Mangiare è una questione molto
intima. Ha a che fare con l’istinto primario della sessualità e le sensazioni
di piacere trasmesse dal cibo utilizzano lo stesso linguaggio della sensualità
e dell’erotismo, in cui tutti i sensi dialogano all’unisono. Spesso si
sottovaluta l’antica animalità che ci porta ad apprezzare un piatto, perché
siamo addomesticati dalla civiltà. Abbiamo perso l’abitudine a toccare,
leccare, annusare e persino ascoltare un cibo, anestetizzati dalla dimensione
formale, sociale e conviviale del pranzo, diventando così sempre più sordi all’alchimia
dei sensi.
Dimentichiamo per un attimo la
forma e concentriamoci sull’essenza. Ecco, una cena ben congeniata dovrebbe
essere, a mio parere, come una sinfonia. Un lento crescendo, che sboccia con
note soavi per solleticare progressivamente i sensi e che fiorisce nei delicati
arpeggi di un intermezzo, per culminare con la trionfale fanfara del piatto
principe, e sfumare, infine, nei morbidi accordi del dessert. Procedere così,
condividendo possibilmente il pasto con una complice compagnia, è un po’ come
far l’amore con stile, senza fretta, lasciandosi sedurre dalle insinuazioni,
assaporando le allusioni, arrivando all’estasi con il sospirato fragore, per
inabissarsi infine in un amabile e meritato riposo.
C’è un tipo di cibo che, più di
ogni altro, risveglia in me questo coinvolgimento primordiale del piacere a
tavola. E’ il pesce crudo che, nella sua semplicità, evoca insieme delicatezza
e forza. Non sto pensando alla cucina giapponese ora, comunque deliziosa agli
occhi e al palato, ma alla nostra, a quella mediterranea, talmente ricca e
fantasiosa da poter essere apprezzata anche così: cruda, vergine, … viva!
L’ultima volta che mi è capitato di gustare pesce crudo ‘all’italiana’
è stato pochi giorni fa a Roma, in un ristorante non lontano da Campo de’
Fiori, noto proprio per le sue crudità marine. Una cena memorabile, che ricordo
ancora con divertito piacere, soprattutto per la compagnia del caro amico
romano che mi ha invitato! Neanche il tempo di accomodarci al tavolo, che
adocchio già all’entrata le vittime sacrificali, mentre il mio gentile ospite
spera silenziosamente di trovare nel menù qualche cosa di cotto, non
condividendo i miei gusti culinari, a suo dire ‘selvaggi’. In una grande cesta colma di ghiaccio,
all’ingresso del locale, fanno bella mostra di sé pesci bellissimi di diverse
qualità, colori e grandezza, proprio come al mercato, e tra quelli spiccano dei
meravigliosi grappoli di gamberi e ciuffi di scampi di un arancione solare,
ancora combattivi e fieri. Gli scampi, con quelle antenne vigili e le tenaglie
ancora mobili sembrano tanti piccoli guerrieri intenti a sfidare i potenziali
avventori ma, sfortunatamente per loro, tutta questa vitalità li rende ancora
più appetibili. Infatti, poco dopo al tavolo, mentre al mio ospite, con sua
somma soddisfazione, viene servito un meraviglioso fragolino al forno
contornato da teneri anelli di calamari alla griglia, davanti a me si
materializza una vera e propria opera d’arte della natura: una decina di quei
magnifici crostacei da me scelti pocanzi, stanno semplicemente adagiati su un
letto di ghiaccio in un enorme piatto bianco, ritmato da timide fettine di
limone, che mettono ancor più in risalto il colore vivace dei carapaci.
Chi ama mangiare il pesce crudo sa bene quanto sia
importante che la catena del freddo non s’interrompa, per evitare inconvenienti
davvero spiacevoli. La creatura pescata dovrebbe guizzare dal mare direttamente
alla cesta del ghiaccio, dal ghiaccio al piatto e, infine, dal piatto alla
bocca, concedendo al commensale la sfumatura di tempo sufficiente per
pregustare quella primitiva bontà innanzitutto con gli occhi. Proprio come in
quest’occasione.
La sensazione è di addentare direttamente la natura e assume
una connotazione vagamente perversa, ancora più morbosa quando si tratta di
crostacei. Sarà perché si
presentano nel piatto ancora intatti, appena tramortiti nella loro verginale
bellezza. Sarà perché, prima di poter infilare in bocca la tenera polpa,
occorre afferrarli, meglio ancora con le dita, e sgusciare con cura quei corpi
la cui unica colpa è quella di eccitare i capricci di gola di noi umani. Me in
questo caso.
