lunedì 24 novembre 2014

THE CHINA STUDY


Se l’Uomo è ciò che mangia, l’Uomo muore anche di ciò che mangia


Avete mai avuto la sensazione di voler catturare un istante per sempre? E’ un sentimento urgente e profondo che coinvolge non solo l’animo dei poeti o degli innamorati ma, evidentemente, anche quello di alcuni scienziati.
Colin Campbell, insieme al figlio Thomas, ha realizzato questo desiderio. Illustre scienziato americano, insegnante di Nutrizione biochimica alla Cornell University, partecipa da oltre 50 anni a numerose ricerche sulla nutrizione, l’alimentazione e la salute. The China Study, libro edito da Macro Edizioni, è il coronamento di questo suo impegno, come scienziato e come uomo. E’ lo studio comparato più completo sull’alimentazione mai condotto finora, destinato a far discutere a lungo scienziati, medici e nutrizionisti d’ogni nazione. Un libro che, come un’istantanea, sintetizza un panorama monumentale, sia spazialmente sia temporalmente, mettendo a fuoco i meccanismi che regolano l’alimentazione nel Mondo, le correlazioni tra alimenti e malattie degenerative e le politiche che troppo spesso avvelenano la sana comunicazione.
Lo studio inizia nel 1983 e si basa sulla comparazione tra le abitudini alimentari della Cina rurale e quelle dell’America post-industriale, intrecciando un’enormità di dati statistici, demografici, geografici, biologici e genetici con una meticolosità certosina, in un’epoca in cui non si ricorreva ancora all’uso d’internet.
Ex carnivoro, cresciuto a latte e manzo e convertito al vegetarianismo, Colin mira a rivoluzionare lo status quo culturale e scientifico di un Paese in cui regna sovrano Mc Donald, dimostrando con toni allarmanti come il benessere in cui viviamo rischia di farci soccombere, perché se l’uomo è ciò che mangia, l’uomo muore anche di ciò che mangia. Questo libro rivela con infallibile chiarezza l’evidente correlazione tra l’assunzione di proteine animali e lo sviluppo delle cosiddette malattie del benessere: infarto, ictus, cancro, obesità e molte malattie autoimmuni degenerative come il diabete e la sclerosi multipla. Pensate che mentre leggete questo capoverso, il cuore di un americano sta per essere colpito da infarto; terminato di leggere quest’articolo, le vittime saranno quattro; e nel giro di 24 ore, 3000 americani avranno potenzialmente un attacco cardiaco. Come combattere questa guerra con le semplici armi a nostra disposizione? Colin dimostra che uno stile di vita equilibrato e soprattutto una dieta ricca di frutta, verdura e fibre impediscono l’insorgere di questi mali moderni e ne rallentano l’evoluzione a stadi conclamati.
Sostenendo che il cibo consumato ogni giorno è la prima arma contro la morte per malattia, Colin scuote le menti e gli animi di tutti noi ma soprattutto fa vacillare chi gestisce le politiche nutrizionali a livello mondiale. E’ feroce il suo attacco contro chi inquina volutamente l’informazione per interessi economici macroscopici. Colin colpisce con un linguaggio accalorato, denso di coraggio e passione che, come una spada, squarcia un varco nelle nostre coscienze annebbiate da una spregiudicata disinformazione, offrendoci l’opportunità di diventare protagonisti responsabili del benessere nostro e dei nostri figli. 
Se siete in cerca di un libro che prescriva pseudo diete e banali ricette, The China Study non fa per voi. Ma se volete prendervi carico della vostra salute a partire dalla tavola, questo è il libro che vi spalancherà un universo di sapere sommerso e affascinante, destinato a rivoluzionare le abitudini alimentari mondiali. 

martedì 18 novembre 2014

LA CUCINA E' ARTE?


Filosofia della passione culinaria


“La cucina è un linguaggio mediante il quale si può esprimere armonia, creatività, felicità, bellezza, poesia, complessità, magia, humor, provocazione, cultura.”
Questo è il preludio alla Sintesi della cucina di elBulli, rivoluzionario ristorante spagnolo pluristellato reso leggendario dallo chef catalano Ferran Adrià. E questo primo punto della Sintesi, pubblicata ufficialmente nel 2006, rappresenta concettualmente la partenza, lo snodo e l’arrivo di un saggio fresco di stampa, tanto originale quanto ambizioso, titolato “La cucina è arte?”, di Carrocci Editore, scritto da Nicola Perullo, professore di estetica e bravo scrittore.
Da una domanda apparentemente semplice nasce un saggio che propone una risposta assolutamente non convenzionale, attraverso un percorso tentacolare, in equilibrio tra estetica, storia, antropologia e gastronomia. Come un funambolo del pensiero, Perullo s’incammina in una riflessione articolata che trae sostegno in punti fermi assai autorevoli: da filosofi come Kant e Adorno, a letterati come Goethe e Schiller, a teorici del gusto come Alexandre Grimod e Brillat-Savarin, fino ai grandi chef del panorama contemporaneo come Massimo Bottura e Ferran Adrià, appunto. Ma questo è solo un assaggio di un appetitoso ‘menù concettuale’ molto ricco, volto a scoprire se e quando la cucina è davvero arte. E se sì, quando non lo è.
Ne risulta un dibattito aperto che accompagna il lettore lontano: lontano nel tempo passato tra i convivi dell’antica Grecia e gli animati banchetti medievali, e lontano nello spazio geografico, toccando punti estremi dell’universo gastronomico attuale, come il ristorante psichedelico di Paul Pairet Ultraviolet a Shangai o il teatro ‘transmediatico’ Il Sogno dei fratelli Roca di el Celler de Can Roca di Girona. Tutto questo viaggio concettuale per rispondere a una domanda apparentemente tanto semplice: la cucina è arte?
La risposta di Perullo, giustificata in nove tesi, è in sintesi questa: la cucina è un’arte storicamente determinata, che si manifesta grazie a tecniche (per i Greci téchne era l’arte), manualità, conoscenze, capacità immaginative e soprattutto persone, quelle che in squadra, tutte insieme, contribuiscono a realizzare un progetto che possegga un’eleganza gastronomica. Un’arte che non risponde, quindi, solo al piacere dell’occhio, alla pura estetica visiva, né si esprime come rappresentazione eccezionale e spettacolare in antitesi alla dimensione più intima del quotidiano, del focolare domestico, materno. Una pizza o una pasta e fagioli possono diventare opere d’arte! L’arte culinaria si misura piuttosto attraverso la grammatica dell’emozione gustativa e giostra tra l’apprezzamento del noto, dei sapori affettivamente cari e vissuti, e la fascinazione del nuovo, dell’inatteso, del trasgressivo. In questo senso, ogni palato trova la sua cucina, la sua opera d’arte, come fosse un’affinità elettiva indipendente dal grande chef che ha diretto l’orchestrazione gustativa.
A proposito, vi siete mai chiesti perché il palcoscenico gastronomico internazionale pullula di stelle maschili in toque blanche divinizzate e manca di altrettante evidenze femminili?
Per scoprirlo leggete il saggio di Perullo. Un solo avvertimento agli amanti di banali ricettari e della letteratura gastronomica usa e getta: astenetevi, questo è un libro a regola d'arte.

