Ci sono momenti o giorni in cui,
all’improvviso, sentiamo il bisogno di stare soli.
E‘ una sorta di ramadan
esistenziale che talvolta ci cattura senza particolari motivi. Succede e basta. E’ come se sentissimo la necessità di
allontanarci per un po’ dai riti della quotidianità, dai rumori usuali e
persino dalle persone che condividono la nostra sfera più intima, per non
trascinarle in una dimensione emotiva spesso incomprensibile persino a noi
stessi.
Non ne ho le prove ma credo che
tutti si siano ritrovati in questo stato d’animo almeno una volta nella vita. E
ciascuno, in quel momento di distacco, reagisce a suo modo, immergendosi nelle
pagine di un libro, danzando al suono di una musica immaginaria, oppure
passeggiando nel silenzio, in luoghi preferibilmente ameni e solitari.
A me capita spesso. Di libri ne
ho consumati tanti e non ne sarò mai sazia; qualche volta ballo ancora al buio,
a piedi nudi, al ritmo d’invisibili tamburi; molto più spesso, però, scelgo di
camminare all’aperto, seguendo panorami che ispirano il mio clima emotivo. E’
come se andassi alla ricerca di un linguaggio universale e troppo spesso
dimenticato. L’unico che non ha bisogno di parole né di grammatica, perché è un
antico codice scolpito nell’anima, una specie di Arca dell’Alleanza tra Uomo e
Universo.
E’ straordinario ciò che si
riesce a provare immergendosi nella quiete di un giardino o di un bosco,
lontano dal frastuono e dalla fretta. Meglio ancora, lungo un fiume o sulle
rive di un lago, placida fonte d’ispirazione e consolazione, perché lo scorrere
dell’acqua diluisce anche gli affanni dell’esistenza. Può capitare, allora, di scoprirsi meno soli. E’ sufficiente
ascoltare il coro misterioso che si leva lentamente dai recessi frondosi degli
alberi, prima in maniera cortese, quasi a bussare alla porta del nostro
respiro, poi in maniera più audace, con note sempre più incalzanti e festose.
Soprattutto in primavera, magari
dopo un acquazzone, il concerto degli uccelli si manifesta come un brioso carnevale.
Somiglia a un dialogo spirituale, un concerto scritto su un pentagramma
invisibile, ricamato da timbriche tanto colorate da stemperare il grigio che
c’è in noi. I vocalizzi dei pennuti parlano d’amore, di corteggiamento, di
seduzione e si rincorrono come se giocassero a imitare le nostre emozioni: dal
petulante chiacchiericcio alla sonora risata, dal martellante gorgoglio al
melodrammatico lamento, dagli acuti trilli ai flautati mormorii. Ogni specie ha
un suo gergo emotivo e riuscire a interpretarne gli imperscrutabili misteri è
stato desiderio dell’uomo sin dall’antichità. Gli ‘auspices’ romani leggevano i presagi anche dal canto degli
uccelli, considerati, con i loro voli, messaggeri di rivelazioni divine e,
secondo una credenza ebraica, i Libri Sapienziali erano stati dettati a
Salomone da eloquenti cinguettii.
Se queste erano leggende,
è invece molto probabile che gli inventori della musica siano stati proprio gli
uccelli e noi, moderni auspices, ne abbiamo ricavato ispirazione. Ascoltandoli
con attenzione, possiamo cogliere vere e proprie liriche che si elevano con la
stessa variazione ritmica e le stesse relazioni tonali di cui si servono i
musicisti e i compositori. Secondo alcuni studiosi, gli uccelli canterini
avrebbero inventato la forma della ‘sonata’, che esordisce con un tema
d’apertura, si evolve in fantasiose variazioni e infine si ricongiunge al tema
iniziale.
Non mi meraviglia, dunque,
che Mozart sia stato profondamente influenzato dal loro canto. Possedeva uno
stormo che amava ascoltare in solitudine, per trarne stimoli creativi. Tra i
suoi taccuini, è stata rinvenuta un’annotazione su un passaggio del ‘Concerto per pianoforte in sol maggiore’,
interpretato secondo due chiavi: la sua e quella del pennuto. Lo storno, nel
suo spontaneo canto aveva, infatti, trasformato i diesis in bemolle e accanto
alla versione dell’uccello, Mozart annotò: “E’
una meraviglia!” Immagino che quando l’uccello morì, il compositore debba
aver sentito un grande silenzio dentro di sé, tanto da comporre il noto “Ein Musikalischer Spass” (“Uno scherzo
musicale”) ispirato al canto del suo defunto ‘maestro’ pennuto.
Se un genio come Mozart è
stato realmente incantato dai vocalizzi del suo storno, non c’è da stupirsi di
fronte alle tante leggende fiorite attorno al canto degli uccelli. Una di
queste è particolarmente pittoresca. Racconta di un monaco che, nel giardino
del suo monastero, pregava il Signore di regalargli una gioia ineffabile e
sconosciuta, finché una mattina, un angelo vestito di piume gli si posò accanto
mentre meditava. Il monaco allungò il braccio per afferrarlo ma ogni volta che
la sua mano sfiorava la creatura piumata, questa volava più lontano, finché si
ritrovarono entrambi fuori del monastero, in un bosco folto e profumato.
Posatosi su un albero, l’uccello si mise a cinguettare un concerto di arpe,
flauti e violini, tanto che il monaco, rapito dalla melodia, dimenticò lo
scorrere del tempo. Dopo un lungo sperdimento, a fatica tornò in sé ma quando
fece rientro all’abbazia, nessuno lo riconobbe, perché tutti gli abati erano
morti trecento anni prima. Il monaco capì, così, di avere trascorso tre secoli
ad ascoltare il misterioso uccello.
Quell’angelico canto non
solo aveva donato al monaco la tanto sospirata gioia ineffabile. Aveva anche
fermato il tempo, sospendendo le sue emozioni in un limbo di eterna felicità.
Forse, attraverso il canto di quella creatura alata, il monaco s’è idealmente
avvicinato a quei Serafini del Paradiso dantesco che appartengono al più alto
ordine degli angeli con il ruolo di guardiani del trono di Dio. Questi angeli
cantano incessantemente le Sue lodi, intonando suoni di una bellezza celestiale
che il Poeta chiama Musica delle Sfere, udibile solo da chi fosse stato educato
con coscienza iniziatica all’estatico ascolto.
Ecco: sono questi, e mille
altri, i pensieri e le rimembranze che possono scatenarsi dentro di noi quando
vaghiamo solitari nella natura. In quei momenti, cioè, in cui viviamo
sentimenti di estemporanea purificazione spirituale, di ricongiunzione pastorale
con il mondo, di una parafrasi personale del francescano Cantico delle
Creature. E’ come respirare l’essenza dell’essere, attingere a un benefico
rifornimento vitale per tornare più sereni alle faccende quotidiane. Perché
questo è, alla fine, il nostro destino: vivere l’universo mondo nella sua
interezza, dalle stelle alla Madre Terra ma, soprattutto, insieme ai nostri
simili, con loro e per loro. Non c’è niente da fare: siamo soprattutto esseri
sociali. Abbiamo bisogno degli altri, di dare e ricevere affetto, di vivere l’amore,
le passioni e la carnalità ma anche le nostre debolezze, i sogni, le illusioni
e le fantasie.
Perché siamo esseri
effimeri che anelano all’immortalità.
Perché siamo, semplicemente, umani!
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