Vivere non è facile, tanto meno
lo è scegliere di morire.
Lo scorso anno, il 25 novembre,
Luciano Francesconi, 77 anni, storico disegnatore del Corriere della Sera, si è
sparato un colpo di pistola alla testa, dentro l’ascensore della sua abitazione
milanese. Due giorni dopo, Gary Speed, 42 anni, allenatore del Galles, è stato
trovato impiccato nel garage della sua casa di Huntington. Altri due giorni
dopo, il 29 novembre, Lucio Magri, 79 anni, fondatore del Manifesto, ha posto
lucidamente fine alla sua esistenza affidandola a una clinica svizzera, dove la
dolce morte è un amaro diritto.
Questi macabri epiloghi, avvenuti
a distanza di pochi giorni, costringono a fermarsi e riflettere su quell’ombra che accomuna esistenze apparentemente
normali, diverse tra loro ma ugualmente infelici: la depressione. Se ne parla sempre più spesso alla luce di questi
fatti oscuri. “E’ il male del nostro
tempo, è recidiva, può colpire tutti a tutte le età, specialmente le donne … E’
una malattia del cervello, ha basi biologiche e si può curare.” Questo è,
più o meno, quello che si sente in televisione, sui giornali e in rete. In
realtà, non è così semplice. Pensare alla depressione esclusivamente come una
malattia biologica o neurologica è quasi confortante. C’illude di poterla
isolare, analizzare, misurare, radiografare, scannerizzare, anestetizzare e
magari curare. Più inquietante è considerare la depressione come un male
dell’anima. Possiamo prendere un fegato, un pancreas, un cuore, un cervello e
medicarli. Ma come afferrare qualcosa d’impalpabile come l’anima? Dove andare a
frugare? Con quale strumento scientifico, microscopico o telescopico? Quale
bisturi, medicina o antidoto per qualcosa che è invisibile?
Medici, psicologi, neurologi,
specialisti d’ogni campo stanno cercando di fare chiarezza in mezzo al naturale
smarrimento che il dolore di questi recenti avvenimenti aggiunge al già
dilagante senso d’incertezza. Tra questi c’è un medico italiano che si occupa
da sempre di depressione e di malesseri dell’anima. E’ Eugenio Borgna,
psichiatra dalla rara capacità empatica e comunicativa. Ha scritto molti saggi,
poeticamente lucidi, mescolando all’analisi clinica la sensibilità umana di chi
s’addentra umilmente nel dolore altrui per ascoltarlo, capirlo e confortarlo,
perché la parola è la prima medicina per chi soffre. Proprio in questi giorni,
ha pubblicato un libro illuminante, dal titolo “Elogio alla depressione”, scritto insieme al sociologo Aldo
Bonomi, edito da Einaudi. Io credo che farebbe bene a tutti, ma proprio a
tutti, spegnere la tv e leggere queste pagine. Sia per capire meglio i
drammatici paradossi del nostro tempo nitidamente radiografati da Bonomi, sia
per abbattere i superficiali pregiudizi su un male, una malaombra, che non è qualcosa di folle, di estremo ed estraneo a
noi ma al contrario riguarda tutti, direttamente o indirettamente. Perché la
malinconia, il taedium vitae, non
coinvolge solo l’intimità di chi personalmente ne soffre. Riguarda anche la
famiglia, il lavoro e la società, attraverso il contagio di emozioni ferite,
affetti frantumati e isolamenti dolorosi che, senza sfociare necessariamente in
drastici epiloghi, conducono a un soffocato e doloroso naufragio.
“Non esiste una sola depressione ma diverse forme di depressione” spiega
Borgna. Possiamo distinguere una depressione esistenziale, una depressione
motivata e una depressione psicotica, che a volte si confondono, mescolando
cause biologiche, psicologiche e sociali.
Nella depressione esistenziale, la tristezza galleggia improvvisamente
nella nostra anima senza un’apparente ragione e dilaga fulminea nella nostra
interiorità, logorandoci. Ci si sente afflitti, svuotati d’interesse, incapaci
di gustare il senso della vita. Si fatica persino a pensare, risucchiati da uno
smarrimento che oscura gioie e raggela speranze. Il tempo soggettivo non ha più
nulla a che fare con quello esterno, con quello misurabile, perché tende a
rallentare e a disgiungersi nelle sue tre dimensioni agostiniane: presente,
passato e futuro si sciolgono. La dimensione del futuro tende ad arrestarsi,
assorbita nel passato che si dilata grottescamente nella nostra immaginazione.