lunedì 17 novembre 2014

La rivoluzione della salute


Ovvero, gli ormoni della felicità


Immaginate un bambino nato e cresciuto nel Giappone degli anni ‘40. L’educazione tradizionale estremamente rigida cui è stato sottoposto, prevedeva che venisse regolarmente legato ad un albero in un bosco per un giorno intero;  che restasse solo di notte in montagna a contemplare le stelle; che giacesse a lungo sotto una cascata gelida fino a perdere i sensi; che digiunasse per una settimana con il permesso di bere solamente acqua. E molto altro ancora.
Non stupitevi. In Giappone, questi sono stati a lungo esercizi d’ordinaria amministrazione, con cui introdurre i bambini alle pratiche ascetiche. Lacrime e smarrimento sarebbero destinati a tradursi progressivamente in forza interiore e gioia di vivere.
Uno di questi eroici bambini si chiama Shigeo Haruyama. Protagonista ed erede di queste tradizioni, è nato a Kyoto nel 1940 da una famiglia fortemente imbevuta nell’arte medica orientale e, oggi, è uno dei medici giapponesi più affermati nel mondo. Chirurgo, esperto di agopuntura, moxa, shiatsu e direttore di una clinica di successo dedicata alla salute psicofisica e alla prevenzione dell’invecchiamento, il Dottor Haruyama è anche uno scrittore dallo stile gentile ed essenziale, in perfetto stile nipponico. Con il suo libro “La rivoluzione della salute”,  di Macro Edizioni, ha venduto oltre 5 milioni di copie solo nel suo paese.
I segreti del successo professionale di quest’uomo trapelano da queste pagine che mescolano piacevolmente vivaci aneddoti sulla sua vita personale e insegnamenti pratici volti a sconfiggere lo stress e mantenere a lungo un cervello attivo in un corpo altrettanto longevo e sano. Il Dottor Haruyama intreccia le antiche discipline orientali con i metodi diagnostici occidentali più all’avanguardia, per curare e guarire non solo chi già soffre ma anche i mibyo, che in giapponese significa chi non è non ancora malato.
Come curare, dunque, i mali della vita moderna e come prevenire i danni che lo stress provoca? La terapia del dottor Haruyama si basa sui cosiddetti ormoni della felicità. Non si tratta di elisir magici ma di sostanze chimiche spontaneamente secrete dal nostro cervello che suscitano in noi sensazioni piacevoli e appaganti, vere e proprie morfine cerebrali. Se ne conoscono almeno venti ma i principali sono l’adrenalina, la noradrenalina, la beta-endorfina e l’encefalina. La liberazione di questi ormoni dipende dall’atteggiamento interiore con cui si affrontano le situazioni e ci si relaziona alle persone. Banalmente detto, avere buoni pensieri, scatena buoni ormoni. (Meglio ancora sarebbe frequentare ‘buone persone’ ma questo non è sempre concesso!)
Questa formula sembra essere scientificamente dimostrata, almeno per ora, e il Dottor Haruyama la sfrutta prescrivendo ai clienti la sua ‘confezione tripla’: alimentazione, movimento e meditazione. Una corretta alimentazione per liberare le endorfine; un equilibrato movimento per sviluppare i muscoli; la meditazione per stimolare le onde alfa che albergano nell’emisfero cerebrale destro, responsabili del senso di rilassatezza e beatitudine.
Una simile rivoluzione psicofisica, presupposto per vivere a lungo in salute, non è un miraggio e si ottiene praticando esercizi molto più godibili (anche per chi non è masochista) del digiuno forzato e della sottomissione al gelo di una cascata. Leggendo questo libro, troverete perciò qualche buon consiglio su come aspirare alla veneranda età di 125 anni in gran forma psicofisica. Inoltre, scoprirete perché gli intellettuali e gli amanti dell’amore fisico sembrano essere decisamente avvantaggiati in questo lungo cammino che pare non avere limiti nella ricerca del piacere.
Attività intellettuale e sano sesso sono, infatti, gli ingredienti indispensabili per arrivare al traguardo colti, appagati e felici. In una parola, vivi!

