Immaginate un salotto di
un’elegante dimora agli inizi del secolo scorso.
Vi sono riuniti, per l’occasione,
alcuni uomini illustri, vissuti a cavallo tra il 1800 e il 1900. Per la
precisione, i signori sono stati invitati a discettare su un concetto molto
importante e alquanto controverso, destinato ad agitare anime e menti fino ai
giorni nostri. E certamente oltre.
Il tema della discussione è il
seguente: nature versus nurture,
ovvero la contrapposizione tra natura
(intesa come eredità individuale e patrimonio genetico) e ambiente (inteso come cultura ed esperienza).
Gli invitati sono dodici uomini,
esattamente. Tutti di mezza età o anziani, per la maggior parte benestanti e
tutti curiosamente barbuti o baffuti. Ma, soprattutto, tutti ferventi
intellettuali che hanno dominato il sapere scientifico circa la natura umana
durante tutto il ventesimo secolo, ognuno di essi in un particolare campo del
sapere, contagiandosi reciprocamente e influenzando definitivamente la
mentalità e la ricerca scientifica futura.
Accomodati sui divani, fumando
profumati sigari e consumando copiosamente whiskey, immaginate dunque due
americani, due austriaci, due britannici, due tedeschi, un olandese, un
francese, un russo e uno svizzero. Probabilmente, molti di loro non si sono mai
incontrati in realtà e, forse, non si sarebbero nemmeno troppo piaciuti e
sopportati a vicenda ma in quest’appuntamento ideale tutto diventa possibile.
Questi eruditi signori sono: Charles Darwin, il britannico che
sfoggia la barba più lunga, destinato a cambiare per sempre il modo in cui gli
esseri umani considerano la propria natura, grazie alla sua teoria
dell’evoluzione; Francis Galton, suo
cugino, appassionato difensore dell’ereditarietà e maniaco misuratore di ogni
cosa misurabile, comprese le natiche delle donne di alcune etnie; William James, lo psicologo americano
sostenitore dell’assoluta importanza dell’istinto nei comportamenti sia animali
che umani; Hugo de Vries, un botanico
olandese dall’aria mesta e accigliata che scoprì le leggi dell’ereditarietà
solo per constatare d’essere stato battuto sul tempo da Gregor Mendel,
trent’anni prima; Ivan Pavlov,
fisiologo russo, incorniciato da una barba prepotentemente folta e grigia,
campione dell’empirismo con i suoi famosi esperimenti sui cani salivanti; John Watson, lo psicologo statunitense
che tradurrà poi le teorie di Pavlov nel suo altrettanto noto behaviorismo; Emil Kraeplin, un tipo apparentemente
buffo, piuttosto in carne, con baffi e occhiali, nonché psichiatra tedesco
convinto ci fosse un evidente legame tra criminalità e disordine mentale; Sigmund Freud, viennese, con una bella
barba particolarmente curata, leggermente più giovane degli altri ospiti, padre
della psicanalisi e dell’eterno dibattito sull’esistenza dell’inconscio, sul
suo ruolo e su moltissimo altro ancora; Emil
Durkheim, il sociologo francese convinto che la realtà dei fatti sociali
sia molto più della somma delle singole parti, divenuto noto per i suoi studi
sul suicidio; Franz Boas,
l’antropologo tedesco-americano, l’unico con i baffi all’ingiù e una cicatrice
riportata in duello, fermamente convinto che sia la cultura a plasmare la
natura umana, e mai viceversa; Jean
Piaget, il più giovane e sbarbato di tutti, psicologo e pedagogista
svizzero le cui teorie su imitazione e apprendimento matureranno imberbi a metà
secolo; e, infine, Konrad Lorenz, lo
zoologo ed etologo austriaco impegnato a dimostrare come l’imprinting possa
portare delle ochette a scambiare un uomo col pizzetto per la propria mamma.
La scelta di questi personaggi e
l’esclusione invece di altri che, altrettanto meritevolmente, hanno contribuito
allo studio della natura umana, dipende dal fatto che questo salotto
immaginario, in realtà è un libro! Un libro pubblicato da Adelphi nel 2005 e straordinariamente
attuale, dal titolo “Il gene agile”,
scritto da Matt Ridley, studioso e
scrittore di diversi saggi sulla natura dei geni. ‘Geni’, intesi non quali
personaggi dall’intelletto particolarmente fervido come quelli appena citati,
bensì come l’insieme di quello straordinario marchingegno invisibile che rende
l’essere umano ciò che è, tramandandolo nel tempo attraverso il susseguirsi
delle generazioni.
