Se
Montaigne, geniale filosofo e appassionato scrittore francese del Cinquecento,
fosse in vita oggi, sarebbe sicuramente un perfetto “supertaster”.
Apparterrebbe,
cioè, a quel venticinque percento di popolazione in grado di percepire odori,
aromi e sapori più intensamente della media, distinguendoli in sfumature
inafferrabili ai più. Di conseguenza, sarebbe conteso, ammirato e forse anche
temuto da chi produce, commercia e consuma olio, vino e prelibatezze affini,
come gli analisti sensoriali possono ben immaginare.
Non
intendo limitare la grandezza di Montaigne a questa virtù istintuale, perché il
suo fermento intellettuale spazia ovunque e lambisce sia la concretezza fisica
e scientifica, sia la profondità filosofica e psicologica. Tuttavia, vorrei
soffermarmi su questo razionalismo sensualista, perché è quello che guida il
filosofo durante tutta la sua esistenza, un’esistenza sempre golosa e mai sazia
di avventure e conoscenza.
Montaigne
ama la vita, in tutti i sensi e con tutti i sensi. Mangia spesso con
ingordigia, si morde la lingua dal piacere, adora il buon vino, odia essere
interrotto mentre è in bagno, riconosce il profumo di violette nella sua urina,
apprezza l’odore neutro della sua pelle e spera che la morte lo sorprenda
mentre sarà intento a piantare degli odorosi cavoli nel suo orto. Nelle sue
eccentricità, una cosa è per lui certa: la conoscenza di sé, che passa
innanzitutto attraverso i sensi, accresce la consapevolezza dell’altro e
l’apprezzamento del diverso da sé.
Durante
i suoi continui viaggi, Montaigne annota e spesso detta al suo fedele
servitore, ogni minimo dettaglio circa le esperienze vissute a contatto con le
persone, gli animali e i cibi. Tutto è importante per lui e aristotelicamente
sostiene che nulla è inutile in natura. Lo ribadisce spesso nei “Saggi”, dove emerge con evidenza quanto
amasse mangiare, bere, annusare e assaggiare, non con l’arida dissolutezza
dell’ingordo ma con la fine sensibilità di colui che vuole imparare. E
nonostante i seri problemi renali, probabilmente ereditati dal padre, che gli
procurano spesso feroci sofferenze, Montaigne non rinuncia mai ai piaceri della
vita, compresi appunto quelli della tavola.
Non
a caso, il filosofo inventa l’espressione “science
de gueule”, scienza della gola, proprio negli anni in cui la cucina
francese sboccia verso un rigoglioso e promettente fiorire. In quest’epoca,
infatti, la ricerca della perfezione nell’arte culinaria è d’obbligo, tanto che
Montaigne racconta di un famoso chef, Vatel, che alla vigilia di un banchetto
reale si suicida, essendosi accorto di aver clamorosamente terminato il pesce
ordinatogli dal suo sovrano.
E’
in questo contesto storico pregno di sperimentazioni gastronomiche, che
Montaigne arricchisce il proprio bagaglio culturale aprendosi a esotici e
speziati orizzonti, grazie al senso del gusto ma anche al senso dell’olfatto.
Dedica un intero saggio a questo senso primordiale eppur prezioso, intitolato “Degli odori”, in cui precisa: “mi piace molto sentire i buoni odori e odio
straordinariamente i cattivi, che sento da lontano più di ogni altro.” E’
lui stesso a definire il suo naso “straordinario”
per la sua non comune sensibilità, una sensibilità che non distingue tra anima
e corpo perché, come Montaigne afferma, la persona umana è un’unità in cui
convivono armoniosamente i piaceri sensuali e quelli spirituali. Affidarsi al
proprio naso è, dunque, per Montaigne il modo più preciso per cercare di
afferrare l’essenza di una persona, così come la qualità di un cibo o di una bevanda.
L’odore rivela molto più di quel che l’occhio può vedere, in ogni situazione.
Così, Montaigne si diverte a descrivere con minuzia la dolcezza dell’alito dei
bambini sani; racconta come l’odore dei guanti gli resti addosso per tutto il
giorno; critica ripetutamente la bellezza di città come Venezia e Parigi per
via dell’odore paludoso dell’aria; mentre esalta le strade austriache per i
fumi aromatici emanati dalle stufe delle case.
Ma
la sensibilità olfattiva e gustativa di Montaigne spicca soprattutto nel suo “Viaggio in Italia”, un saggio che viene
tuttora considerato un vera e propria guida ai vini dell’epoca. Il filosofo
fiuta, assaggia, beve ed espettora con acuta attenzione i vini che gli vengono
offerti durante gli spostamenti in Europa, annotando con minuzia ogni
sensazione e senza risparmiare severe critiche. A Plombières il vino non è per
niente buono, così come non lo è il pane; a Schongau ci si deve accontentare di
vino novello da consumarsi appena imbottigliato; ad Augusta, i vini buoni sono
per lo più bianchi, come a Vipiteno, perché i rossi deludono; in Germania i
vini vengono aromatizzati con varie erbe o spezie, tra cui la salvia, di cui i
germanici son ghiotti; a Basilea sono tutti troppo delicati, per non dire
blandamente annacquati. Ma è in Italia, e specialmente a Lucca, che Montaigne
assaggia un “vino bonissimo”,
regalatogli da un ministro dei frati francescani con dell’ottimo marzapane che,
insieme, allietano una delle sue tante soste ai bagni termali. Anche quando è
costretto a curare i dolori renali, infatti, Montaigne non rinuncia alle cose
buone, consolandosi così dei propri acciacchi e sperimentando su di sé
possibili cure alternative, certamente più piacevoli di clisteri e salassi.