Tofu, miso e yuba
Per quanto riguarda l’alimentazione, invece, il dottor Haruyama insiste sul benessere apportato da un particolare tipo di cibo tradizionalmente orientale, ma ormai diffuso anche in Occidente, ricavato dalla soia: il tofu. Volgarmente detto ‘formaggio di soia, il tofu deriva dalla cagliatura delle componenti proteiche del latte di soia, separate tramite un procedimento di riscaldamento o scrematura. Da cibo prediletto dei monaci buddisti, il tofu è declinato in mille ricette in tutto il mondo e alla mistica seduzione esotica ha aggiunto la fantasia culinaria internazionale. Altri due cibi derivati dalla soia e ugualmente virtuosi, ma meno diffusi in occidente, sono il miso e la yuba. Il miso è un condimento giapponese estratto dai semi di soia dopo una fermentazione di mesi da cui si ottiene una pasta che va dal giallo al marrone chiaro. Il miso è la base di una zuppa molto apprezzata in Giappone, tanto che spesso rappresenta il primo pasto della giornata. La yuba, invece, si ottiene portando a ebollizione il latte di soia: il calore produce una superficie cremosa e densa composta dalle proteine e dai lipidi della soia. Questo strato viene schiumato e fatto essiccare fino a formare delle foglie giallognole, che in giapponese si chiamano yuba, appunto.

Dopo aver letto La Rivoluzione della salute del dottor Haruyama mi sono sentita decisamente rincuorata: nutrendomi di tofu regolarmente e praticando le sopraddette attività q.b. ogni giorno, mi sento candidata a diventare una centenaria sana e felice !      


sabato 15 novembre 2014

BACCANO, IL SAPORE DEL CLAMORE


RISTORANTE • COCKTAIL BAR • BISTROT • BAR A HUITRES


Elegante ma sobrio. Raffinato ma senza arie. Estremamente affascinante, con quell’aria un po’ retrò, un po’ bohemienne, un po’ newyorkese. Insomma, è stato amore a prima vista!
“Lui” è il Baccano, ristorante nel cuore di Roma che, a dispetto della collocazione attira-turisti, è un punto di ritrovo e di ritorno anche di quei romani doc che riconoscono nella buona cucina l’autentica ospitalità capitolina.
“Baccanum” dal latino, “clamore” e non rumore. Il clamore brioso di un crocevia, a due passi da Fontana di Trevi, in Via delle Muratte. E’ qui, splendidamente collocato in un palazzo di fine ‘800, che il Baccano dà appuntamento agli avventori. Dietro l’aspetto intrigante dal sapore francese, si svela la vera anima del locale: la cucina. Una cucina basata sulla tradizione italiana con le paste fatte in casa, oli di primissima scelta, pomodori di qualità, mozzarella di bufala campana …  Senza tralasciare i prodotti del godurioso Banco della Gastronomia che si sdilinquisce in un tripudio di salumi, formaggi italiani e francesi, senza trascurare prodotti esteri più ricercati, come il salmone scozzese Lock Fine, foie gras e ostriche.
Baccano, dunque, seducente e retrò, cosmopolita e regionale, ideale per un brunch con gli amici, una cena romantica o un dopocena audace. Lasciarsi conquistare dall’atmosfera accattivante è facile: una volta seduti al tavolino, ci si sente trasportati indietro negli anni di inizio secolo scorso, magari  accanto a Brigitte Bardot o Serge Gainsbourg: stucchi, mosaici, specchi e legno scuro, antichi ventilatori al soffitto, tavolini in legno e divanetti in pelle rossa, illuminazione calda e musica avvolgente, ogni giorno fino a tarda notte. E se non fosse per il personale sempre puntuale e sorridente ci si dimenticherebbe di essere lì per … mangiare!
Il padrone di casa, Fabio Casamassima, accoglie gli ospiti e si mescola a loro con disinvolto piacere, quasi a voler gustare insieme agli avventori l’accoglienza del suo locale. 
Capo Sommelier e Direttore all’Enoteca Ferrara, ha fatto della sua passione – il vino – una professione, affinando negli anni le proprie esperienze e capacità di assaggio con i “grandi” del vino: da Paolo Poli a Carlo Ferrini e Daniele Cernilli. Casamassima ha trasformato il Baccano in un tempio del gusto, un tempio senza tempo, dove ci si sente a casa e per questo sempre ci si ritorna. Se la cucina conquista con un menù tanto vario quanto ricercato – dalle alici fritte, alle tartare di pesce e carne, ai primi tradizionali romani, al Gran Crudo con crostacei da svenimento, fino ai dessert che sono una vera e propria dichiarazione d’amore alla gola – è con la carta dei vini che il Baccano conquista il pubblico romano e internazionale. Oltre 200 etichette, con una predisposizione particolare per i vini naturali e per i piccoli produttori laziali, orgoglio spesso poco conosciuto nel resto del nostro Paese. Una selezione decisamente italiana con una buona presenza di tutte le eccellenze del territorio: Grandi Vini e Champagne alla portata di tutti, anche per un ultimo brindisi a tarda notte consumato al banco, possibilmente in buona compagnia!

Oltre al solito tavolino in fondo alla sala, che ormai mi attende ogni volta che ci torno, sono altri due gli appuntamenti per me imperdibili quando sono al Baccano: quello con un olio e quello con un vino. 

Olio Torretta
Il Frantoio Torretta, che deve il nome alla località in cui sorge, oggi produce più tipologie d’olio, dalle etichette differenti ma di uguale eccellenza: il Diesis Dop Colline Salernitane, fruttato e leggermente piccante al palato, il Dedalo Dop Colline Salernitane, dal sapore piacevolmente amaro e il Dione Extra Vergine di Oliva Torretta elegante e delicato come il nome che porta. Una carezza sopra una tartare di tonno o un’insalata di puntarelle!

Vino Moro di Carpineti
Alle pendici dei Monti Lepini, a Cori - antica cittadina laziale del IV secolo a. C, una cinquantina di km a sud di Roma - fiorisce e cresce solida l'azienda Marco Carpineti. Dal 1986 Marco, spinto da autentica passione e dal desiderio di salvaguardare un ambiente intatto, prende in mano le redini dell’azienda di famiglia e la rivoluzione più rilevante è rappresentata dall’adozione dei metodi di agricoltura biologica. Nasce così il mio preferito, il Moro: un vino sublime, dal colore giallo paglierino con riflessi ramati, profumo di pesca e mandorla, tenui note vegetali di fieno tagliato e felce. Sapore corposamente armonico e sapido, che prelude a note minerali, perfetto con il Gran Crudo di pesce e crostacei, piatto principe del Baccano!

venerdì 14 novembre 2014

QUEL RICCIOLO CAPRICCIOSO TANTO BBONO!




