, dall’altro mi sono rivista esattamente catapultata in un istante preciso della mia infanzia. Allegra, seduta sul pavimento di casa a piedi nudi, tutta intenta a tagliare a metà una di quelle palline matte per cercare di capire come fosse fatta dentro. 
Quale mistero, quale seduzione, quale messaggio celava! Volevo raggiungere i colori, annusarne la consistenza, leccarne il profumo, in un inconsapevole gioco sinestetico che mi trasportava lontano, attratta dalla bellezza dell’ignoto. Un po’ come fossi anch’io una di loro, una pallina matta animata da energia autonoma, ubriaca, beatamente rimbalzata da un sogno all’altro, da un pianeta all’altro, da un’era all’altra.

Ecco allora la verità. Quelle palline non erano matte. Erano magiche! Non solo avevano il potere di far sognare una bambina con una manciata di colori fusi dentro un pugno di gomma calda ma avevano (e ancora hanno) anche quello di annullare le età. In un coloratissimo rimbalzo senza tempo.
Così oggi in un istante mi son sentita improvvisamente bambina.
Tutto merito di una pallina!

martedì 1 marzo 2016

Il senso di una donna


Un’anfora d’argilla in mani di gigante.
Questo è il corpo di lei quando lui la tocca.
Nessuna forma precisa, solo curve di voluttuosa carne che si disfanno e rinascono sotto la presa sicura di chi sa cosa vuole.
Un filo d’olio caldo per cominciare e il massaggio prende il ritmo di una danza. Dapprima lenta e misurata, poi sempre più incalzante e audace, tradendo lo spartito … classica, blues, jazz.
Le note scivolano e si rincorrono su quel pentagramma d’argilla viva mentre lui lavora per darle una forma vera. Il collo di un cigno, le spalle di un gabbiano, la schiena di una pantera, le anche di una giraffa, le gambe di una gazzella, i glutei di una donna.
Lei diventa tutti gli animali che a lui piace immaginare mentre la cosparge di nuovo olio prima di ricominciare. Solo malcelati sospiri a tradire l’impazienza, l’insopportabile dolore per pochi secondi di assenza. Assenza del suo tocco, di quelle mani generose, mani che sanno parlare perche sanno ascoltare.
Ma eccole, rieccole alla carica. Ancora più calde e assetate di quelle curve ormai note, umidi sentieri di brividi dove perdersi per ritrovarsi. I palmi si fanno strada tra i fremiti che inconsapevolmente guidano le dita, ora con veemenza sopra i lombi, ora con pudore verso il ventre, che geloso implora la sua parte. Flessuosa come un’arpa, lei si fa docile strumento e lui dirige l’orchestra con raro talento. Lentamente, lungamente, sapientemente. Fino al trionfo, l’incontenibile scroscio d’applausi che lei gli offre, imbavagliato dentro il silenzio di un gemito mal soffocato.
Fine della danza. Il cigno si dilegua nel suo lago. Il gabbiano si rimescola al suo cielo. La pantera, la giraffa e la gazzella si rituffano nella selvatica natura.
Che cosa resta allora?
Un’opera d’arte: il senso della donna scolpito da mani di gigante.