Perché il peperoncino fa sudare mentre
la menta è rinfrescante? Come mai i bambini preferiscono le patatine fritte
alla verdura? E cos’è che rende il cioccolato così irresistibile?
Queste sono solo alcune delle molte
domande cui André Holley, docente di neuroscienze a Lione, dà risposta in un
suo recente saggio, cercando di spiegare, in maniera semplice e vivace, quali
complessi meccanismi psicofisici guidano, ogni giorno, i nostri gusti e le
nostre scelte alimentari.
Il libro s’intitola “Il cervello goloso” (Bollati
Boringhieri Edizioni), titolo accattivante quanto l’immagine in copertina: un
folto grappolo di ribes rosso trabocca dalla pagina, invitando il lettore ad
addentrarsi in un seducente universo di colori, aromi, sapori e piaceri tutti
da gustare e da capire.
Soprattutto da capire. Perché se è naturale abbandonarsi alla piacevolezza
di un cibo, non è altrettanto intuitivo ripercorrere coscientemente le
sollecitazioni che quel cibo scatena nel nostro corpo, facendocelo preferire ad
altri, magari più sani ma meno appetitosi. E’ un campo di ricerca molto ampio e
in continua evoluzione, che coinvolge diversi settori del sapere: dalla
neurologia alla psicofisica, dalla psicologia alla sociologia, dalla chimica
alla scienza della nutrizione, con risvolti importantissimi sul business
dell’industria alimentare e del marketing.
Il cibo si è trasformato, nei secoli, da semplice esigenza a raffinata
fonte di piacere. Di conseguenza chi lo produce e lo vende mira ormai a
soddisfare, innanzitutto, le attese edoniche dei consumatori, piuttosto che le
caratteristiche organolettiche in senso stretto. Da un lato risulta
affascinante, quindi, indagare come il nostro cervello risponda a determinati
stimoli sensoriali, distinguendo il buono dal disgustoso, preferendo
normalmente il piccante e il dolce, all’amaro e all’aspro. Ma oltre a
quest’analisi introspettiva, è bene guardarci attorno e comprendere che
moltissimi alimenti industriali sono concepiti ad hoc per premiare, appunto, i
neuroni, ingannando spesso i nostri sensi con trucchi chimici ed espedienti
emotivi di cui non sempre siamo consapevoli.
Per penetrare i misteri dell’alchimia sensoriale, Holley ci introduce
direttamente negli organi di senso, accompagnandoci lungo il cammino che odori
e sapori percorrono, dalle narici e dal palato, fin su nel cuore del cervello,
per trasformarsi in aromi. Anche se nell’essere umano la vista è il senso
predominante, è l’olfatto a trionfare nella formulazione del sapore,
recuperando quell’animalità ancora viva in noi, non più volta a fiutare il
pericolo o a cacciare la preda, bensì a riconoscere le tracce del piacere.
Infatti, gli stimoli olfattivi e gustativi percorrono strade inizialmente
disgiunte ma, una volta entrati nella giostra neurale, finiscono spesso per
incrociarsi e mescolarsi.
“Gli aromi rappresentano gli odori
dell’alimento percepiti nel tratto che collega la bocca alla cavità nasale.
Molte proprietà degli aromi sono determinate già all’interno dell’organo
dell’olfatto, grazie a centinaia di recettori diversi, il cui numero e la cui
varietà consentono di rappresentare ogni odore nella sua singolarità. Si tratta
dell’immagine olfattiva”.
Lo sanno bene gli esperti di analisi sensoriale, che hanno dimostrato come
sia riduttivo circoscrivere la gamma di odori e sapori a categorie precise e
distinte, perché le sfumature sono infinite. Ai quattro tradizionali sapori
fondamentali – dolce, salato, acido e amaro – se ne è già aggiunto un quinto,
l’umami, ovvero il sapore squisito, che corrisponde al gusto del
glutammato, tipico di molti piatti asiatici. Allo stesso modo, è impossibile
classificare tutti gli odori, anche perché l’olfatto è un senso molto più
intimo, fortemente legato all’esperienza e all’apprendimento, con una memoria
potente che rende ogni naso unico.
Ma Holley, nel suo libro, va oltre ciò che abbiamo a portata di naso e
bocca e ci conduce fin dentro al complesso sistema sensoriale che completa la
percezione degli aromi. Si tratta del nervo trigemino, meno noto rispetto agli
altri sistemi sensoriali ma fondamentale nella percezione delle sensazioni
particolarmente vivaci, intense e anche dolorose.
“Il quinto nervo cranico, un nervo
molto polivalente, arricchisce con le sue diverse sensibilità, tattile,
termica, al dolore e chimica, quella già complessa dell’odorato e del gusto. E
quando il peperoncino si trasforma in bruciore e il mentolo in freschezza,
alcune fibre di questo nervo, sensibili al caldo o al freddo, prestano i loro
recettori a molecole che non sono né calde né fredde e che li ingannano.”
Ecco perché tutti i nostri sensi sono invitati a pranzo: anche il tatto,
che valuta la consistenza e la resistenza dei cibi; l’udito, che ne percepisce
il crepitio e la friabilità; e persino la temperatura, sollecitata proprio da
questo incredibile ricettacolo di neuroni.
Mangiare, quindi, diventa un piacere proprio grazie alla sinergia tra
tutti i nostri sistemi sensoriali, che ci porta inconsapevolmente ad attribuire
al cibo un valore emotivo e affettivo. Questo è dimostrato anche scientificamente,
tramite il neuroimaging, un sistema
con cui vengono osservate le variazioni del flusso sanguigno nelle aree del
cervello sottoposte a determinati stimoli. Molto banalmente, è come fotografare
il piacere che proviamo nel gustare una tavoletta di cioccolato, o l’allegria
che può procurarci un buon bicchiere di vino.
“Quando annusiamo, non sentiamo solo odore, quando
assaggiamo, non sentiamo solo gusto. Abbiamo ricordi. Soffriamo. Odiamo.
Dialoghiamo con il corpo nella sua totalità, pretendiamo, osserviamo. Non solo
i romanzi, ma le immagini del nostro cervello lo dimostrano, perché è il
cervello, non la nostra riflessione cosciente, a coordinare tutti questi
processi.”
Dopo aver letto con vorace curiosità quest’affascinante saggio di Holley,
mi resta solo una considerazione, del tutto personale: cos’è che fa essere il
mio cervello così goloso di qualcosa che non ha assolutamente odore, né un
colore attraente, né un sapore deciso, come può essere un boccone di pesce
crudo senza condimento? Non mi riferisco all’elaborato sushi, che è un universo
di sensazioni solo a guardarlo, ma al sashimi servito come piace a me,
semplice, primitivo. Un petalo di platessa privo di wasabi, un cubetto di tonno
senza salsa di soia, o un gambero senza zenzero che carattere hanno? Possono
essere così gustosi da solleticare l’acquolina e il desiderio? Per me sì! E
allora mi domando se, in realtà, non esistano altri misteriosi sapori e
sorprendenti odori che aspettano solo d’essere scoperti e definiti.
Forse un giorno la scienza darà una risposta anche a quest’interrogativo.
Nel frattempo, mi torna alla mente un’altra piccola, preziosa verità, che solo
la letteratura può mirabilmente sintetizzare. E’ un’affermazione di Virginia
Woolf, tratta dal saggio “Una stanza per
sè”, che dice: “Uno non può pensare
bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene”.
Ovviamente, sono d’accordo!
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