“Più erba se magna, più bestie se diventa”.
Così mi dicono i miei amici romani quando a tavola, mentre loro si godono un’amatriciana ben condita o una truculenta pajata, mi struggo davanti a un piatto di tenere, gioviali puntarelle.
In effetti, vista la proverbiale passione dei romani doc per la carne e in generale per le pietanze robuste e sostanziose, parrebbe un paradosso che possano nutrire lo stesso amore per erbe, verdure e ortaggi. Invece, andando a frugare tra antichi ricettari e colorite testimonianze storiche, scopro che anche i vegetali hanno sempre avuto un posto d’onore sulle tavole romane, forse proprio per bilanciare una dieta altrimenti eccessivamente proteica. O forse, solo per temperare le papille gustative con sfumature più delicate ma altrettanto sfiziose, rispetto ai toni più aggressivi di certi intingoli carnivori normalmente consumati.
Aldo Fabrizi, per esempio, paladino della cucina romana, amava le erbe, al punto da esprimere un bizzarro desiderio: che ai suoi funerali, oltre ai soliti fiori, venissero profusi anche tanti fiori di zucca…allegri, solari, gioiosi! Se ciò sia poi accaduto non si sa, ma si sa che l’attore si dilettava con guizzo estroso in cucina e non mancava mai di aggiungere erbe aromatiche e verdure a ogni suo piatto.
Non credo, tuttavia, che i romani, amici miei, impieghino le erbe in cucina in virtù dei loro effetti medicamentosi, sò troppo golosi loro! Quindi dev’esserci del buono riconosciuto anche in tutte quelle verdure che, dall’Ottocento a oggi, arricchiscono i primi piatti e i secondi di carne della cucina romanesca. Gli antichi orti romani sono leggendari tanto quanto certe ricette: cicoria, spinaci, fave, fagiolini, zucchini, broccoletti, carciofi, cavolfiore, melanzane, peperoni, invidia, asparagi, la lattuga romana crescevano tutt’attorno la città con un’abbondanza divina e, insieme a erbe e fiori, ammantavano di colore tutta l’area del Foro romano, accanto al convento di S. Adriano. Pare che il primo forte stimolo a impiegare ortaggi in cucina derivi dall’antica Roma: nel I sec. d.C. un certo Antonio Musa, medico, divenne famoso per aver restituito la salute all’imperatore Ottaviano Augusto semplicemente prescrivendogli dosi massicce di lattuga da consumare ogni sera. La portentosa cura valse al medico uno stipendio invidiabile e all’imperatore la guarigione. Ovviamente, con ogni probabilità la lattuga non ebbe alcun merito nella cura, tuttavia da allora l’insalata diventò di moda e i Romani ne cominciarono a consumare un po’ ogni giorno convinti, foglia dopo foglia, di conquistare la longevità.
Le qualità più pregiate erano la cipria, così detta perché tenerissima, e la cecilia, dalla nobildonna Cecilia Metella che notoriamente la prediligeva.
Una specie di verdura che ancora oggi rallegra le tavole romane, soprattutto nei mesi a cavallo tra l’autunno e l’inverno, è rappresentata dalle puntarelle, appunto, quelle che io tanto amo. Sono i germogli, piccoli teneri turgidi e carnosi, di una particolare cicoria coltivata negli orti romani. Una cicoria più lunga, affusolata e meno amara di quella selvatica: è la cicoria dolce della catalogna. Coltivata già duemila anni fa, si distingue dalle altre per quegli steli floreali, le puntarelle appunto, che sporgendo dal cespo conferiscono al mazzo la classica forma allungata. Molti conosceranno la piacevole croccantezza sotto i denti, la freschezza al palato e quel sapore intrigante dato dal condimento delle puntarelle; ma non tutti, forse, sanno quanta paziente manualità occorre per estirpare le puntarelle dal ceppo di catalogna e per renderle così sottili e ricciolute. Esistono attrezzi ad hoc ovviamente, eppure andare al mercato coperto di Via Cola di Rienzo o a quelli rionali dei dintorni e osservare le mani nude delle donne e degli uomini danzare sui ceppi di verdura, beh è un’esperienza affascinante e rende davvero l’idea della sapienza tramandata negli anni per preparare questi germogli al meglio.
Germogli che, anche una volta estorti al ceppo, non si concedono così ben sottili e arricciati come li si vede nel piatto ma abbisognano ulteriori trattamenti: importante è avere un tagliapuntarelle (arnese brevettato da un artigiano romano!) e poi gettare i germogli per almeno mezz’ora in acqua fredda, altrimenti non s’arricciano (per la cronaca, a me non s’arricciano neanche in acqua ghiacciata, non so perché!). E senza quel ricciolo capriccioso, le puntarelle perderebbero parte del loro giocoso impatto, piacevole allo sguardo e irresistibile al palato.
I Romani veraci, come gli amici miei, le amano così:

Puntarelle in salsa d’alici
Lavare bene le puntarelle scartando con un coltellino le foglie verdi e parti più coriacee. Tuffare i germogli in acqua gelata, magari con qualche goccia di limone, e lasciarli immersi per una buona mezz’ora. Dopo di che, scolarli, asciugarli e metterli in un’insalatiera in cui s’è preparata una salsina ottenuta pestando acciughe, spicchi d’aglio, poco d’aceto, olio extravergine d’oliva, sale e pepe.  Mescolare le puntarelle ben vestite di questa salsina, lasciarle riposare per qualche minuto e, finalmente, buon appetito!
Le varianti a questa ricetta classica sono diverse … con capperi, limone, aceto di mele, pomodorini, peperoncino, uova sode …  ognuno può giocare con fantasia condendo le puntarelle a piacere. Ma l’anima di questo vegetale dal ricciolo sfizioso resterà sempre un’esclusiva tutta romana!
Amici miei: “Più erbe se magna, più bboni se diventa!”

