https://tasteandtravel.ch/2016/09/30/carpineto-vini-senza-eta/
venerdì 30 settembre 2016
lunedì 26 settembre 2016
sabato 17 settembre 2016
COME SOPRAVVIVERE ALL’ANDROPAUSA
“… La monotonia
conduce inevitabilmente all’infedeltà …
il campo di battaglia
tra i sessi è il talamo. Non è vero che noi maschietti subiamo un calo del
desiderio rispetto ai diciott’anni. Ne è la prova il fatto che le diciottenni
ci piacciono oggi forse più che allora. Il problema è che spesso troviamo
repellenti le nostre coetanee. Intendiamoci, non è che noi si sia invecchiati
stile Harrison Ford: siamo un tripudio di pance e di calvizie, però chi non è più
indulgente verso sé stesso che verso il prossimo? Senza contare che il numero
di donne che acquisisce fascino con l’età è ridotto: se Sean Connery è
migliorato, lo stesso non si può dire per Ursula Andress…”
È solo un assaggio di uno spassoso saggio scritto con pungente
sarcasmo da Paul de Sury il quale, guardandosi allo specchio si scopre
improvvisamente giunto oltre quella soglia di età che pone sul baratro dell’esistenza
donne e uomini. La mezza età giunge quasi inattesa senza possibilità di fuga e
con essa si acuisce il senso del tempo: da bambini le ore non passano mai, da
grandi diventano granelli di sabbia al vento. Per motivi diversi, e con manifestazioni
diverse, entrambi i sessi soffrono dolorosamente l’avanzare degli anni e per
quanto ognuno di noi possa reagire all’inevitabile con formule più o meno
ostentate, alla fine la rassegnazione alla convivenza con la propria età
anagrafica è l’unica carta che ci resta in mano.
Se la menopausa ha una fotografia di sé ben precisa con
evidenti sintomi fisici e psicologici che inquadrano inequivocabilmente la
donna dentro quell’odiosa fase esistenziale fatta di vampate e crisi di pianto,
l’andropausa è un po’ più nebulosa tanto che i maschietti spesso giocano a
viverla come una protratta seconda adolescenza, con esiti sociali e relazionali
del tutto individuali. Chi si compera l’auto sportiva, chi si mette il
parrucchino, chi si iscrive in palestra, chi al corso di salsa, chi corre
dietro alle ragazzine (i più!) … con buona pace di mogli, figli e nipoti.
Paul de Sury affronta in modo scientifico, ma leggero, il
processo di senescenza virile mettendosi a nudo con gustosa sincerità,
insegnando ai colleghi maschi come
adattarsi progressivamente al deterioramento (esterno) e al rincoglionimento
(interno). In poche parole, come avere sessant’anni e comportarsi da
ventenni!
A far da controcanto alle sue spesso colorite divagazioni,
la voce del Prof. Re Rebaudengo, ordinario di senilità andrologica all’Università
di Torino. Il palleggio tra i due scrittori è assai divertente, un’occasione
per tutti – donne e uomini – per immaginare come saremo o consolarci di ciò che
siamo. In fondo – io credo - un solo pensiero può bastare a farci accettare di
buon grado la nostra vecchiaia: non arrivarci è peggio!
sabato 10 settembre 2016
SOTTO IL SEGNO DELLO … ZIBIBBO
Apoteosi pantesca: una
notte limpida di stelle aiuta a volare… indietro nei ricordi, lontano nei sogni
Immaginate di approdare su una piccola isola dal cuore immenso.
Limpidi riflessi d’azzurro s’immergono nel blu del mare più
africano e abbracciano un’anima di brillante vegetazione. Una tavolozza mediterranea
che conquista il suo diritto a colorare la vita facendosi strada tra rocce a
picco sulle onde, serpeggiando fuori da una terra straordinariamente ricca di
promesse.
Immaginate, ora, di calarvi in un’oasi dentro all’isola. Un
concentrato di colori, profumi e sapori che riassume tutto il bello e il buono
che questo luogo magico contiene, in parte frutto della generosa Madre Terra,
in parte dell’appassionata mano umana.
Non siete stati risucchiati dentro il multiforme vortice
della fantasia.
Siete a Pantelleria
che, così come un satellite corteggia il suo pianeta, bacia la costa sud ovest
della Sicilia completando con i suoi 80 km quadrati di suolo vulcanico la provincia
di Trapani.
Questa piccola isola dal cuore immenso ospita una Azienda
che ha saputo esaltare all’ennesima potenza la profferta di una natura tanto
generosa quanto varia, considerando lo spazio alquanto limitato di questo
microcosmo galleggiante nel blu.
È l’Azienda Agricola
Emanuela Bonomo, una giovane azienda che tramanda con talento l’esperienza
di famiglia. Da qui la natura esce completamente trasformata: uva, olive,
frutta, capperi, origano vengono sublimati nel meglio che in cucina e a tavola
si potrebbe desiderare.
L’obiettivo è quello di esaltare i sapori locali senza
corruzioni artificiali e contemporaneamente quello di lavorare nel rispetto di
un ambiente raro e prezioso per qualità di clima e terreno.
Qui, come in alcun altro luogo, regna sovrana la cultivar
dello Zibibbo che dà vita a vini
unici al mondo.
