Quando
avevo quindici anni, l’età di mio figlio oggi, avevo già viaggiato un po’.
Conoscevo il sapore dell’esotico e, animata da un’istintiva esterofilia,
pensavo che avrei speso tutta la vita a vedere il mondo, tanto mi sembrava più
affascinante quello che stava lontano rispetto a ciò che avevo vicino.
Allora,
però, non mi rendevo conto di essere un fardello per i miei involontari
compagni di viaggio. Un inconsapevole fardello, un’adolescente incompiuta e
impreparata alla vita, accollata a lontani parenti che, per senso del dovere o
di gratitudine verso i miei genitori (evidentemente disinteressati ai viaggi),
accettavano di portarmi con sé durante le loro puntuali esplorazioni
transoceaniche. Non erano contrari alla mia presenza, forse, ma di certo
indifferenti, visto che non ci univa né un autentico legame affettivo, né una
reciproca simpatia, ma solo l’anagrafe. Si partiva col sorriso di circostanza e
una pacca sulla spalla ma poi, una volta decollati, ecco che sorgeva un muro invisibile
tra loro e me, che si dilatava per tutta la durata del viaggio.
L’incomunicabilità tra di noi veniva comunque compensata dalla mia istintiva
comunicazione con il ‘diverso’, dalla curiosità per lo ‘sconosciuto’, e le
scoperte meravigliose che avrei fatto una volta arrivata a destinazione mi
davano sempre un’impagabile soddisfazione.
Scoperte
meravigliose ma talvolta, anche, dolorose.
Per
esempio, le prime volte, non essendo stata informata che il sole scotta molto
ai Tropici, mi bruciavo regolarmente, ostentando tuttavia indifferenza per non
sentirmi ancora più ridicola. Oppure, non sapendo che i coralli irritano e che
certi insetti non perdonano, mi è capitato di sperimentare ulteriori brucianti
sofferenze, anch’esse taciute ma poi lenite da altre dolci carezze della
Natura. Scoprire che il plancton la notte brilla come le lucciole, che certi
pesci volano a tratti come gli uccelli, che esistono granchi blu grossi come
palle da football mi esaltava, amplificando a dismisura il mio stupore per questo
mondo tanto vivace.
Insomma,
incautamente abbandonata a me stessa, non per volontà ma per umana distrazione,
ho imparato a muovermi con disinvoltura lontano da casa, illudendomi così di
stare molto meglio altrove. Camminare a piedi nudi su sabbie remote era, per
me, come camminare a piedi nudi nelle favole, senza provare nostalgia di
tornare indietro, con l’illogica fiducia che la favola successiva sarebbe stata
ancor più bella. Così, non mi sono mai sentita spaesata lontano da casa.
Oggi
le cose sono molto diverse. Le responsabilità si sono invertite e ho imparato
ad amare ciò che mi circonda, scoprendo il valore profondo degli affetti
famigliari. Questo aggiunge inevitabilmente una dolorosa nostalgia ad ogni
partenza ma anche un’immensa gioia ad ogni ritorno. Mi sono interiormente
riappacificata con me stessa e con chi mi ha cresciuto, anzi, sono riconoscente
per tutte le esperienze che mi sono state offerte. Ora so che quelle spinte
avrebbero rappresentato il mio futuro bene e ora ne faccio tesoro. Dopo tanti
anni e tanti viaggi alle spalle (non più condivisi con quei lontani parenti che
ripenso col sorriso), parto ogni volta con nuovo entusiasmo e con una ritrovata
serenità, consapevole che quelle prime avventure nel mondo sedimentano il mio
bagaglio emotivo e caratteriale. Porto spesso con me mio figlio Gabriele, e ad
ogni partenza colgo nei suoi occhi quella stessa luce che brilla in me. Anche
lui, a quindici anni, ha già conosciuto parecchi aeroporti, spiagge, deserti e
giungle e lo rivedo ancora muovere i suoi primi baldanzosi passi, equipaggiato
di passaporto, di qualche frase in un primitivo inglese e di tanta curiosità.
E’
tempo d’Africa ora, la culla dell’Umanità. Insieme, lui e io, partiremo presto
per una nuova avventura alla scoperta del Madagascar, di una parte almeno,
visto che è un’isola molto grande. Sarà, tuttavia, un’esperienza sufficiente
per farci assaporare un angolo di mondo a noi ancora sconosciuto, fatto di
lemuri, tartarughe, baobab e di gente fiera, dignitosa e accogliente.
Ora,
spero che anche quest’ennesimo viaggio convinca mio figlio che la vita è molto
più di un comodo tran tran speso nella nostra ovattata quotidianità; che il
modo va toccato, respirato e non solo sorseggiato attraverso il filtro della
virtualità; che le nostre attuali incertezze economiche e sociali sono serie, è
vero, ma che sono nulla rispetto alla realtà di chi poco o nulla ha; e che la
gente lontano da noi ha sempre tanto da insegnarci, a partire dallo sguardo,
basta imparare a guardare e, soprattutto, ad ascoltare. Perché la voglia di
conoscere sconfiggerà sempre la paura di non sapere.
Ma,
sopra ogni cosa, io spero che Gabriele trovi in me una vera compagna di
viaggio. Un viaggio che durerà il più a lungo possibile e che lui, poi,
proseguirà senza di me, sentendosi improvvisamente pronto e forte. In fondo, un
po’ egoisticamente, nutro la speranza che mi sia grato un giorno di
quest’iniziazione alla vita, con il segreto auspicio che lui abbia sentito in
me ciò che, forse, io da piccola non sono riuscita a sentire a sufficienza in
nessun adulto: un punto di riferimento chiaro, una guida affettuosa e fedele in
cui specchiarsi senza smarrirsi.
Buon
viaggio Gabri, si parte per una nuova favola!
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