giovedì 13 novembre 2014

CIBI DI STRADA


C’ERA UNA VOLTA …
Storia e tradizioni dei cibi di strada


C’erano una volta i libri viventi, quelli per bambini. Erano quei libri di fiabe, di racconti, di leggende, in cui da ogni pagina aperta fuoriusciva una scena narrata, ritagliata e colorata di personaggi e situazioni che rendevano il libro parlante, animato, “vivo”, appunto.
E sfogliare il libro scritto da Carlo Giuseppe Valli, titolato guarda caso “C’erano una volta i Cibi di Strada”, trasmette quella stessa emozione fanciullesca ormai perduta: quella di veder comparire davanti agli occhi i personaggi di cui si sta leggendo, di sentire gli odori delle scene ritratte e di toccare, anzi meglio, assaporare le fragranze, gli effluvi e gli aromi sapientemente evocati dalle righe stampate.
Valli, ancora una volta, ha saputo mettere in scena la cultura del mangiare popolare di un tempo, un tempo non troppo lontano perché molti dei nostri nonni ancora l’hanno a cuore, scolpita nelle rughe della fronte e nelle pieghe dell’anima. Certo è che rivivendo le storie di cibi e di ambulanti, di voci e di parole, di strade e di piazze, anche il tempo della cultura della fame diventa nostalgico, fatato, e l’amaro sapore della povertà acquista un piacevole retrogusto d’orgoglio. Da queste pagine emerge, infatti, un popolo incredibilmente abile a inventare cibi stuzzicanti ed energetici a partire da una manciata di ingredienti messi insieme, cotti e venduti per le strade e nelle piazze. Cibi che obbedivano rigorosamente alle leggi delle stagioni e all’impronta della territorialità, con assoluto rispetto per l’appartenenza regionale.
Il trippaio, il porchettaio, il poliparo, la mistucchinaia, la zucca barucca, la polenta o cara, il mellonaro,il brustolinaio, il venditore di castagnaccio, l’ambulante della sete … erano tutte figure popolari sgorgate dagli strati più umili della società che animavano la vita quotidiana delle nostre città, con qualche colorita variante d’appellativi da regione a regione. Questi girovaghi del cibo, questi cuochi improvvisati, collocavano ogni giorno negli angoli delle piazze, dei carrobbi o nelle viuzze dei rioni più frequentati, i propri trabiccoli di cuocitura coi modesti attrezzi di lavoro. Era una vetrina itinerante fatta di una caldaia annerita, una fornacetta, un banchetto, pentolame vario, vasi, catini, cesti e poi le vivande da preparare. “Mestiere individuale, ramingo, solitario, precario, in qualche modo specializzato poiché ciascuno si basava su un unico prodotto, singolo e diversificato o al più su una categoria, su una gamma ristretta, ed aveva il suo andito, la sua demarcazione senza invasioni, sconfinamenti ed eccessive concorrenze. Tutto al contrario dell’universalismo odierno, come nei supermercati, dove si tende a vendere di tutto a tutti.”
In verità, i venditori di cibo per strada ci sono sempre stati, sin dall’antica Roma, e sempre ci saranno, tanto che oggi lo street food è diventato trendy. Ma quelli là, quegli inconsapevoli attori di un’epoca che pare uscita da un affresco, erano ignari artefici e artisti di una piccola, geniale commedia culinaria, svolgendo un ruolo tanto necessario quanto marginale, umile, faticoso. In quel caleidoscopico universo sociale che era la cultura della fame, gli ambulanti del cibo rappresentavano una presenza rassicurante e consolante e le recite alimentari quotidiane non erano solo un’occasione per un assaggio veloce o per svagare la gola, come oggi a passeggio. Quegli appuntamenti con lo stesso buon odore che anticipava l’atteso sapore, con lo stesso volto grato proteso dal banchetto, rappresentavano “una parvenza d’abbondanza, da paese di Bengodi … un baleno di sogno, un momento di delizia senza attese e senza pretese”. Persino le autorità cittadine ben sopportavano questi cuochi ambulanti, da Milano a Venezia, da Roma a Napoli, riconoscendoli come veri e propri “portatori di sollievo”.
Ecco cos’era in verità questo leggendario “cibo da strada” raccontato da Valli attraverso i suoi pittoreschi teatranti di vita vissuta: sentimento, emozione, gusto di mangiare con gusto, piacere della scoperta, della conquista, del soddisfacimento d’aver potuto fare la spesa, gioia d’esser vivi e in compagnia d’altri vivi, gratificazione per quell’aria di festa che, alla faccia della povertà, aleggiava tutt’intorno e nell’intimo dell’animo.
C’era una volta, oggi forse non c’è più.

