A
Vera è sempre piaciuto guardarsi allo specchio.
Sin
da piccola avvertiva un piacere misterioso e perverso nell’ammirarsi seduta
sulla poltroncina di velluto rosso davanti alla specchiera della sua camera da
letto.
Si
rifugiava lì la sera, dopo cena, di nascosto dai genitori, al semibuio dell’abatjour.
E si dedicava al suo gioco preferito. Giocava ad essere grande, davanti alla
sua immagine riflessa che le parlava e che si muoveva per lei.
La
bambina incompiuta e decisamente non bella, inadeguata ad esprimere la voce dei
suoi istinti, si trasformava magicamente ogni sera in una donna affascinante.
Sensuale, provocante e irresistibile per chiunque la guardasse. Quell’immagine
diventava così reale che Vera riusciva ad annullarsi completamente e ad
infilarsi nelle sue belle forme feline. Le si insinuava dentro alla perfezione,
come una mano in un guanto di raso.
La
trasfigurazione avveniva a partire dalle labbra. Oh, quella bocca così carnosa,
una promessa di baci generosi e insaziabili. Vera aveva sempre desiderato avere
una bocca così e spesso si ritrovava incollata alla superficie dello specchio,
labbra su labbra, intenta a baciare quella se stessa inventata dalla sua
immaginazione. Gli occhi chiusi le facevano sentire più forte il calore umido
di quello strano sapore, il contrasto della superficie sorda e ferruginosa
dello specchio annebbiato contro la morbidezza della sua carne viva.
E
poi i capelli. Quanto avrebbe desiderato possedere lunghi capelli da sciogliere
sulle spalle o da raccogliere scompostamente per offrire agli sguardi un collo
pulsante da sfiorare e respirare. E allora indossava una di quelle parrucche
che la mamma conservava in un cassetto e che sicuramente era solita usare
quando era una giovane farfalla. Capelli veri, vivi, una cascata di oro e rame.
Luce perfetta per i suoi occhi verdi, unico autentico indizio di un’anima
inquieta e incontenibile.
Accoccolata
così nella sua culla di velluto, Vera dava inizio alla recita, immaginando che
un segreto ammiratore la osservasse, intento a dominare una silenziosa,
eccitata partecipazione. Si alzava il sipario e per il suo spettatore
accavallava le gambe magre, lentamente, prima una, poi l’altra, provocando uno
sfregamento sottile contro la gonnellina scozzese che la solleticava
febbrilmente. Scuoteva la testa all’indietro, morbidamente, per sentire l’onda
soffice dei capelli lungo la schiena e atteggiava vagamente nell’aria le mani
sottili, inanellate di altri ricordi rubati alla mamma. E la sua voce infiammava
i suoi pensieri più intimi in un monologo appassionato che elettrizzava la sua
mente.
A
quel punto esisteva solo la bella signora nello specchio, che si compiaceva del
suo aspetto tanto da ricoprirsi di tenere carezze, fino a sorprendersi ancora
più conturbante nelle curve più segrete del suo corpo ancora intatto.
Curiosa
si esplorava, attenta si studiava e ogni sera Vera si scopriva sempre più
palpitante, scandalosamente viva. Le sue mani percepivano un calore emanare dal
velluto del suo corpo e la sua pelle tutta anticipava in un brivido il tocco
delle sue dita assetate. Le sembrava di essere una gatta, arrotolata su se
stessa, vibrante sotto carezze invisibili, che inseguiva facendo le fusa in un’onda
continua.
Fino
al culmine. Fino a quando il corpo si scioglieva e l’onda pareva diventare
interminabile. Niente più labbra, niente capelli, né occhi, né poltroncina, né
stanza. Solo sussulti, fremiti, lievi scosse infinite di calore, dolcissimo e
violento al tempo stesso. Era come se lei non fosse più padrona del proprio
corpo ma quell’essere rubata a se stessa era la sensazione più bella che avesse
mai provato.
Abbandonata,
Vera restava così, la testa rassegnata all’indietro sullo schienale, a
immaginare giochi d’ombre rincorrersi sul soffitto. Le gambe non più
accavallate ma sciolte, quasi slegate dal resto del corpo, che disobbediente
scivolava giù, molle, beato, libero.
Vera
cercava di prolungare il più possibile quel momento di silenzioso incanto.
Respirava il suo profumo narcotizzante di borotalco, accompagnando col respiro
il battito del cuore che lentamente si acquietava, quasi a volerla ringraziare
di quel meritato languore. Non voleva riaprire gli occhi, rinunciare a quella
bocca tumida, ai capelli di grano dorato. Non voleva dover cancellare l’impronta
delle labbra sullo specchio. E soprattutto non voleva sfilarsi dalle curve
seriche della donna per tornare ad essere la bambina ruvida e maldestra di
tutti i giorni.
“Il
gioco è bello quando è corto”, le ripeteva sempre la mamma. Una tra le tante
insensatezze che Vera era costretta a sorbire e fingere di osservare per far
contenti i grandi. Ma lei, ostinata e ribelle, ripeteva tutte le sere quel bel
gioco. Per tanto tempo l’ha ripetuto, quasi fosse un appuntamento segreto,
irrinunciabile. E ogni volta aggiungeva un dettaglio, una sfumatura alla messa
in scena, per il piacere di quell’ammiratore segreto, che puntualmente tornava
a farle visita, ipnotizzato dallo spettacolo che lei gli avrebbe offerto.
Il
suo era un talento naturale all’erotismo. La sua malizia si arricchiva ogni
volta di una consapevolezza così piacevole da educarla ben presto a gestire gli
slanci dei suoi istinti, insegnandole e a rallentare il piacere e a prolungare
il desiderio, per assaporarlo più intensamente.
Sono passati diversi anni
ormai. Vera è cresciuta e, con soddisfazione sua e di chi ha avuto il
privilegio di godere delle sue attenzioni, è diventata esattamente la donna con
cui giocava nella penombra della sua stanza. E ancora oggi, a volte, quando si
ammira allo specchio, sorride alla bambina che non l’ha mai abbandonata e che
continua ad osservarla attraverso i suoi sognanti occhi verdi, tuttora inquieti
e incontenibili, sotto lo sguardo languido del suo fedele ammiratore.
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