Questo tipo di tristezza, tuttavia, non è patologica e non ha nulla a che fare
con la depressione come malattia. E’ un’esperienza di vita che ci appartiene
nel momento in cui ci fermiamo a riflettere sul senso dell’esistenza, delle
cose spesso effimere che ci circondano e ci asfissiano, svuotandoci dei valori
più veri e profondi. Questo tipo di tristezza è la malinconia nel senso più
leopardiano, propria dell’uomo che avverte l’incombenza dell’infinito, cui
s’accosta con tutta la sua fragilità e la sua inadeguatezza. La consapevolezza
di questa precarietà è sorgente di riflessione e di straordinaria creatività ma
non è malattia. Questo tipo di depressione, questa sconosciuta che abita in
ognuno di noi, fa semplicemente parte della vita ed è bene farsela amica.
La depressione motivata, o reattiva, sgorga da esperienze personali
dolorose, come l’insorgere di una malattia degenerativa, la perdita del lavoro,
della casa, della patria o di una persona cara. E’ molto spesso, quindi, legata
all’esperienza del lutto e corrisponde alla diagnosi di ‘disturbo distimico’,
secondo la classificazione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali. E’ animata da una tristezza psichica che si manifesta in un
accasciamento doloroso, in un’amarezza sconsolata ma solitamente circoscritta
in un arco temporale, fino cioè all’esaurirsi della carica emozionale legata al
dolore. Dopo di che la sofferenza si elabora in memoria, in ricordo, in
nostalgia. Pur non raggiungendo l’incandescenza della depressione psicotica,
questo stato d’animo paralizza la persona nel grigiore, bloccando il naturale
fluire del tempo interiore. Il peso del passato è dilatato sul presente e
inibisce ogni slancio vitale, tuttavia non annulla completamente la speranza
verso il futuro, come invece succede nella depressione psicotica.
La depressione psicotica è quella che tra tutte non ha motivazioni
rintracciabili nella sua insorgenza e richiede serie cure psichiatriche.
Corrisponde alla diagnosi di Episodio Depressivo Maggiore, sempre secondo il
DSM-IV-R, e non annovera una grande quantità di casi, rispetto alle due altre
forme depressive. Chi ne soffre si trova congelato, paralizzato sia nei gesti e
nei movimenti del corpo, sia nei pensieri che si fanno lenti, atrofizzati e
catatonici. La dimensione temporale del futuro è stralciata dall’orizzonte di
un tempo interiore in cui sopravvive solo un passato che esilia la persona in
una solitudine autistica. La sofferenza intima è visibile attraverso
modificazioni vegetative e somatiche espresse nell’insonnia, in nausea, in
oppressioni cardiache e gastrointestinali che spesso mascherano e dissimulano
il dolore psichico. Questa forma estrema di depressione può sfociare nel
rifiuto definitivo della vita, nella scelta di una morte volontaria maturata
nel silenzio e nella solitudine interiore, morte consapevolmente e morbosamente
anelata.
Senza arrivare a situazioni
estreme, è bene capire che ogni forma di depressione nasce da comuni radici
fenomenologiche e antropologiche, al di là della sintomatologia e degli eventi
personali scatenanti. Non è sufficiente una predisposizione biologica o un
lutto per scatenare una depressione. Il
filo rosso che le collega è fatto dalle emozioni spiega Borgna. E’ fatto di una profonda sensibilità e di
una stremata fragilità, accompagnate da un acuto senso di solitudine in cui
il peso del passato soffoca il presente, cancellando il futuro. Ma sensibilità e
fragilità sono anche la premessa alla conoscenza intuitiva degli altri da noi,
alla comprensione delle emozioni che si annidano nella soggettività altrui e,
quindi, possono diventare il ponte per non sentirsi più isolati, esiliati
ognuno nella propria onnipotente vacuità. Questo non vuole essere un elogio
all’infelicità ma un invito a ‘sentire’, ad affacciarsi agli altri con
gentilezza, accettando la fragilità senza vergogna e vivendo la sensibilità
senza subirla, bensì sfruttandola come leva per entrare in empatia con altre
esistenze.
Luciano Francesconi, Gary Speed e
Lucio Magri non ci sono più. Riflettere senza pregiudizi sul dolore delle loro
scelte può aiutarci a capire. Perché, come scrive Albert Camus ne Il Mito di
Sisifo, un gesto come questo si prepara
nel silenzio del cuore, allo stesso modo di un’opera d’arte. Uccidersi, come
nel melodramma, è come confessare: confessare che si è superati dalla vita o
che non la si è compresa.
Forse,
aveva ragione lo psichiatra Kurt Schneider, dicendo che ci dovremmo preoccupare
non di essere stati depressi almeno una volta nella vita, ma di non esserlo stati
mai.
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