I CANTI DEL VINO



Lode ai piaceri bacchici

“Nella speranza di non sentire più dire: ‘mi dia un’ombra di vino’ ma sperando che la gente si possa fare una discreta cultura enologica e di poter finalmente sentir chiedere sì, un’ombra, ma di QUEL Vino, di QUELLA zona e di QUELLA annata!”
Così esordisce un elegante libretto, invitante al primo sguardo, scritto da Gianni Zardo, veneziano di lungo corso e - come ogni buon veneziano equipaggiato di cultura, sensibilità e passione - fedele amante dell’universo enologico. Una passione tramandata dal padre e racchiusa con lirica saggezza in queste pagine a lui dedicate, titolate I Canti del Vino: un omaggio alla famiglia, alla tradizione ma anche un dono a chiunque volesse abbeverarsi di gocce di cultura assai rare in circolazione e spesso dimenticate dentro bottiglie dalle etichette patinate.
Un libretto istruttivo ma anche evocativo di emozioni e di amorosi sensi. Per Zardo, infatti, il vino non è un oggetto ma una persona e come tale ne parla. E’ una creatura viva, necessita cure, affetto e attenzioni, è amico con gli amici e nemico coi nemici. Insomma, il vino è come l’essere umano: nasce, vagisce, vive, cresce, freme, matura, canta, patisce il caldo e soffre il freddo, può ammalarsi e morire. Proprio come noi.
Allo stesso modo, anche la bottiglia, ogni singola bottiglia di vino, rappresenta un universo a sé, una creatura con una propria storia, nascita, maturità e morte. Una bottiglia di vino chiusa, a temperatura di cantina o di frigorifero, che pazientemente attende d’essere violata dall’impudenza del cavatappi e in seguito lentamente scoperta dall’olfatto, prima, e dal palato, poi, di chi la farà per sempre sua … scoperta dai sensi eccitati di quel primo amante che la possiederà … non è forse come un verginale frutto che offre intatte le proprie virtù a chi ancora non ne conosce il bello? Quale bouquet, quali sentori, quali sfumature e quali emozioni si celeranno dentro quel corpo di vetro affusolato ancora imbavagliato? 
Io sposo il pensiero di Zardo, amabile cantore del Vino, autore di una ‘mattata’, come la chiama lui. Degustatori, assaggiatori e critici dell’enogastronomia a parte, il rapporto tra un sorso di vino e se stessi è innanzitutto una questione di assoluta intimità, un fatto personale non comunicabile, come il corteggiamento tra due amanti guidati dagli istinti: è un primo bacio che può finire con un improvviso mal di testa e un addio per sempre, oppure con una sospirata promessa di matrimonio, tacitamente scambiata tra la tovaglia e il lenzuolo.
Cin cin!

martedì 11 novembre 2014

ROMA, UN AMOR DI CUCINA!



“Ar tavolo imbandito semo tutti d’un partito” si dice a Roma. E se lo dicono i romani c’è da crederci!
La cucina romana, infatti, sembra mettere tutti d’accordo. E’ un linguaggio comprensibile e godibile per chiunque: concreta, dal carattere forte, sostanziosa, che non concede spazio a fronzoli e inutili sfizi ma che va al sodo, interpretando al meglio l’anima popolaresca.
Dalle trattorie di Trastevere alle osterie del Testaccio fino ai ristorantini del cuore storico, lo spirito culinario si mantiene per lo più casereccio e godereccio, vantando la qualità di ingredienti semplici e genuini, offerti da una terra ospitale come il suo popolo. E’ facile dunque fuggire gli snobismi gastronomici e non cadere vittime di mirabolanti proposte di cucina creativa, se si vuole assaggiare er mejo della cucina romanesca e abbandonarsi alle tentazioni di primi robusti e sughi corposi, per non parlare di vini schietti e penetranti, sapori che inconsapevolmente invitano alla socializzazione, al convivio, all’allegrezza della carne e dello spirito.
Sarà anche per questo retrogusto psicologico, quasi goliardico, della cucina romanesca che molti letterati del passato, italiani e stranieri, hanno decantato ricette e luoghi di una Roma Capoccia che, vista attraverso i loro occhi e raccontata attraverso le loro liriche, appare ancor più madre, matrigna, fata e strega. Così, non solo sulle tavole imbandite della capitale ma anche sulle pagine di testi memorabili troneggiano fettuccine, abbacchio e pajata, per non parlare di frattaglie, budelline brodettate, pasticci di zinna di vacca e milza con i funghi. Sì, perché anche gli ingredienti umili, gli scarti e tutto ciò che normalmente non compariva sulle mense dei ricchi, dei nobili e dei cardinali, ha sempre avuto un posto d’onore nella cucina romana. Anzi, è proprio la cucina povera quella tipicamente romanesca, non quella dei Papi! Tutt’oggi, se volessimo fare un confronto tra la cena del cittadino romano medio descritta dai letterati latini e dai poeti conviviali con il modo di mangiare diffuso nella campagna romana troveremmo ben poche differenze: uova, polli, agnelli, lardo, pesci di paranza, fave, puntarelle, verdure selvatiche, uva, fichi …