Le mani rivelano le nostre intenzioni e il nostro
temperamento, anche a tavola. Pulire un gambero o uno scampo è un’operazione
cerimoniosa, da svolgere con meticoloso rispetto e pudore. Piccoli gesti che
esprimono reverenza nei confronti della creatura sacrificata al palato, quasi a
voler agire la violenza con garbo, per sedare il senso di colpa. Almeno così è
per me e cerco di spiegarlo al mio ospite seduto di fronte, che mi guarda
incredulo, a metà tra il fascino e il raccapriccio, mentre accarezzo con gli
occhi le povere creature.
“Assaggia, devi assolutamente provare!” … Vano è il mio
tentativo di sedurre l’amico con un primo delizioso gambero rosso, privo di
qualsiasi trucco, salsa, condimento o spezia. La creatura resta lì, nuda,
brutalmente ferita dalla forchetta, sospesa a metà tavolo per qualche istante,
finché scompare definitivamente nella mia bocca voluttuosa. La vitalità del
mare si sprigiona e mi delizia, tanto che chiudo gli occhi e con un po’ d’immaginazione
mi sembra di annusarne la brezza.
Il concerto dei sensi ha avuto inizio, sento le prime note accendersi in
me! Ma ecco che l’estasi viene bruscamente interrotta prima del mio secondo
assalto al piatto, perché qualcosa d’inatteso accade. Non uno, bensì due
scampi, i più grandi, si sono attanagliati tra loro a ridosso di una fetta di
limone in mezzo al ghiaccio e non intendono sciogliersi da quel grottesco
abbraccio. Sembravano tramortiti, invece sono ancora maledettamente vivi e
questo mi crea grande disagio, perché non m’era mai capitato di trovarmi di
fronte a un ‘cibo’ ancora così vivace e bellicoso nel piatto.
“Assassina! Crudele, come puoi?” Gli occhi del mio amico
son più eloquenti di ogni possibile parola, mentre io rivolgo i miei alla
disperata ricerca del maître perché mi aiuti ad
affrontare l’imprevisto. Niente di più normale, evidentemente da queste parti: “Permette
signora?” Con nonchalance, davanti ai nostri occhi, il maître pone elegantemente fine al duello con un lesto armeggiare
di forchetta e coltello. Un leggero scricchiolio et voilà, gli scampi
battaglieri son sconfitti e consegnati alla loro sorte, ovvero a me. Tentenno,
ancora incredula, eppure non mi ritraggo dal piatto ora immobile che mi
osserva. Afferro un carapace ancora resistente che cede, infine, tra le mie
mani, offrendomi la polpa rosa esanime. Il sapore sembra diffondersi in bocca
ancor più intenso, più melodioso, più rigoglioso. Somiglia a un bacio, leggero
e prolungato! Ma forse è solo l’illusione di assaporare un’anima appena rubata
alla vita, non so … Sembra un sortilegio, mi sento crudele eppure è eccitante e
non mi sottraggo a quest’attrazione conflittuale del piacere.
Nessun’altra sorpresa interrompe l’estasi. La cena
prosegue tra carezze di sapore e mugolii di piacere che lasciano traccia nell’ammonticchiarsi
dei carapaci vuoti, fino ad approdare all’arcobaleno dei sorbetti di frutta. Solo
un lieve rimorso affiora ogni tanto qua e là nel mio cuore, rimorso che però
annego insieme a sorsi di un vino bianco di Sicilia che sa di sole, riscaldata
dalle battute del mio ospite, stuzzicato dal mio evidente godimento.
Beh, dire che la cena sia finita senza sorprese non è del
tutto esatto. Infatti, al termine del concerto, il maître (quello senza scrupoli) con la stessa nonchalance di poco
prima, adagia il conto sul tavolo con un’espressione beffarda. A quel punto, il
mio caro amico si fa tutt’a un tratto pallido, il sorriso gli si spegne
addosso, mentre il suo sguardo esterrefatto accende in me il vago sospetto che
quella cena rimarrà davvero memorabile e soprattutto … irripetibile!
“Cosa c’è?” gli chiedo.
“Oh, niente – mi risponde con un sorriso forzato –
semplicemente … i TUOI crostacei si sono vendicati!”
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