Matt Ridley chiama all’appello
proprio questi studiosi perché, a suo vedere, tutti e dodici hanno in comune
qualcosa di molto più importante che non l’aspetto serioso e irsuto. Ognuno di
essi, infatti, ha donato al mondo un’idea originale contenente un germe di
verità per spiegare la natura umana, fomentando l’intricato dibattito tra
ereditarietà e ambiente e stimolando indirettamente, chi più chi meno, la
nascita della moderna genetica. Ognuno di essi, pur avendo clamorosamente
toppato su alcune questioni - innanzitutto per la mancanza di strumenti e di
nozioni - ha contribuito, con il suo prezioso mattoncino ricco di sapere e
d’intuizioni, alla costruzione di un imponente edificio culturale, scientifico
e umano. Senza uno di questi mattoncini, senza le geniali intuizioni di questi
signori, l’attuale genetica sarebbe forse stata una scienza più lenta, più
povera e imperfetta e l’intera storia della ricerca scientifica avrebbe avuto,
molto probabilmente, tutto un altro corso.
La natura umana è in effetti una
meravigliosa combinazione di molti elementi: gli universali di Darwin,
l’eredità di Galton, i geni di de Vries, i riflessi di Pavlov, le associazioni
di Watson, il vissuto personale di Kraeplin, l’esperienza formativa di Freud,
la divisione del lavoro di Durkheim, lo sviluppo di Piaget e l’imprinting di
Lorenz.
Tuttavia - ed è questo il punto
più originale del libro – sarebbe sbagliato collocare tutti questi preziosi
semi di verità lungo un continuum che ponga separatamente da un lato la Natura
e dall’altro la Cultura, da un lato l’innatismo e dall’altro l’empirismo. Non
si può contrapporre ereditarietà e ambiente: non più dunque nature versus nurture bensì nature via nurture, perché la natura si esprime attraverso l’ambiente,
così come l’ambiente agisce sulla natura. E questo risulta evidente, a sua
volta, attraverso lo studio dei geni che non sono né capricciosi burattinai né
progetti preconfezionati, ma sono, al tempo stesso, causa e conseguenza delle
nostre azioni.
Sono i geni, infatti, che
permettono alla mente umana di apprendere, ricordare, imitare, imprintarsi,
assorbire cultura, comunicare pensieri e manifestare istinti. Quando furono
scoperti, alla fine del secondo millennio dell’era cristiana, vennero accolti
come le personificazioni del Fato nella mitologia antica, viscere interpretate
dagli oracoli, misteriose coincidenze astrologiche. I geni erano veri e propri
dèi. Oggi, grazie anche ai signori riuniti fantasiosamente nel libro-salotto di
Ridley, si sa che i geni non sono dèi ma meccanismi, veicoli d’informazione
ereditaria che restano attivi e vivaci durante tutto l’arco della vita, a partire
dall’utero, e che interagiscono con l’ambiente, modificandolo costantemente in
un viavai continuo e fertile di stupefacenti input e output.
“Il gene agile” è un libro immenso per ricchezza di cultura,
informazioni e provocazioni che cercano di dimostrare come il razzismo, la
violenza, la fedeltà, l’omosessualità, la schizofrenia, l’autismo, il desiderio
sessuale, l’empatia, persino il gossip e molto altro, siano tutti fenomeni
umani frutto del costante dialogo a doppio senso tra natura umana e ambiente,
ascrivibile ai geni. Oltretutto, questo libro, nonostante la mole consistente,
ha il pregio d’essere scritto con un’effervescente levità, che trasmette di
volta in volta l’ironia di Watson, il dogmatismo di Freud, l’indecisione di
James, la pedanteria di Pavlov, la spocchia di Galton, l’esuberanza di Boas …
insomma, le personalità, i capricci, le virtù e le debolezze di caratteri
talmente forti e differenti che se si fossero davvero incontrati si sarebbero
certamente accapigliati, ritrovandosi con barba e baffi furiosamente
aggrovigliati insieme.
Di certo, oltre al piacere
straordinario di una lettura stuzzicante, questo libro lascia anche la pungente
consapevolezza che più s’impara, meno si sa, perché dietro ogni velo sollevato
sul mondo della conoscenza umana, sempre un altro si presenterà all’orizzonte,
con nuovi interrogativi, nuove provocazioni e nuove speranze. Sarebbe comunque
impensabile, e scioccamente presuntuoso, immaginare di poter completare la
costruzione dell’edificio del sapere eliminando o ignorando qualcuno dei
mattoncini che la storia della scienza e della ricerca ci ha finora
generosamente fornito, grazie anche a dodici incredibili geni barbuti.
A Blogger: Non sono un robot ma sono indecifrabili le lettere che chiedete di trascrivere.
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