Così come il turista moderno s’innamora dei sapori romaneschi, allo stesso modo l’impatto che questa cucina aveva sullo straniero doveva essere davvero straordinario. E quando quello straniero era anche un letterato, ecco che la curiosità e lo stupore per il cibo si trasformava in lirica, sonetto, romanzo, per rimanere eternamente scolpito nella memoria collettiva. Una delle prime attrazioni per i forestieri di tutti i secoli era rappresentata dalle osterie, numerosissime rispetto alla popolazione. Nel Cinquecento se ne contavano oltre un migliaio e servivano sia da asilo per i viandanti, sia da accoglienza per i personaggi illustri in attesa d’essere ricevuti alla corte papale.
Uno dei letterati stranieri più generoso nei confronti della cucina e delle abitudini romane è stato Michel de Montaigne che, attorno al 1580, soggiornò lungamente a Roma sedotto dalla vita colorita, lussuriosa e carnale della capitale. Questi “assaggi” di vita erano per lui un modo per conoscere se stesso attraverso gli altri, una ricerca di consapevolezza che ha accompagnato tutto il suo cammino di pensatore. Il celebre scrittore francese nel suo Viaggio in Italia descrisse usi , pensieri e stravaganze dei cittadini romani con particolare meticolosità nei riguardi della cucina di cui era profondo estimatore. “A Roma c’eran già rose e carciofi, ma quanto a me non soffrivo affatto caldo ed ero vestito e coperto come a casa mia. C’era meno pesce che in Francia; i lucci specialmente qui non san di nulla e si lasciano al popolo. Raramente si trovan sogliole e trote, e barbi ottimi e assai più grandi che a Bordeaux, ma cari; le orate son tenute in gran pregio, e le triglie son più grandi delle nostre e un po’ più sode. L’olio è eccellente, al punto che qui non sento mai quell’aspro che in Francia mi resta nella gola. Si mangia uva fresca tutto l’anno, ancora in quest’epoca se ne trova di ottima appesa ai pergolati. Il montone invece qui è pessimo e tenuto in nessun pregio ..”
Un altro personaggio beatamente sedotto dalle tentazioni gastronomiche romane fu Charles de Brosses che dedicò 17 delle 55 Lettres familières proprio a Roma. Il magistrato, filosofo e linguista francese scriveva le sue lettere seduto a un tavolo di un’osteria o di una locanda, traducendo “dal vivo” sapori, aromi, fragranze consentendo così al lettore un giudizio tangibile, quasi condiviso. Un po’ come fanno oggi i critici gastronomici. “Qui a mio parere si mangia assai bene …Non la selvaggina, che è mediocre, ma le cose comuni qui sono ottime. Il pane, la frutta, la carne, il vitello e soprattutto il manzo, del quale non è mai lodato abbastanza.Le minestre di pastasciutta, vermicelli o maccheroni si usano moltissimo: del primo piatto non dicono né bene né male, mentre sul secondo concordo con Arlecchino: ben cucinato, nel latte o nel brodo, gli trovo il gusto di un ottimo pasticcio. Per quanto riguarda le composte di frutta, conviene dare la preferenza a quelle di cedri tagliati in quattro e bolliti semplicemente nell’acqua con un po’ di zucchero, come una leggera composta di mele.” Probabilmente Brosses intendeva limoni e non cedri, poiché all’inizio del Settecento in Francia gli agrumi erano frutti rari e poco conosciuti nelle loro varietà.
Un certo Antoine-Claude Pasquin, meglio conosciuto come Valery, nel 1841 pubblicò una guida turistica dal titolo L’Italie confortable, in cui grande spazio è dedicato alla cucina romanesca. In particolare “Niente di più delicato delle fritture di cervello, di animelle di vitello e di agnello, e di rognone di agnello e granelli… i piccioni locali sono i migliori d’Italia. Questi piccioni fini, bianchi, rosa, danno un brodo squisito, stomatico e salutare ai convalescenti. La superiorità della loro razza risale all’antichità”.
Antichità: forse è questo l’ingrediente segreto che rende ancora oggi così straordinaria la cucina romanesca, insieme al suo popolo e alla sua Città. Una delle poche cucine al mondo in cui si affastellano e riaffiorano diverse epoche storiche e sociali, in cui il passato riemerge attraverso sapori mai sopiti, odori ancora intensi e immagini di vita quotidiana resi eterni dalle tradizioni famigliari. Accanto alla cucina povera c’è quella borghese e nobiliare, mentre ai piatti tradizionali si affiancano quelli delle regioni vicine, sedotte o conquistate dal fascino capitolino. A condire il tutto, sopraggiunge la cucina ebraica in un generoso e reciproco scambio di influenze che nel tempo hanno impreziosito ancor di più aromi e fragranze.
E cosa dire del vino? Dai Castelli a Sabina, da Aprilia ai Monti Lepini, da Agnani a Montefiascone quella dei romani per il vino è stata sempre un’atavica passione per il piacere della vita. Tanto che per mettere un freno agli eccessi e tenere svegli i sensi, Leone XII fece installare dei cancelletti davanti alle osterie affinchè gli avventori non potessero sedersi e crogiolarsi per ore con la bottiglia, migrando ebbri dalle braccia di Bacco a quelle di Morfeo. E senza scomodare qualche letterato straniero del passato, per capire quanto importante sia il vino per il romano di tutti i tempi, basta dare la parola a chi mejo de tutti ha saputo elogiarne la bontà nel linguaggio più opportuno: Gioacchino Belli.