Qualche
storico sostiene che il rapporto viscerale tra il filosofo e il vino dipenda
dal fatto che quest’ultimo entra nel sangue, scaldando i pensieri e sciogliendo
la scrittura. A me, invece, piace pensare che l’amore di Montaigne per il vino
nasca prima, cioè dalla terra e dalle vigne, che lui stesso quando può cura con
passione. Il filosofo è, infatti, anche un esperto e ricco vigneron e dalla finestra del suo studio ama osservare il gelo
pizzicare le viti intirizzite, la potatura e la legatura dei tralicci
d’inverno, il sole estivo che riscalda i grappoli e l’allegria della vendemmia
settembrina. “Quando gelano le vigne del
mio villaggio, il mio prete argomenta che è l’ira di Dio sulla razza umana”,
scrive. Ecco, forse solo dopo questo profondo significato simbolicamente legato
alla vita e alla giovinezza arriva per Montaigne il piacere più strettamente
legato al gusto, così pregnante nei suoi scritti.
Alcuni
sostengono che il titolo stesso dei suoi manoscritti “Essais” non vada tradotto come “Saggi”
bensì come “Assaggi”. E’ possibile,
visto che l’origine arcaica del termine “assai” è presumibilmente legata al
cibo e al vino. Letto in questa chiave, l’intero manoscritto di Montaigne (il
cui titolo originale era “Essais de
Messire Michel de Montaigne”) sarebbe coerente con la premessa che il
filosofo dedica al lettore, in cui presenta i suoi racconti come un mezzo per alimentare il proprio ricordo
presso amici e parenti. Il titolo potrebbe dunque essere tradotto come “Assaggi di Michel de Montaigne”.
Tuttavia
Montaigne estende le sue riflessioni sensoriali oltre al vino e al cibo e
arriva a toccare il corpo umano. Ed è qui che va ricondotta la sua saggezza.
Attraverso le impressioni olfattive, Montaigne arriva a leggere dentro le
persone, intuendo temperamento, abitudini e umori. Per esempio, disapprova
l’abuso di profumi artificiali, perché mascherano la verità e sono sintomo di
mancanza di pulizia, quindi chi profuma troppo, in realtà, puzza. I suoi folti
baffi, oltretutto, non lo tradiscono mai e gli sono complici nell’imprimere
sensazioni gustative e olfattive essenziali, soprattutto in amore. Scrive,
infatti, che “gli appassionati baci della
gioventù, saporosi, ghiotti e appiccicaticci, un tempo vi s’incollavano e vi
restavano per molte ore.” Inoltre, Montaigne sottolinea come “il più squisito profumo di donna è non
avere alcun odore, così come il miglior odore delle sue azioni è che esse siano
impercettibili e tacite.” Se da un punto di vista ideale, la donna
dev’essere inodore, Montaigne apprezza certi aromi delicati, come quelli che
usavano le ragazze di Scizia. Esse, infatti, “dopo essersi lavate, spargevano e ricoprivano tutto il corpo con una
certa droga odorosa che nasce nel loro paese; e al momento di avvicinare gli
uomini, la toglievano per essere lisce e profumate.”
Con
l’età, forse, il sapore tumido dei baci e le sensuali fragranze femminili
cambiano per Montaigne ma altri effluvi verranno da lui assorbiti e studiati
con altrettanta meticolosa passione. Per esempio, egli nota come l’utilizzo
dell’incenso durante i riti religiosi sia fondamentale per purificare i sensi e
indurre alla contemplazione. Allo stesso modo, rimpiange di non possedere
l’arte di aromatizzare i cibi di cui certi cuochi son mirabilmente dotati.
Insomma,
“annusare il più possibile” sempre e
ovunque, per esplorare tutto ciò che appartiene alla vita: questa sembra essere
la missione umanista sottesa alla saggezza di Montaigne, il quale fa del
proprio naso e del proprio palato un unico prezioso strumento di conoscenza e
di profondo godimento.
Il
filosofo assaggerà la vita fino all’ultimo respiro quando, ironia della sorte,
un ascesso alla lingua gli impedirà di parlare per tre sofferti giorni. “Non mi fa piacere essere malato ma se lo
sono, voglio saperlo, voglio sentirlo” scrive, mentre, disteso nel letto
della sua casa, gli amici più cari gli rendono le ultime commosse visite. Si
dice che abbia affrontato la morte con una serenità naturale, non piantando
cavoli come avrebbe desiderato, ma scrivendo in conclusione dei “Saggi” che era semplicemente giunto il
momento di raccogliere le sue cose e far fagotto.
E’ il 13 settembre del 1592, il giorno in cui Montaigne deve aver
annusato l’unico profumo a lui ancora sconosciuto, quello della morte, che come
un ultimo bacio s’è posato morbidamente sui suoi baffi stanchi, senza concedergli
il tempo di ricambiare, né di poterlo raccontare.