Dalla coltivazione di Uva Zibibbo nasce, infatti, un vero
nettare: il Pantelleria Bianco, Vino
D.O.C. secco di Zibibbo, apoteosi pantesca nel calice. Non da meno è il Passito D.O.P. prodotto anch’esso da
Uva Zibibbo appassita naturalmente al sole di Sicilia. Il “Don Petro” ne è
l’emblema! Ed è proprio il sole che pare bere quando, poggiando le labbra sul
bicchiere, il nettare scivola fin dentro il cuore rilasciando il suo dolce
calore attraverso il sapore.
Un’esperienza tutta da gustare.
Non solo vino, però. Altro pregio dell’Azienda sono i
capperi coltivati nel bel cappereto di Monte Gibele, un anfiteatro naturale
terrazzato interamente dedicato a capperi, frutteti e olivi. Dalla cultivar
Biancolilla si estrae a freddo, nell’unico frantoio dell’isola, un olio
extravergine che sprigiona tutte le fragranze della sicilianità e dell’animo
pantesco.
Dunque… Profumo di origano, fragranza di olive, croccantezza
di cucunci e morbidezza di paté (imperdibile quello di capperi!), salse e
marmellate completano il ventaglio di seduzione dell’Azienda Emanuela Bonomo.
Se poi non avete nulla, e nessuno, da perdere e potete
permettervi il lusso di abbandonarvi definitivamente a questa piccola isola dal
cuore immenso, assaggiate il Nettare di
Uva di Zibibbo, un mosto d’uva concentrato dalla consistenza del miele
tanto gentile da sposarsi perfettamente con piccanti umori. Un innamoramento al
primo assaggio.
L’ultimo, forse, dolce segreto di una piccola isola dal
cuore immenso.
domenica 4 settembre 2016
GENOVESI SÍ MA... DAL CUORE SICILIANO
Sarà la voglia di dolcezza che in questa mite sera
lacustre mi riporta con la mente alla mia amata Sicilia. In particolare a
Erice.
Mi si perdoni la nuda materialità ma in quest’istante
non sto rievocando la magnificenza di questo piccolo borgo sopravvissuto
intatto al tempo. Sto immaginando, piuttosto, di affondare le labbra nella morbida
cremosità di un dolce nato qui, anch’esso sopravvissuto al tempo, simbolo della
sicilianità gastronomica.
Mi riferisco alle “genovesi” di Erice: dolci di
pasta frolla con un cuore di delicata crema pasticcera cosparsi da una carezza
di zucchero a velo. La prima cosa che mi son chiesta, dopo il primo assaggio di
dolcezza in un pomeriggio assolato di luglio trascorso là, è stato il perché di
quel nome. Perché chiamare “genovesi” delle creature partorite dalla
pasticceria artigianale squisitamente siciliana? Raccogliendo qua e là qualche curiosità
ho scoperto che, pur restando l’etimologia incerta, una suggestiva ipotesi riguarderebbe
la forma del dolce che ricalca la sagoma del cappello dei marinai genovesi. Infatti,
in passato i commerci tra Trapani e Genova erano molto intensi, il che
renderebbe plausibile un’associazione tra le genovesi ericine e l’aspetto dei
marinai liguri.
Storicamente, in realtà, tra il 1300 ed il 1500
alcune famiglie nobili dedicarono a Erice oltre trenta chiese, per coronare la
carica di prete di un primogenito maschio, come voleva la tradizione. Con il trascorrere
degli anni, molte chiese passarono alle suore e alle monache di clausura, abili
pasticcere ricche di tempo e di inventiva. Dalle loro mani nascevano i
“mustazzoli”, dolci di marzapane con confettura di cedro, e le mie amate
“genovesi”, appunto. Nella seconda metà dell’Ottocento una apposita legge dettò
la chiusura dei conventi e il rischio di perdere questo patrimonio di arte pasticcera
fu scongiurato grazie all’iniziativa di una signora molto speciale: Maria
Grammatico.
Maria, durante un’infanzia particolarmente
difficile, aveva vissuto nel monastero e da “grande” cercò di imitare l’arte
culinaria delle monache, giocando con ingredienti, dosi e fantasia. Grazie alla
sua perseveranza oggi non solo si possono gustare le genovesi ericine in tutta
la loro bontà ma è anche possibile visitare il goloso laboratorio che Maria
conduce per la gioia di turisti e soprattutto dei Siciliani, fieri delle
proprie tradizioni anche gastronomiche.
La pasticceria di
Maria Grammatico anima la Via Vittorio Emanuele, nel cuore di Erice: i dolci colorano
le antiche vetrine dai profili in legno invitando i passanti all’assaggio. Imbarazzante
la scelta fra mostaccioli delle monache e frutta di Martorana, tra le minne e i
cannoli, fra le cassatine e ... le genovesi!
Gli abitanti di
Erice dicono che Maria è sempre lì, nel suo laboratorio, a prendersi cura delle
sue dolci creature, oggi come tanti anni fa. Un buon esempio di come la
passione possa trasformarsi in imprenditorialità e la storia in un presente da
tramandare alle generazioni future.
Per chi fosse
curioso, la storia di Maria Grammatico è ben raccontata da Mary Taylor Simeti, nel
libro Mandorle amare (Palermo 2004). E per chi volesse cimentarsi nella
preparazione delle genovesi ericine può pescare una delle tante ricette in
rete, anche se l’originalità è garantita solo ed esclusivamente andando a Erice,
direttamente nella bottega di Maria Grammatico.
Un’occasione in
più per innamorarsi della Sicilia e della sua infinita dolcezza.
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