Er Vino

Er vino è ssempre vino, Lutucarda:
Indove vòi trovà ppiù mmejjo cosa?
Ma gguarda cqui ssi cche ccolore!, guarda!
Nun pare un'ambra? senza un fir de posa!
Questo t'aridà fforza, t'ariscarda,
Te fa vvienì la vojja d'èsse sposa:
E vva', si mmaggni 'na quajja-lommarda,
Un goccetto e arifai bbocc'odorosa.
È bbono assciutto, dorce, tonnarello,
Solo e ccor pane in zuppa, e, ssi è ssincero,
Te se confà a lo stommico e ar ciarvello.
È bbono bbianco, è bbono rosso e nnero;
De Ggenzano, d'Orvieto e Vviggnanello:
Ma l'este-este è un paradiso vero!

lunedì 10 novembre 2014

Un libro per amico



Ci sono libri che entrano a far parte della propria vita e ci restano per sempre. Come fossero specchi di sé, sempre pronti a farsi guardare, penetrare, sfogliare per restituire in cambio conforto, fiducia, sicurezza, qualora ne occorra. 
Del resto, molto spesso, quando ci si rivolge a un libro e, soprattutto, quando ci si rifugia in uno già letto, significa che si sta andando proprio alla ricerca di quello: conforto, fiducia, sicurezza. In una parola: Amicizia.
Uno di questi libri è per me rappresentato dai Saggi di Montaigne, tanto monumentale quanto lieve tesoro di semplice buon senso per uso comune, sempre attuale, sempre vivo. E' uno di quelli che se apro qua e là a caso, sono certa di trovare sempre qualche cosa che mi appartiene. E strizzandomi l’occhio anche oggi, Montaigne ha forse voluto giocare con me su quest’idea di avere un libro come amico, ricordandomi che in verità un libro è molto, molto più di un amico, e persino molto più di un amore.
Infatti, nel capitolo Dei tre commerci, Montaigne pone a confronto le tre compagnie che più hanno allietato la sua esistenza: le donne belle e oneste, le amicizie rare e scelte e i libri. Donne e amici, scrive, dipendono dal caso e dagli altri. “Uno presenta l’inconveniente della rarità, l’altro avvizzisce col passar degli anni …I libri sono molto più sicuri e nostri.”
Montaigne, infatti, dopo la morte dell’unico amico La Boétie non conoscerà altre forme d’amicizia, mentre per quanto riguarda le sue arti amatorie spesso si rammarica del naturale scemare del suo a lungo esercitato vigore. Al contrario, la lettura offre per lui il vantaggio della costanza e della durevolezza. In realtà, è strano sentir dire da Montaigne - il quale in tutta la sua vita ha prediletto il rapporto con l’altro-da-sé - che la lettura sia il miglior commercio tra amicizia e amore ma, forse, sentiva che anche la lettura alla fine è una compagnia che conduce a un’apertura verso gli altri.
“La lettura mi consola nella vecchiaia e nella solitudine. Mi allevia il peso di un ozio molesto e in qualsiasi momento mi libera delle compagnie che mi sono sgradite. Mi basta ricorrere ai libri per sottrarmi a un pensiero importuno, giacchè i libri mi attirano facilmente a sé facendomelo dimenticare. E non se ne hanno a male se vedono che li cerco solo quando mi vengono a mancare quegli altri due piaceri, più reali, vivi e naturali. Mi accolgono sempre col medesimo viso.”
Ecco, forse è proprio questo pensiero che mi ha strizzato l’occhio oggi guardando i Saggi nella mia libreria: i libri, a differenza degli esseri umani, non protestano mai, non si offendono se vengono ignorati, non si lamentano se vengono trascurati e sono sempre lì, pronti a venirci in soccorso nei momenti di emotività, di ricerca, di confusione o di semplice ozio. A loro, al contrario di amici e amanti, non dobbiamo rendere conto di niente: ci ascoltano e ci nutrono non solo di parole ma di sentimenti e pensieri che ci ricondurranno agli altri più saldi e più vivi.
In fondo, penso che questo sia un delizioso e meritato elogio alla carta stampata, resuscitato proprio in un’epoca in cui il fruscio delle pagine sta per essere dimenticato. Forse nuovi filosofi partoriranno nuove riflessioni su nuove forme di amicizia, di amore e di lettura ma probabilmente sarò troppo vecchia per affezionarmi a compagnie così astratte. Staremo a vedere…
Nel dubbio, meglio conservare con cura I Saggi di Montaigne, amico da sfogliare all’occorrenza, nei momenti di emotività, di ricerca, di confusione o, semplicemente, in giornate come questa.

sabato 1 novembre 2014

IL VIAGRA NATURALE CHE VIEN DAL MARE


NE’ OSTRICHE, NE’ TARTUFI NE’ PILLOLE BLU: ECCO LA VERA BOMBA AFRODISIACA A “PROVA DI BOMBA”



Se Gian Giacomo Casanova, amante del piacere per eccellenza e simbolo della seduzione di tutti i tempi, l’avesse conosciuta se ne sarebbe perdutamente innamorato. E non ne avrebbe più potuto fare a meno.
Non si tratta di una donna ma di un alimento: il vero condimento dell’amore.
Ad inventarlo è stato Pasqualino Famularo, maestro nell’arte di conservare il pesce, quel buon pesce che le acque di Lampedusa generosamente gli offrono tutto l’anno. Dalla tradizione di famiglia, ereditata dal padre Gaetano, Pasqualino ha tratto ispirazione diversificando sempre più la produzione dei prodotti, conservati in maniera rigorosamente naturale, e trasformando l’azienda in un vero business.
Una delle sue creazioni, in particolare, avrebbe fatto perdere la testa all’eccentrico libertino: la Bomba Afrodisiaca, altrimenti detta “Viagra naturale”.
Acciughe, sarde, peperoncino, erbe aromatiche, olio extravergine d’oliva, sale e … un tocco segreto che, insieme alla semplice genuinità della materia prima, trasformano letteralmente l’alchemico miscuglio in una Bomba Afrodisiaca. 
Pasqualino assicura che dopo aver assaggiato una fetta di pane generosamente spalmata di questa cremosa salsa, possibilmente in compagnia della persona amata, tutti i sensi sono solleticati da un inequivocabile appetito. E, come si sa, il piacere erotico è per l’anima ciò che la buona tavola è per lo stomaco!
I vantaggi della Bomba Afrodisiaca rispetto alle ostriche, per esempio, al tartufo - entrambi custodi di millantati poteri eccitanti - o rispetto alla nota pillola blu, sono parecchi. La Bomba, infatti, costa poco, ha un ottimo sapore, fa bene alla salute ed è indicata a uomini e a donne. “La mia bomba afrodisiaca è… a prova di bomba, scommetto qualunque cifra sugli effetti”, conferma Pasqualino.
Naturalmente, il successo di questo prodotto non deriva esclusivamente da ingredienti di altissima qualità e da una lavorazione naturale ma anche da quel tocco segreto che da sempre Pasqualino condivide con la signora Maria, sua moglie. “Assieme a mia moglie ho proposto 140 modi di mangiare pesce. Sperimentando, sempre con mia moglie, è arrivata la bomba afrodisiaca….".
Vien facile immaginare che le sperimentazioni dei signori Famularo siano state molto piacevoli, ma altrettanto piacevole è l’assaggio della Bomba, soprattutto se impiegata con fantasia, come il linguaggio d’amore esige. Ed è proprio la signora Maria a suggerire una ricetta tanto semplice quanto stuzzicante per apprezzare al meglio i sapori di un Mediterraneo tutto da gustare, accontentando tutti, ma proprio tutti, i sensi.
Penne con gamberi e zucchine
Tagliare le zucchine a bastoncino e farle dorare in un tegame con aglio e olio extravergine d’oliva. Quasi a fine cottura, aggiungere i gamberetti e un cucchiaino della famosa Bomba afrodisiaca e versare mezzo bicchiere di vino bianco fino a farlo evaporare. Scolare la pasta cotta al dente, versarla nel tegame e amalgamare il tutto. Aggiungere se necessario olio extravergine crudo, una manciata di prezzemolo tritato e pepe, infine servire … con amore!

(per Menu Magazine)